Gli ultimi giorni di Cesare Pavese
di Marina Brunetti
Ogni abisso ha una profondità nota e definita, ma se ci sei dentro, questo spazio, questo “gorgo muto” diventa infinito. La dimensione dello spazio è nota soltanto ai desideri intimi e sinceri di chi affronta la discesa. Tale abisso è sostanza delle implosioni e soggettive reazioni a cui ogni essere vivente deve sottostare: “Ogni momento accade due volte, dice Zadie Smith, all’interno e all’esterno, e sono due storie diverse”. Diverso è il peso che ciascuno dà a ciò che dice, diversa la risposta emotiva interiore di chi assorbe quanto detto. In rete circolano tanti frammenti attribuiti a Pavese, utilizzati spesso come aneddoti, il più delle volte decontestualizzati e piuttosto funzionali al discorso di chi li impiega che non rappresentativi del pensiero pavesiano. In quella torrida estate, in quella notte tra il 26 e il 27 agosto del 1950, quando Pavese ebbe la quieta forza di vergare, a modo e con le pause dovute, la sua ultima firma, in un estremo guizzo d’orgoglio per quanto avrebbe comunque lasciato di sé, in fondo a se stesso aveva trovato solo spavento, e non azione, (parafrasando Malraux), se non quella irreversibile del congedarsi dal mondo. Cosa spinse dunque Pavese al gesto estremo, inevitabile finale di un pensiero sotteso ad anni di vicissitudini interiori e non, mai superate: una grande codardia o un moto di limpido coraggio? Non l’odio per qualcuno, la refrattarietà per il mondo e chi lo abita, non la ripugnanza, altrimenti avrebbe forse combattuto, invece di infliggersi “l’eterno riposo” a soli quarantadue anni:
“Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di sé, quella che si è superata, un antico se stesso. Si combatte soprattutto per non essere qualcosa, per liberarsi. Chi non ha grandi ripugnanze non combatte”.
(C. Pavese (2000): “Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950” Einaudi).
L’idea del suicidio nasce in Pavese come si genera un’abitudine corteggiata poi per una vita intera, eternamente connessa con l’amore “Ho sempre seguito impulsi sentimentali, edonistici” (ib., 10 aprile ’36), un’autodistruzione degna di essere stimata eroica, un’affermazione della “dignità dell’uomo davanti al destino” (ib., 24 apr. 1936), messa in atto da chi è innamorato della vita, a dispetto di quanto si possa credere; distrugge se stesso per “scoprire entro di sé ogni magagna, ogni viltà” e, per fare in modo che avvenga questa disposizione autodistruttiva, ricerca, come con un kafkiano coltello, dentro se stesso, s’inebria, gode di queste magagne e di queste viltà. Nel suo diario ultimo, “Il mestiere di vivere”, l’evocazione della morte è sempre presente e se non lo fa, Pavese diventa didattico, didascalico e impersonale, confonde stralci di vita intima con il lavoro, sembra essere del tutto consapevole che le sue memorie saranno poi appannaggio di molti, fruite da menti pensanti e giudicanti, dunque si astiene dall’intimo scavo rifugiandosi in uno stile foscoliano ingessato e innaturale. Il diario di Pavese si mostra come l’opera ultima e suprema dello scrittore, fino ad arrivare alla disfatta della vita e al trionfo della morte. Tramite il diario, lo scrittore diventa l’eroe indiscutibile della sua più tragica ed ultima opera esistenziale. Occorre anche dire che pochi giorni prima del suicidio aveva racchiuso il manoscritto nella cartelletta verde in cui era solito conservarlo e nel frontespizio appariva il titolo “Il mestiere di vivere”, preceduto dai termini cronologici 1935-1950 e seguito dal suo nome. L’indicazione della data finale ci porta dunque sulla soglia della tragedia: Pavese, nello scriverla, aveva ormai deciso di annullare la propria esistenza. Il verbo vivere alludeva al passato, un passato da autodistruttore, che “è soprattutto un commediante e un padrone di sé”, non trascura “nessuna opportunità di sentirsi e provarsi”. In un certo senso è un ottimista che “spera ogni cosa dalla vita” (ibidem). Al suicidio, con tale disposizione, si può arrivare soltanto per imprudenza, oppure se si cede alla “smania di costruzione, di sistemazione”, ossia ad un imperativo morale.
