Le donne antifasciste nel carcere di Perugia


LE DONNE ANTIFASCITE NEL CARCERE DI PERUGIA

una lapide apposta nel 1979 sulle mura del vecchio carcere per ricordare le loro storie

 

donne partigianeClara Balboni, Anna Bazzini, Adele Bei, Maria Bernetich, Anna Bessone, Francesca Vera Ciceri Invernizzi, Cesira Fiori, Lea Giaccaglia, Ergenite Gili, Lucia Gobetto, Antonia Logar, Rosa Messina, Lucia Olivo, Marcellina Oriani, Anna Pavignano, Maria Maddalena Pizzato, Anita Pusterla, Camilla Ravera, Giorgina Rossetti, Carmelina Succio, Iside Viana, Valeria Wachenhusen: nel ricordo di queste donne, condannate dal Tribunale Speciale tra il 1928 e il 1943, per avere svolto attività antifascista, il 7 ottobre 1979 fu scoperta una lapide affissa sul muro di cinta del carcere di Perugia, dove erano state detenute. Alcune di loro riacquistarono la libertà solo dopo l’agosto del ‘43 perché, dopo aver scontato la pena inflitta dal Tribunale Speciale, furono inviate d’ufficio al confino di polizia, senza poter rivedere, neppure per poche ore, i propri familiari. Nel 2005  il vecchio carcere, nel centro della città, è stato chiuso, sostituito da una struttura moderna in località Capanne.

Le detenute politiche del carcere di Perugia erano tutte comuniste, tranne Marcellina Oriani, testimone di Geova. Per il loro impegno politico, per aver partecipato prima al movimento antifascista e poi alla lotta di liberazione, queste donne subirono una doppia condanna, penale e morale. L’ideale di donna fascista era casalinga parsimoniosa e ignorante fattrice, silenziosa ombra del marito e madre dei futuri soldati da offrire alla Patria. Adele Bei, quando i giudici del Tribunale Speciale le ricordarono dei due figli abbandonati in Francia, rispose:  “Non pensate alla mia famiglia. Qualcuno provvederà. Pensate invece ai milioni di bambini che per colpa vostra stanno soffrendo la fame in Italia”. Molte di queste donne affidarono  alla penna i dolorosi ricordi della loro carcerazione e hanno lasciato toccanti testimonianze su come vissero la detenzione, come seppero difendersi dalle privazioni, fisiche e morali, dei libri che riuscivano a procurarsi, tra rischi e difficoltà, delle letture comuni e delle discussioni politiche, della capacità di ricreare tra il gruppo delle politiche una parvenza di famiglia dove, a turno, una di loro assumeva il ruolo di mamma e guidava il gruppo negli studi, offriva consigli e conforto nei momenti bui in cui la disperazione prevaleva anche sull’impegno politico e morale. Il ricordo dei figli, dei mariti, dei genitori, diventava una spina nel cuore. Il dolore della perdita, della separazione dagli affetti più cari, sopportato con fierezza, in nome di quegli ideali che avevano appreso sfidando una cultura patriarcale che le condannava all’ostracismo per avere osato sfidare il regime e per aver tradito l’immagine tradizionale della donna .

Le donne antifasciste condannate dal Tribunale Speciale, in tutta Italia, dal 1927 al 1943, furono 161.

Il carcere fascista era un carcere duro e non solo per gli antifascisti. Furono circa 5.000, in gran parte comunisti, i politici che riempirono le prigioni italiane in quegli anni. I detenuti politici creavano collettivi per prepararsi ad affrontare la lotta una volta ritornati liberi, ma il loro atteggiamento non era soltanto d’attesa perché, pur nelle dure condizioni di vita, cercavano di conquistare spazi e sfruttare tutte le occasioni per mantenere i contatti con i partiti clandestini e antifascisti. Riuscivano, nonostante i rigidi controlli, ad allargare le maglie della censura e far entrare libri proibiti, a volte libri in francese, in modo da eludere il controllo oppure, con la complicità di qualche detenuto che lavorava in legatoria, sostituendo la copertina del libro proibito con quella di un romanzo.

Entrare a far parte di un collettivo in carcere, però, non era cosa semplice. Un nuovo detenuto politico veniva sottoposto a una sorta di esame da parte dei compagni, per verificare se ci si poteva fidare. Così , il nuovo arrivato raccontava di come era stato arrestato, com’era avvenuto l’interrogatorio, come s’era svolto il processo. Sulla base delle informazioni il collettivo decideva se ammettere o meno il nuovo venuto. L’esigenza di difendersi da possibili infiltrati determinava l’espulsione dal camerone del detenuto che aveva inoltrato domanda di grazia, o che aveva fornito informazioni o alla polizia o aveva dato prova di atti di viltà agli occhi del collettivo.

Nel 1931 entrò  in vigore il nuovo Regolamento carcerario, che rese le condizioni di vita dei reclusi particolarmente dure, anche per i detenuti comuni. All’atto dell’ingresso i detenuti, dopo aver fornito le generalità in matricola, venivano spogliati di ogni oggetto e indumento, rapati a zero e sottoposti a perquisizione corporale. Poi, il nuovo arrivato indossava la divisa di rozzo tessuto con il numero di matricola cucito a quattro cifre sulla giubba. Il corredo fornito dal carcere consisteva in una gavetta, un boccale, un catino e un bicchiere, un cucchiaio e una forchetta di legno, un asciugamani, uno strofinaccio, una camicia, un paio di mutande e un paio di calze, due lenzuola, una coperta rattoppata. Le celle erano occupate da più persone, arredate  con un pancaccio e un bugliolo appena nascosto da un telo di sacco. Le cimici infestavano i materassi che, di tanto in tanto, venivano bonificati dal lanciafiamme dello scopino.

