L’amore molesto, il viaggio interiore di Elena Ferrante
di Pia Elena Caprioli
Nell'incipit de L'amore molesto, il corpo di una donna galleggia nella risacca del litorale di Spaccavento. Inizia così l'indagine retrospettiva della Ferrante nell'immaginario di una ragazzina raggomitolata sulla soglia di tormentosi ricordi che si intrecciano a fantasie infantili lontane nel tempo...
Elena Ferrante, un nome che di sfuggita avevo colto molte volte, un suono familiare eppure completamente sconosciuto, fino a quando, un bel giorno, ho deciso di arricchire la mia libreria con un titolo che ha catturato la mia attenzione suscitando in me, a primo impatto, un insolito senso di smarrimento, misto a una tacita e misteriosa angoscia, come un brutto presentimento.
Si tratta di L’amore molesto, il primo romanzo di E. Ferrante, pubblicato nel 1991, da cui è tratta l’omonima pellicola di Mario Mortone. Questo romanzo ha ottenuto un successo immediato fin da subito, in Italia e nel mondo, nonostante l’identità dell’autrice sia completamente sconosciuta e il suo nome sia in realtà uno pseudonimo. L’amore molesto vince anche il premio Elsa Morante, che l’autrice non va a ritirare personalmente. Non è mai apparsa in televisione, e le rare interviste rilasciate sono state sempre mediate, ad esempio dall’editore. Si sa soltanto che è nata a Napoli e che ha vissuto a lungo all’estero. Di conseguenza, sono state avanzate varie ipotesi, tirando in ballo nomi sia femminili che maschili di autrici o autori conosciuti, o sostenendo addirittura che un gruppo di loro abbia creato una scrittrice fittizia per conferire all’opera una nuova forma. Ad ogni modo, non conoscendo l’identità di Elena Ferrante, non sappiamo nemmeno se si tratti di un uomo o di una donna, quindi bisogna tener presente anche l’importanza del rapporto maschile/femminile: potremmo infatti essere davanti a una scrittura femminile prodotta da mano maschile. Naturalmente, nascondere l’identità dell’autrice costituisce anche un’operazione commerciale, che ha infatti provocato numerosi dibattiti, perché in una società come la nostra, dove si è sempre al centro dell’attenzione e qualsiasi cosa è ormai alla portata di tutti, sembra quasi inaccettabile che una scrittrice così famosa continui a preferire l’anonimato. In una lettera inviata all’editore di questo primo romanzo, l’autrice spiega che preferisce far parlare i suoi libri, perché l’importante è l’opera, non chi l’ha composta. È chiaro qui il riferimento letterario alla tradizione della differenza tra autore e narratore.
“Una volta scritti, non hanno bisogno dei loro autori […] Io amo molto i volumi misteriosi, antichi e moderni, che non hanno un autore preciso, ma che hanno avuto e continuano ad avere un’intensa vita propria”.
Inizio la mia lettura, e dopo il frontespizio mi imbatto nella dedica: “a mia madre”. Il mio sgomento cresce, per culminare nell’incipit del romanzo e mantenersi vivo in ogni pagina:
“Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, nel tratto di mare di fronte alla località che chiamano Spaccavento, a pochi chilometri da Minturno”.