Parecchi sono i vizi esistenziali capaci di uccidere, il fumo, l’alcol, le droghe, ma quello di vivere è un vizio che lascia che sia tu a liberarti di te stesso, a immergerti nel mare magnum delle delusioni, delle insicurezze, delle solitudini, a soccombere nella canicola di una stanza d’albergo torinese. L’autodistruzione avvicina Pavese al suicidio, si configura quindi come una manifestazione di insofferenza nei confronti dell’esistenza umana, l’estremo gesto che necessita di coraggio, che tuttavia un uomo non “cresciuto moralmente” non possiede: “il mio principio è il suicidio, mai consumato, che non consumerò mai, ma che mi carezza la sensibilità” (ib., 10 aprile). Fa da contraltare, a questo concetto sull’autodistruzione, quello dell’atto estremo come gesto dimostrativo, “perché non si cerca la morte volontaria, che sia affermazione di libera scelta, che esprima qualcosa? Invece di lasciarsi morire? […] “E verrà il giorno della morte naturale. E avremo perso la grande occasione di fare per una ragione l'atto più importante di una vita” (ib., 30 novembre 1937). E ancora:“resta sempre che voler uccidersi è desiderare che la propria morte abbia un significato, sia suprema scelta, un atto inconfondibile” (ib., 8 gennaio 1938).
Con questa esternazione, Pavese sembra esortare l’uomo a non attendere la morte naturale e a non lasciarsi sfuggire l’opportunità di decidere da solo della sua esistenza. Attraverso il suicidio l’uomo vuole dimostrare qualcosa, esprimere la sua insoddisfazione nei confronti dell’esistere, del torto dell’esistere; questa scontentezza cade però nel momento in cui egli si avvicina alla morte e comprende la grande importanza della vita, il forte attaccamento ad essa. Un pensiero che, tuttavia, non è il movente che spinge lo scrittore a compiere l’atto fatale, perché nelle sue ultime righe lasciate: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi” non vi è apparentemente risentimento, astio, sebbene abbia vergato prima “perdono tutti”, a dimostrazione che percepiva, nella sua vita, di essere stato più vittima che carnefice, perché la disposizione che noi diamo alla parola ci corrisponde nel pensiero.
“Non fate troppi pettegolezzi”; anche l’ultima lettera di Majakovskij inizia in questo modo: “Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi”. Nelle vicende di vita, molte sono le somiglianze di Pavese con lo scrittore russo: Majakovskij si uccide alla fine del primo quarto del secolo, Pavese alla fine del secondo quarto; Majakovskij era stato imprigionato dal governo zarista, Pavese confinato dal regime fascista; l’ultimo amore invocato dallo scrittore russo fu un’attrice, Veronika Polonskaia, così come per il nostro, l’attrice Constance Dowling. A differenza degli altri, anche di tutti i viaggiatori in quel giorno afoso di agosto, nel viavai di Porta Nuova, egli sapeva che cambiare luogo, spostarsi di stazione in stazione, di città in città, trascinare una valigia colma dell’illusione che mutare posto cambierà la loro fortuna, o la loro identità, non sarebbe servito. Nell’egoismo della loro fretta, gli ignari astanti calpestano fogli di giornale, urlano, patiscono solo un po’ di caldo estivo, mentre poche decine di metri più in là, di fronte a loro, un uomo ha deciso di addormentarsi la vita per sempre, loro smaniosi di stendersi al sole vacanziero, lui di raggiungere una pace mai intravista: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.
Gli occhi sono proprio quelli di Constance Dowling, l’ultimo amore non corrisposto, una goccia cinese nella testa che farà traboccare il vaso depressivo con cui faceva i conti da sempre, per la quale prova una passione quasi adolescenziale, un desiderio di matrimonio, ma che in seguito si tramuterà in un tentativo di rassegnazione ed in tragedia; l’amore risulta così inappagante e impossibile, incapace di dare una risposta al senso di solitudine e di emarginazione. Non è propriamente una donna a spingerlo al suicidio, la sua mancanza, la sua impotenza che lo rende limitato nell’unione con l’altro sesso, a suo dire ignobile e illegittimo alla vita, ma una condanna perpetua ad essa: ”Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla” (ib., 25 marzo 1950). Tuttavia, negli ultimi tempi antecedenti il fatale giorno, i suoi scritti si configurano sempre più come la risultanza di una scelta a carattere dimostrativo e in un certo senso vendicatorio, nei confronti della Dowling: “Il coraggio. Tutto starà nell’averlo al momento buono - quando non le nuocerò - ma che lo sappia, che lo sappia” (ib., 27 maggio 1950); il suicidio si presenta come manifestazione della volontà: “sempre gli è allacciata [all’amore] la volontà di morire, di sparirci: forse perché esso è tanto prepotentemente vita che, sparendo in lui, la vita sarebbe affermata anche di più?” (ib., 23 marzo 1950) o come una vendetta (“I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo”, (ib.,17 agosto 1950).