Il carcere femminile di Perugia era considerato il più duro tra le tre case penali esistenti. Le detenute politiche vivevano quasi segregate in celle singole e si riunivano per brevi periodi della giornata, durante le poche ore di socialità, per i pasti, per le ore d’aria e nell’ora concessa per poter scrivere le lettere. In questi momenti erano sorvegliate da una suora carceriera. In questi incontri, attesi e vissuti con ansia, le detenute cercavano di sfruttare ogni momento per scambiarsi riflessioni sulle letture fatte, per rafforzare e mantenere vivo lo spirito di lotta che le faceva sentire unite ai compagni di lotta che vivevano in clandestinità, ma liberi e ai quali speravano di potersi ricongiungersi per continuare insieme la lotta. Le condizioni di vita erano insopportabili, il gelo dell’inverno, ricorderà Vera Ciceri Invernizzi, operaia metallurgica, comunista, condannata a otto anni dal Tribunale Speciale per attività antifascista, era tale “che al mattino sull’acqua della bacinella c’era uno strato di ghiaccio”, ma d’estate il tormento era dato dall’afa e dalla mancanza d’aria e, per trovare refrigerio, le donne si stendevano sul ruvido pavimento della cella. Il pasto era rappresentato da una pagnotta, una gavetta di zuppa e acqua, la domenica ricevevano un pezzo di carne “dura come un mulo”. In occasione delle feste del regime, il 21 aprile e il 28 ottobre, e nelle feste religiose, le autorità concedevano pastasciutta e l’autorizzazione a ricevere un pacco da casa. Le feste del regime, però, erano occasione di scontro tra la direzione e le detenute politiche che rifiutavano di partecipare ai festeggiamenti e per il loro rifiuto subivano sanzioni durissime. Racconta Adele Bei: “era il 28 ottobre 1928 e le suore, con distintivo appuntato sul petto e gagliardetto al vento, guidavano un gruppo di detenute che facevano sfilare sotto le finestre delle politiche, cantando Giovinezza e All’Arme siam fascisti e gridando abbasso le comuniste. Finita la manifestazione, Suor Romualda, che capeggiava il gruppo, va dalle politiche che erano riunite nella cella comune, per annunciare che per onorare i festeggiamenti non sarebbero rientrate nelle celle. Al rifiuto delle detenute di beneficiare di quella concessione, perché non aderivano ai festeggiamenti, la suora andò via sbattendo la porta. Il giorno il direttore chiamò le politiche una per volta e ad ognuna annunciò che sarebbero rimaste chiuse per otto giorni e messe a pane e acqua. Ritornarono insieme il 9 novembre, ma “festeggiammo lo stesso il 7 novembre al canto di Bandiera Rossa e dell’Internazionale”.

Un’altra atrocità era rappresentata dall’uso del letto di forza, utilizzato come strumento di punizione, è ancora Adele Bei che descrive una scena cui assiste in un momento in cui sfugge alla sorveglianza della suora guardiana: “Passeggiavo nel cortile durante l’ora d’aria, ero sola perché la suora addetta alla mia sorveglianza si era allontanata un momento, quando sentii un fievole lamento che usciva da una porticina  che dava sul corridoio delle celle di punizione. Mi affacciai svelta, perché mi era stato severamente proibito parlare con le comuni, ed ebbi il tempo di vedere, nel mezzo di una di quelle luride celle, un quadrato di ferro fissato nel pavimento munito di un pagliericcio sopra il quale stava distesa una povera donna legata come un cristo in croce. Con un lamento simile al rantolo di coloro che hanno pochi momenti da vivere, chiedeva aiuto. Era legata con grosse cinghie che somigliavano tanto ai finimenti di una bestia da soma. Una cinghia legava le braccia tese, una al collo e una ai piedi, da renderla immobile. Sollevò appena la testa e mi disse “così ci fanno morire a noi povere carcerate”. Durante i molti anni trascorsi in quel triste luogo ebbi tempo e modo di sperimentare di persona e studiare a fondo la vita delle detenute. Questo anche perché la nostra idea ha per fondamento la creazione di una società nuova, non solo priva di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma composta di persone migliori, animate da sentimenti umani, soprattutto verso coloro che soffrono>>.

La lapide posta sul muro di cinta del vecchio carcere di Perugia ricorda il sacrificio di queste donne e contiene un monito e un insegnamento per le generazioni future: SACRIFICANDO LIBERTA’ E AFFETTI / LE CONDANNATE DAL TRIBUNALE SPECIALE / QUI RINSERRATE / NEL GELIDO SILENZIO DI QUESTE MURA TENEBROSE / CONTRIBUIRONO A RICONQUISTARE ALL’ITALIA / CONTRO L’ODIOSA DITTATURA FASCISTA / DEMOCRAZIA E INDIPENDENZA / ASSICURANDO INSIEME ALLE SUE DONNNE / BUON TITOLO ALLA PARITA’ DEI DIRITTI / DA SEMPRE LORO NEGATA / PER SUSSEGUIRSI DI EPOCHE E DI CIVILTA’ / I CITTADINI DEMOCRATICI DI PERUGIA / RICONOSCENTI / NE AFFIDARONO LA MEMORIA E L’INSEGNAMENTO / ALLE GIOVANI GENERAZIONI.

Susi Borzacchiello - autore.

Giornalista, laurea in filosofia e consulente filosofico, mi occupo di comunicazione istituzionale in ambito penitenziario. Mi piace il potere creativo e liberatorio della scrittura, rifuggo dal conformismo culturale e ideologico, dai punti di vista che creano certezze e dagli sguardi distratti sul mondo. Sono nata a Napoli e vivo a Roma da molti anni, sono del segno dello scorpione.

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