Comincia così il racconto, tutto in prima persona, dell’amore molesto di Delia verso la madre Amalia, mai chiamata mamma nel corso del romanzo, annegata il giorno del compleanno della figlia. Tutto il racconto è ambientato a Napoli, anche se Delia non vive più nella sua città natale, da cui è fuggita rifugiandosi a Roma. La mattina del 23 maggio, dopo tre agghiaccianti e insolite telefonate ricevute il giorno prima dalla madre, che sarebbe dovuta partire per Roma, Delia si trova di fronte al corpo livido e seminudo di Amalia, che indossa solo un reggiseno. Dopo il funerale, Delia decide di trattenersi a Napoli per cercare di ricostruire gli ultimi giorni di vita della donna. Inizia così una lunga indagine che conduce Delia e i suoi lettori attraverso una città cupa e grigia, in una corsa a perdifiato attraverso i luoghi che hanno caratterizzato l’infanzia di Delia e che riaprono in lei ferite mai rimarginate, un viaggio fisico e mentale tra passato e presente. La narrazione procede infatti in un’atmosfera onirica e simbolica, mescolando pensieri, ricordi, incubi e realtà, e portando Delia a rivivere i momenti più tragici della sua difficile infanzia, che ha generato in lei quel male di vivere che la caratterizza. Tutto ciò che ha sempre cercato di seppellire nel punto più profondo di se stessa, costringendo la sua mente a dimenticare senza mai riuscirci del tutto, ritorna con prepotenza e con più forza di prima, nella misura in cui viene rivissuto da una Delia ormai adulta, ma in fondo ancora bambina. Il romanzo si sviluppa infatti in una duplice dimensione: la Delia adulta dovrà tornare alla Delia bambina per capire e riappropriarsi dell’immagine della madre, per crescere e diventare finalmente autonoma.
È dunque il rapporto madre-figlia, burrascoso e complesso, il punto focale del romanzo, e questo non è certamente un caso. Dopo più di vent’anni trascorsi dal dibattito femminista degli anni’70, in cui il ruolo della madre venne messo in crisi perché accusato di collaborare con il sistema patriarcale nel processo di formazione dell’identità delle figlie come nuove procreatrici, questo rapporto torna al centro dell’attenzione. Il processo critico femminista, scaturito dal fatto che le figlie non trovavano nelle madri - figure caste e sacre, di grande autorità ma allo stesso tempo escluse dalla vita pubblica - dei modelli nei quali identificarsi, ha portato successivamente a una riconsiderazione della figura materna e a una nuova idea del rapporto madre-figlia tra gli anni ’80 e ’90, analizzando gli elementi storico-culturali che avevano indotto le madri ad agire così nei decenni precedenti. Già con gli anni ’80 compaiono quindi una serie di romanzi dedicati alla maternità, in cui emerge una nuova idea della figura femminile e del rapporto madre-figlia. Mettere in crisi la figura materna vuol dire far scaturire sia un sentimento di odio che di denigrazione, entrambi elementi che troviamo in questo romanzo. L’affetto di Delia verso la madre è irrisolto e contraddittorio, al limite del desiderio fisico. Delia ama ed odia Amalia con la stessa intensità, restando imprigionata in questa sinistra contraddizione. L’ansia della Delia adulta la riporta all’ansia della Delia bambina, quando si tormentava in attesa del ritorno della madre, in un attaccamento insicuro, per il quale sa che la madre può uscire da casa, ma non è certa che ritornerà. “Se tardava, l’ansia diventava così incontenibile che debordava in tremiti del corpo”. Anche da adulta, Delia non può fare a meno di preoccuparsi ogni volta che la madre tarda il suo arrivo a Roma, e le telefona con ansia, rimproverandola con durezza. La madre viene odiata e poi denigrata, e quando anche viene accettata, non fa mai nulla di giusto, sbaglia sempre. Questi sono gli elementi del femminismo anni ’70, e con queste premesse va letto L’amore molesto.
