Elena Ferrante, una penna molesta, una penna geniale


Elena Ferrante, una penna molesta, una penna geniale


ferranteLe cose più difficili da raccontare sono quelle che noi stessi non riusciamo a capire

(La figlia oscura, 2006, p. 6)

Scrivere di Elena Ferrante mi appare quasi arduo, un po’ come riuscire a carpire qualcosa della sua riservatissima esistenza, o piuttosto della sua vociferata, senza riscontro, identità. Scriverne, da parte mia, mi appare quasi pretenzioso e riduttivo, insufficiente a poter dare la misura della devota ammirazione che ho per questa scrittrice, capace di “cum movere” con semplici frasi compiute che definirei, più volte, brillanti di luce propria, come i capelli di Amalia, madre di Delia: “Mi aveva fatto con capelli di ripiego […], non la pece lucente della sua chioma, non la pasta di vetro buio-luccicante dentro cui soffiavano il fiato tutti quelli che le dicevano: come sono belli” (L’amore molesto, 1992). Mi convinco allora che l’isolamento a cui si votano le varie donne dei suoi romanzi, Delia, Olga (I giorni dell’abbandono) o Leda (La figlia oscura), altro non è che un catalizzatore della loro già presente e inconsapevolmente fulgida luce interiore, come espresse in una frase un’amata poetessa, Alda Merini: “Più mi lasciano sola, più splendo”.

A blandire la curiosità ruotante attorno alla sua sfuggente figura ci pensa lei stessa:

“A mia scusante, però, ti dico solo questo: nei giochi per i giornali si finisce sempre per mentire e alla radice della menzogna c’è la necessità di offrirsi al pubblico nella forma migliore, con pensieri adeguati al ruolo, col fard che ci immaginiamo sia adatto”. (La frantumaglia, 2003, p. 91).

Un prendere o lasciare che ci fa, libro dopo libro, sempre più propendere per il primo, a piene mani. Come tutti i bibliofili sapranno, Elena Ferrante è soltanto il nom de plume della scrittrice, di cui non è dato conoscere né il volto, né i dettagli di vita. Centellinando di sé solo qualche vago accenno in interviste, rare, e lettere, ha rivelato di essere nata a Napoli e di aver vissuto a lungo all’estero. Fantastica e calzante la definizione che del suo scrivere ne dà Angelo Guglielmi, giornalista dell’Unità: “La Ferrante non raccoglie fiori dai campi per aggiustarli in mazzetti profumati, ma tira su il secchio dal pozzo” (16 dicembre 2003, pubblicato nell'edizione Nazionale (pagina 24), nella sezione "Cultura").

L’autrice, alle illazioni sul suo conto preferisce far parlare i suoi libri; in una lettera che inviò all’editore del primo romanzo spiega:

“Una volta scritti [i libri, ndr], non hanno bisogno dei loro autori […] Io amo molto i volumi misteriosi, antichi e moderni, che non hanno un autore preciso, ma che hanno avuto e continuano ad avere un’intensa vita propria”.

Un’affermazione veritiera, tuttavia la sua resta una scrittura così intensamente femminile, nelle pieghe, negli anfratti emotivi, nei recessi della coscienza, nell’affronto e riscatto dal dolore, nel difficile rapporto madre-figlia ed in copiosi altri dettagli, così come negli innegabili e profondi spunti personali e nelle sfumature sulla maternità, che sarebbe un colpo basso assestato al nostro orgoglio femminile venire in futuro a scoprire si sia trattato di maschia mano. Difficile scrivere di lei perché, come spesso accade con certi scrittori di cui poco o nulla si conosce, tutto prende corpo dalla sua intensissima penna, scrittura che scorre come rapido fiume ora descrittivo ora introspettivo, supera lo stomaco dopo avergli assestato bei colpi mirati e poi s’arresta in nevralgici punti, ora in pancia ora in cuore, in cui la sonda si fa cupa come il pensiero, scava la memoria cardiaca e porta trionfante in superficie qualcosa che avremmo voluto restasse impolverato. Scopriamo poi, a libro chiuso, che sono le nostre viscere a parlare di riflesso, i nostri organi più interni.