La battaglia portata avanti per una vita da Pavese è quella che vede contrapposte l’esistenza alla letteratura, e lo dimostra anche l’ordine prestabilito di quelle che saranno poi le sue reliquie, a cominciare dall’ultimo passaggio del diario: ”Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più” (ib.; 18 agosto 1950).
“[…] Non scrivere più, nell’ultima parola del diario, significa anche, con le pagine messe ben in ordine, la copertina, il titolo e il sottotitolo, un’ulteriore precisazione: dire, cioè, che la recita della tragedia esemplare è stata interamente compiuta nella battaglia fra la vita e la letteratura. La fine è eroica: il protagonista ha affrontato gli dei crudeli che gli hanno imposto un destino (l’inettitudine a vivere, ad amare nella forma piena e appassionata), l’ha sopportato, l’ha portato avanti fino a offrire come alternativa l’altro aspetto dell’esistenza, che è la scrittura, e il valore che egli è riuscito a fissare esemplarmente, imponendosi fra gli altri scrittori, i lettori, i giudici, come il migliore del suo tempo: "Sei consacrato dai grandi cerimonieri. Ti dicono: hai quarant’anni e ce l’hai fatta, sei il migliore della tua generazione, passerai alla storia, sei bizzarro e autentico... Sognavi altro a vent’anni? Ebbene? Non dirò ‘tutto qui e adesso?’ Sapevo quel che volevo e so qual che vale ora che l’ho. Non volevo soltanto questo. Volevo continuare, andar oltre, mangiarmi un’altra generazione, diventare perenne come una collina” (Pavese 2000: 326 in “L’eroe della tragedia. Pavese e il «Diario»”, G. Bàrberi Squarotti, Cuadernos de Filología Italiana 2011, Volumen Extraordinario, 33-48).
Poiché ancora le ultime battute del Diario rappresentano la battaglia interiore fra la pazienza e la disperazione, la morte e la sopportazione anche della sconfitta più radicale, che è la perdita di Constance per la propria inettitudine, il fatto che Il mestiere di vivere venga consegnato ai posteri nella forma definitiva di opera compiuta per la stampa significa, a ben vedere, la vittoria della scrittura sulla vita sbagliata. Dice: "La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti” (Pavese 2000: 326; 16 agosto 1950).
È possibile (necessario) morire dopo aver riconosciuto che il destino è fatale e immutabile, ma anche dopo aver proclamato il valore e l’autenticità delle proprie opere: per quel che riguarda Pavese, dopo aver dato poesia agli uomini, cioè dopo aver scritto i libri che valgono a confortare, a illuminare, a far comprendere come è il mondo, la storia, soprattutto la vita contro cui si è battuto fin dalla giovinezza. L’uccidersi, allora, significa non già la verifica del fallimento, ma, al contrario, la giusta risposta di resistenza, di valore e di esemplarità al destino maligno e nemico. Forse un atto di sfida, un darsi inerte al mondo dopo aver eviscerato il meglio e il peggio di sé e averlo messo su pagina, attraverso anfratti interiori studiati, impossibilitato a spiegarne i meccanismi, stanco di non riuscire a cogliere, negli occhi altrui, specie in quelli femminili, quel bagliore interessato, quella magica vis che porta ad amare l’intera creatura in sé e per sé, senza autocompiacimenti. Pavese ci ha lasciato un patrimonio eterno di cui andare fieri e grati, grazie alla sua straordinaria profondità, ma è proprio quest’ultima che spinge una mente, qualunque mente dai profondi pozzi, a cercare di più, a colmare di più, e più spesso inutilmente, gli immensi crateri interiori.