Il viaggio di Delia attraverso Napoli, sempre confusionaria e caotica, rispecchia dunque il viaggio all’interno di se stessa, attraverso una memoria che pian piano va ricostruendosi. Riemerge un’infanzia fatta di rancori familiari, di menzogne e di traumi. Fondamentalmente, Amalia appare enigmatica e impenetrabile alla Delia bambina a causa del padre che, sospettoso e violento, trasmette alla figlia la gelosia morbosa nei confronti della madre, oggetto di un costante controllo e di un amore molesto da parte di tutti coloro che la circondano, come lo zio Filippo, suo fratello, che invece di proteggerla è complice delle violenze perpetratele dal marito, o come il signor Caserta, distinto amico di famiglia, che continua a inseguirla fino alla vecchiaia, quando l’antico capriccio si è ormai trasformato in un’ossessione. Anello di congiunzione tra queste malsane relazioni è il corpo di Amalia, di cui Delia racconta in qualche modo la storia, dalla giovinezza sino alla vecchiaia. Amalia era bruna e bellissima, curiosa e sorridente, e i capelli le brillavano “come la pelle di una pantera”: queste erano le sue colpe, per le quali veniva ripetutamente colpita dal marito, che le proibiva di ridere in presenza di uomini, di truccarsi, di vestirsi con cura. E così anche Delia la riveste di fantasie viziose, sempre timorosa di essere abbandonata, sospettando l’esistenza di una vita segreta da cui lei è esclusa, di un amante che si appropria di tutte le carezze e di tutto l’amore che spetterebbe a lei. Credo che, inconsciamente, Delia abbia sempre considerato la madre colpevole piuttosto che vittima innocente, per cercare di allontanare il dolore che le provocavano le sue stesse fantasie. Ed è proprio un tradimento inventato da Delia bambina a scatenare il profondo senso di colpa che spinge Delia adulta a comprendere le ragioni del suicidio della madre, che sembra quasi una vendetta giocata su un piano simbolico: suicidandosi, Amalia decide di negare la propria presenza alla figlia, così che ella possa affrontare il suo passato; soltanto in questo modo può esserci una nuova nascita di Delia. Eppure questo senso di colpa non viene compreso dalla protagonista per molti anni, perché non ricorda più nulla a furia di imporsi di dimenticare. Si chiede se la madre l’abbia voluta punire suicidandosi la notte del suo compleanno perché da adulta ha continuato a rifiutarla, decisa a non volerle assomigliare.
“Accadeva dopo che negli anni, per odio, per paura, avevo desiderato di perdere ogni radice in lei, fino alle più profonde: i suoi gesti, le sue inflessioni di voce, il modo di prendere un bicchiere o bere da una tazza, come ci si infila una gonna, come un vestito, l’ordine degli oggetti in cucina, nei cassetti, le modalità dei lavaggi più intimi, i gusti alimentari, le repulsioni, gli entusiasmi, e poi la lingua, la città, i ritmi del respiro. Tutto rifatto per diventare io e staccarmi da lei. […] Nessun essere umano si sarebbe staccato mai da me con l’angoscia con cui io mi ero staccata da mia madre soltanto perché non ero riuscita mai ad attaccarmi a lei definitivamente”.
È l’incontro con suo amico d’infanzia, Antonio Polledro, il figlio di Caserta, a permetterle di ricordare: ha solo cinque anni, quando il vecchio padre di Caserta la molesta nello scantinato polveroso della pasticceria, pronunciando parole oscene. La Delia bambina, che desidera possedere sua madre fino al punto di essere lei, di identificarsi con lei e di emularla, aiutata anche dalla forte somiglianza somatica, proietta le molestie ricevute su Amalia. Assistiamo a una sovrapposizione di immagini: la bambina molestata diventa la madre che tradisce il padre. È una verità alterata perché la Delia bambina è arrabbiata con la madre che la abbandona alle violenze del vecchio. Delia parla del tradimento inventato al padre per quello che percepisce come tradimento della madre nei suoi confronti, ma che allo stesso tempo soddisfa le sue pulsioni infantili incestuose. In questo caso, la bugia di Delia rappresenta l’omicidio simbolico di Amalia, che la bambina percepisce violentemente: la madre viene picchiata a sangue, mentre il padre e lo zio si vendicano su Caserta. Per questo rinuncia a tutto quello che appartiene alla madre, alla sua somiglianza con lei. Proprio durante il tempo trascorso con Polledro capiamo quanto Delia abbia soppresso la propria femminilità e la propria sessualità, contrapponendo una frigidità quasi assoluta a quella sessualità materna che le aveva sottratto, nella sua immaginazione, l’amore a lei spettante.
“Amavo Caserta con l’intensità con cui m’ero immaginata l’amasse mia madre. E lo detestavo, perché la fantasia di quell’amore segreto era talmente vivida e concreta, che sentivo che non avrei mai potuto essere amata allo stesso modo: non da lui ma da lei, da Amalia. Caserta si era preso tutto quello che spettava a me”.