Nei suoi romanzi, da L’amore molesto, fino a I giorni dell’abbandono, a L’amica geniale, passando per La figlia oscura, si parla solo ed esclusivamente di donne, e sono donne ombrose, solari, misteriose, complicate, indelebili esempi di ricerca feroce sull’identità femminile e sulla madre. Ritratti di donne – gli uomini sono spesso tratteggiati in modo sfumato e marginale - che favoriscono inevitabili riflessi nel lettore, un meccanismo emotivo spesso caro alla femminea sfera: disfarsi, andare in frantumi, farsi appunto “frantumaglia” dopo essere cadute nel gorgo di sé, come madri e come figlie. La stessa Ferrante racconta di questo strano vocabolo ereditato dal dialetto materno, utile a spiegare come la madre si sentisse quando era tirata di qua e di là da impressioni contraddittorie che la laceravano:

"La frantumaglia è un paesaggio instabile, una massa aerea o acquatica di rottami all'infinito che si mostra all'io, brutalmente, come la sua vera e unica interiorità. La frantumaglia è il deposito del tempo senza l'ordine di una storia, di un racconto. La frantumaglia è l'effetto del senso di perdita, quando si ha la certezza che tutto ciò che ci sembra stabile, duraturo, un ancoraggio per la nostra vita, andrà a unirsi presto a quel paesaggio di detriti che ci pare di vedere" (La frantumaglia, 2003, p. 126).

Leda, ne La figlia oscura, del 2006, è una colta cinquantenne napoletana divorziata, che si prende una vacanza sullo Ionio; la partenza delle figlie non solo non ha generato, in lei, quella temuta “sindrome da nido vuoto” che coinvolge un po’ tutte le madri:

“Nessuno dipendeva più dalla mia cura e io stessa finalmente non mi ero più di peso” (p. 13) ma se ne sente sollevata, senza colpe – “mi sentivo leggera come se solo allora le avessi definitivamente messe al mondo” (ibidem, p. 6).

L’incontro in spiaggia con Nina e con sua figlia Elena, ma soprattutto l’opaco gesto, l’appropriazione indebita, da parte di Leda, della bambola simbolo fortissimo di una maternità forse perfetta  che la bambina stringe sempre a sé, rappresenta la prima tappa di un percorso di passione interiore: il gesto “perturbante” del furto infantile – che sovverte l’altrui serenitàche si fa esperienza “disturbante” e che la porterà a fare i conti, a viso aperto, con la propria coscienza di figlia e di madre, due mestieri che nessuno ti insegna.

L’essenza metaforica della bambola è una sorta di vibrante e non casuale filo rosso che si dipana fino all’incipit del più recente romanzo, L’amica geniale, del 2011 (primo volume di una trilogia che avrà, come seconda uscita nel 2012, quella di Storia del nuovo cognome), che inizia, appunto, con la sparizione di una bambola, in seguito mai più ritrovata. È interessante, e aggiungerei anche naturale, cercare di decifrare il significato di tale gesto e la ricorrenza dell’oggetto in sé: la bambola gettata nella cantina è lì a sancire simbolicamente una sorta di sacro patto di “sororanza” tra due amiche, l’iniziazione all’oscurità della condizione femminile, oppure segna la fine di una pubertà più mentale che fisica e, dunque, l’abbandono dell’infanzia stessa? O ancora è semplicemente “assenza, più acuta presenza”, per citare Bertolucci, qualcosa, cioè, che si è perduto e a cui si ripensa di tanto in tanto, nonostante il trascurabile valore, convincendosi che se non fosse accaduto la nostra vita avrebbe preso un altro corso?

L’amica geniale si discosta dai romanzi precedenti non solo perché le protagoniste in questo caso sono due, ma soprattutto perché, a differenza del nucleo narrativo degli altri, ascrivibile a un contesto di puro “isolamento”, come per Delia, Olga o Leda, descrive doviziosamente non un luogo “senza comunità” (come la scrittrice definisce l’isolamento in un’intervista rilasciata a Goffredo Fofi per Il Messaggero del 24 gennaio del 2002), bensì l’amicizia che stringe due bambine, Raffaella detta Lila ed Elena,  Lenuccia; a questo, quasi simbiotico, percorso di vita fa da cornice un quartiere disagiato della Napoli anni ’50, dove le due crescono assistendo in prima persona alla lotta per la sopravvivenza e a drammatiche realtà di quotidiano degrado. Lila e Lenuccia sono due creature assai diverse: la prima ha le sembianze di un brutto anatroccolo, per di più selvatico, con il suo eccessivo cinismo, la sua feroce caparbietà:

era uno stecco, sporca, sempre con qualche ferita... parlava solo un dialetto sferzante, pieno di maleparole, che stroncava sul nascere ogni sentimento di amore”.

Lila brilla di luce propria, seppur all’inizio fioca, ma diverrà, nel tempo, un cigno sensuale e naturale, colluso con il suo carattere sfacciato e quasi foriero di disgrazie. Un talento il suo, così come la sua affinata intelligenza, mortificati dalla vita grama del rione da cui non riuscirà, a differenza di Lenù, ad affrancarsi. Quest’ultima diligente, volenterosa, affidabile, dolorosamente consapevole del suo ruolo da seconda dopo Lila, nonostante i titoli scolastici ottenuti, è l’io-narrante di questo lungo viaggio che sente il bisogno di raccontare sin dall’inizio. Una dipendenza psico-fisica da Lila, la sua, che non viene, spesso, contraccambiata con paritaria devozione e attenzione:

Sentivo che Lila non voleva essere più amica mia e quella idea mi dava una stanchezza come se avessi sonno... a volte mi andavo a sdraiare sul letto e dormicchiavo”.