Quando finalmente Delia giunge alla fine del suo viaggio, si immedesima un’ultima volta con Amalia indossando il suo tailleur blu, l’unico in buono stato, che la madre portava prima di suicidarsi. In questo modo riesce a pensare come Amalia, a rivivere i suoi ultimi attimi, i suoi ultimi gesti, accorgendosi di aver vissuto, fino a quel momento, una vita sovrapposta a quella della madre, di non aver mai avuto una propria identità, scoprendo improvvisamente che Amalia in lei c’era sempre stata, nonostante il suo rifiuto, e che non aveva bisogno di rincorrerla: “Io ero Amalia”, conclude Delia.
Questo finale inconsueto e ambiguo, lascia libero il lettore di riflettere sul traguardo raggiunto da Delia. Secondo la mia personale interpretazione, sicuramente la figlia è riuscita a riscattare la madre e a liberarsi dal senso di colpa che la opprimeva; Delia perdona se stessa, cosciente che quella fosse soltanto la bugia di una bambina di cinque anni, influenzata da adulti talmente accecati da amori malati da dare per scontato la veridicità della confessione. Per far questo, ha dovuto in un certo senso perdere la propria identità, sia per ricostruire gli ultimi giorni della madre, sia per ricordare il passato anche attraverso gli occhi di Amalia; allo stesso tempo, è proprio dopo aver introiettato la madre dentro di sé che riesce a riscoprire la propria identità e a liberarsi di lei, abbandonando qualsiasi sovrapposizione. Delia e Amalia diventano due persone distinte, e soltanto allora, consapevole del proprio essere, Delia può accettarne le somiglianze, al punto da modificare con un pennarello la fotografia del proprio documento di identità, disegnando attorno ai suoi lineamenti la pettinatura della madre. Alla fine del romanzo, seduta ad ammirare quello stesso mare che pochi giorni prima le aveva portato via Amalia, Delia è finalmente libera di accettare la propria identità pur mantenendo un legame fisico con la madre, di riscoprirne una certa affinità attraverso una definitiva liberazione.
Doveroso sottolineare la pienezza dello stile potente e unico che caratterizza il narrare della Ferrante, utile a rendere con estrema chiarezza le sensazioni di Delia. La sua scrittura è materia e intensità: ardua e abbastanza artificiosa, non sempre scorre veloce, ma sicuramente si tratta di un effetto voluto, perché rispecchia perfettamente la complessità della vicenda. La pagina è molto densa e ogni oggetto o situazione ha una sua importanza ai fini della narrazione. La penna dell’autrice corre insieme alla protagonista attraverso il caos della vita umana, ad un ritmo che toglie il respiro.
Dopo aver chiuso il libro, con quel misto di soddisfazione e dispiacere con cui si diventa consapevoli di aver vissuto un’altra vita che, come tutte, si è conclusa, ho provato un senso di oppressione e di sfinimento. Era come se io stessa avessi respirato l’aria umida e afosa della città, correndo per quelle strade. Sicuramente è questo l’effetto che l’autrice aveva intenzione di suscitare nel lettore, che attraverso quelle complesse e intense pagine continua a sperare in un finale rivelatore e salvifico. Quando finalmente si giunge alla risoluzione finale, per il lettore è troppo tardi. O almeno, lo è stato per me, che mi sono ritrovata stremata dall’ansia e dalla difficoltà di comprendere invano, su un piano razionale, un intreccio violento e angosciante. Questo romanzo mi ha mandato letteralmente fuori di testa, ma quando finalmente ho capito che nulla poteva essere compreso senza calarsi in un abisso di irrazionalità e sentimenti confusi, tutto mi è apparso sorprendentemente più chiaro. Ho provato un senso di pienezza infinita, e ho capito che è proprio ciò che non si limita ad essere semplice e lineare a rendere la vita così interessante.
Pia Elena Caprioli
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