Il distratto trascurare di Lila che si fa liquido e soporifero dolore in Lenuccia.

Uno dei comuni denominatori, forse il più rilevante, nei romanzi della Ferrante è l’eros, una passione che suscita Lila negli altri e che affiora anche attraverso lo sguardo accorto e ammirato di Lenuccia per lei, e questo anche perché  “l’amore è sempre molesto o non è”, è comunque molestatore di un ordine, perché “una storia d’amore è sempre la storia di uno squilibrio” (come scrive la Ferrante al termine di un’intervista via e-mail al quotidiano Repubblica , nel settembre 2012, in occasione dell’uscita di Storia del nuovo cognome). L’autrice scava nella natura complessa della loro amicizia, ne percorre attenta la crescita e il condizionamento reciproco, gli scontri e i confronti, l’osservazione ripetuta l’una dell’altra, ne evidenzia i buoni sentimenti, l’ammirazione, la complicità, il mutuo sostegno, ma anche i cattivi, quali la gelosia, il senso di rivalsa, l’ammirazione che si fa invidia latente, sentimenti che nutrono, comunque, un rapporto amicale solido, robusto, che perdurerà fino all’età adulta. Lila, distratto nocchiero della quieta nave Lenuccia, inconsapevole induttrice di umorali cambiamenti, caparbio timone di cuori pacati in tempesta.

Scrive, a tal proposito, Marguerite Yourcenar sull’eros:

Se un essere solo anziché ispirarci tutt’al più irritazione, piacere o noia, ci insegue come una musica e ci tormenta come un problema, se trascorre dagli estremi confini al centro del nostro universo, e infine ci diventa più indispensabile che noi stessi, ecco verificarsi il prodigio sorprendente, nel quale ravviso ben più dello sconfinamento dello spirito nella carne che un mero divertimento di quest’ultima” (Memorie di Adriano, 1951, p. 11).

I dolori sono insegnamenti”, diceva Erodoto nelle Storie (Παθήματα - μαθήματα 1. 207), tutti. Ma come reagire quando il dolore è vivo, nascituro inatteso e dirompente, ci coglie impreparati, è pulsante come un fiotto di sangue che non sappiamo arginare, gocciola terrore, ansia, senso di vuoto, disperazione? Non esiste soffio umano o divino potente che spazzi via dalle bruciature il fuoco dell’eros tradito, insieme al senso di abbandono. Come non restare, ancora una volta, arpionati da una scrittura generata dal ventre?

scrivere veramente è parlare dal fondo del grembo materno” (pp. 141-142).

Un pomeriggio d'aprile, subito dopo  pranzo, mio marito mi annunciò che voleva lasciarmi”.

 

I giorni dell’abbandono (2002) è un romanzo il cui incipit evoca, in qualche modo, quello de L’amore molesto (1992): Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno”; un annegamento figurato, certo, ma un altrettanto “scendere nel gorgo muti” di pavesiana memoria. Il primo romanzo era incentrato sul triangolo maternità-sangue-morte, la seconda opera prende spunto da un lutto anch'esso simbolicamente legato alla perdita della madre, perdita dell'amore primigenio, punto al quale ogni abbandono sembra ricondurre. Olga l’abbandonata, che ha sacrificato una propria carriera a vantaggio di un’assidua presenza nella vita dei figli, moglie e donna che nasce e si nutre dei toni alti e gridati di Napoli e si leviga e disciplina per anni a Torino, per divenire poi quieta e pacata ancella, con un destino di  parabola avversa. La deflagrazione interiore si riverbera su tutto e tutti, come fumo cementizio dopo il crollo, è scompaginamento di ruolo di figlia, moglie e madre. L’abbandono subìto che diventa, a sua volta, cessione del controllo fisico, psicologico, linguistico: l’eloquio pacato diventa violento e scurrile, così come i gesti, di una disperazione che è carnale e cerebrale al tempo stesso, in linea fatale con i suoi gusti letterari:

amavo la scrittura di chi ti fa affacciare da ogni rigo per guardare di sotto e sentire la vertigine della profondità, la nerezza dell'inferno” (p. 21).

“Io sono il mio cielo e il mio inferno”, diceva von Schiller, anzi, è il mio corpo a divenire ricettacolo dell’inferno interiore che vivo, è l’agnello sacrificale, proprio perché rifiutato e scartato, su cui si riversa il linguaggio del delirio:

L'andamento che ordina eventi è solo il momento dell'accumulo di energia prima di una nuova tromba d'aria. Un'immagine, questa, che mi torna utile: permette di pensare a un tempo del dolore che ci investe avanzando a vortice; ma anche a una scrittura delle emozioni che sia sonorità del respiro, un vento dei polmoni che, producendo musica, fa roteare relitti d'epoche diverse e infine mulinando passa. Delia e Olga raccontano dal di dentro di questo vorticare. Anche quando rallentano non prendono le distanze, non contemplano, non si ritagliano spazi esterni di considerazione. Sono donne che dicono la loro storia dal centro di una vertigine” (La frantumaglia, 2003, p.117).

È nella carne che si verga l’osceno eloquio:

andare al fondo, abbandonarmi, sprofondare sorda e muta nelle mie stesse vene, nel mio intestino, nella vescica” (p. 110).

Anche qui, come nell’Amore molesto, le fasi cardine di donna si sovrappongono e la fanciulla incancellabile che era torna a parlare con gli occhi di allora, ricordando a sé stessa, come bruciante contrappasso, l’immagine della “poverella”, sintesi di donna abbandonata, descritta con complice indulgenza dalla madre:

Un dolore così appariscente cominciò a disgustarmi. Avevo otto anni ma mi vergognavo per lei, non si accompagnava più ai figli, non aveva più l'odore buono. Adesso veniva giù per le scale rigida, il corpo prosciugato [...]. Era diventata di pelle trasparente sulle ossa, gli occhi annegati in pozze violacee, le mani di ragnatela umida. Mia madre esclamò una volta: poverella, è diventata secca come un'alice salata. Da allora la seguii ogni giorno con lo sguardo per sorvegliarla mentre usciva dal portone senza la borsa della spesa, senza occhi nelle occhiaie, il passo che sbandava. Volevo scoprirne la natura nuova di pesce grigioazzurro, i grani di sale che luccicavano su braccia e gambe” (p.15).

Questa è l’immagine persecutoria di Olga, assimilarsi alla “poverella”, finendo poi per assomigliarle sempre di più, fino a quando il marito non muore - dentro di lei - attraverso la morte reale del suo cane. Tutta la parte centrale del romanzo è occupata dal racconto di una sola giornata, quella decisiva che fa da snodo all’intera vicenda, quando la crisi di Olga tocca il suo apice. Poi, il verificarsi di un nuovo evento doloroso, la morte del cucciolo domestico, la contemplazione dell’agonia dell’animale:

“Tenersi dunque a queste nozioni: il cane è vivo, per ora; la donna invece è morta, annegata da tre decenni; io ho smesso di essere una bambina di otto anni trent'anni fa. Per ricordarmene mi morsi una nocca a lungo, fino a sentire dolore. Poi sprofondai nel tanfo malato del cane, volli sentire solo quello” (p. 127), provvedono a dissipare il dolore originario, preludendo alla rimozione di quella condizione di labilità, di distonia, che nella protagonista era venuta a maturare rispetto alla realtà:

“Quella prossimità di morte reale, quella ferita sanguinante della sua sofferenza, di colpo, insperatamente, mi fece vergognare del mio dolore degli ultimi mesi, di quella giornata sovratono di irrealtà. Sentii la stanza che tornava in ordine, la casa che saldava insieme i suoi spazi, la solidità del pavimento, il giorno caldo che si distendeva su ogni cosa, una colla trasparente. Come avevo potuto lasciarmi andare a quel modo, disintegrare così i miei sensi, il senso dello stare in vita”.

Lentamente assistiamo al progressivo recupero di sé, di una parvenza di normalità, di cosmos contro caos, soprattutto la vediamo recuperare il suo ruolo ancestrale di femmina, di madre, in virtù di quell’impeto e di quella passione che sembrava aver dimenticato:

“Devo reimparare il passo tranquillo di chi crede di sapere dove sta andando e perché”.

Il libro segue gradualmente questa strada, questa riappropriazione di sé, quando l’autodeterminazione e la forza diventano nuovamente le proprie risorse, perché poi

in fondo la vita non è che "un sussulto di gioia, una fitta di dolore, un piacere intenso, vene che pulsano sotto la pelle, non c’è nient’altro di vero da raccontare”.

Saldare insieme gli spazi, ma soprattutto le crepe della vita, mi ricorda quello che i giapponesi fanno quando riparano un oggetto rotto: ne valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell'oro.

Essi credono che, quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia, diventi più bello.


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Martina è nata vicino Roma 34 anni fa. Dopo aver passato tutta l’infanzia e anche oltre in Brianza, per...Read more >>
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Toscana, vive e lavora in provincia di Pistoia, dopo aver trascorso alcuni anni a Bologna e a Londra....Read more >>
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