“La signora Dalloway” di Virginia Woolf


DallowayLa signora Dalloway è un romanzo del 1925, nato dalla penna della scrittrice inglese Virginia Woolf (1882-1941).

La trama di quest’opera si scandisce lungo una giornata intensa, che vede la protagonista Clarissa Dalloway, una donna sui cinquant’anni, impegnata nei preparativi di una festa. La sua prospettiva è il luogo entro cui tutte le impressioni, che provengono dall’esterno, si raccolgono in modo spontaneo. L’intento dell’autrice è quello di ridurre l’azione in favore di un’esplorazione più attenta dell’io, che si afferma come punto originario da cui il mondo si rende visibile. Il lettore, può così percepire attraverso un linguaggio poetico, il “sentire” di Clarissa perché, dalle strade affollate di Londra al ricevimento popolato da numerosi ospiti, i pensieri, le emozioni e i turbamenti precedono i fatti stessi. Ecco perché, ancora prima del tempo stesso che incalza de-finendo ogni cosa, si manifesta la consapevolezza che ne ha Clarissa. A questa finitudine risponde ricercando, anche nella più piccola traccia, un aggancio per rendere più intenso un vissuto, che rischierebbe altrimenti di essere povero: «Negli occhi della gente, nel loro andamento lento, faticoso, nel chiasso e nel frastuono, le carrozze, le automobili, i tram, i furgoni, gli uomini-sandwich che vanno avanti e indietro col loro passo strascicato e ondeggiante, le bande e gli organetti; nel trionfo e nel tripudio e nel canto stranamente acuto di un aereo, ciò che amava era: la vita, Londra, quell’attimo di giugno»1.

Attorno alla figura di Clarissa si muovono personaggi che, invece di caratterizzarsi nella loro indipendenza, si sviluppano come personalità funzionali alla comprensione di quella che è la sua sfera interiore. Così, l’amica d’infanzia Sally è un punto fermo nel passato, che trascina Clarissa nei ricordi di quella che sembra essere un’immagine spenta, incapace di incidere sul presente. E quando alla festa la incontra dopo anni, la protagonista non si predispone a darle una seconda chance, ovvero la possibilità di realizzarsi in un ruolo diverso da quello che ricopriva da ragazza, perché preferisce lasciarla vivere tra le pieghe della memoria. È come se ogni pensiero sull’amica fosse costretto a nutrirsi di un piacere che non si presta a un rinnovamento, ma solo all’essere ricordato, tanto che «neppure un’eco dell’antica emozione»2 riesce a risalire lungo un flusso di sensazioni, che il tempo ha definitivamente congelato. Clarissa, pur riconoscendo «la purezza, l’integrità, del suo sentimento per Sally»3, vuole tenerla lontana dalla donna che è diventata: una moglie che sa gestire la famiglia, capace di rappresentare al meglio il marito Richard. Ma la Woolf sembra tracciare una lontananza tra i coniugi, la stessa che Clarissa spaccia per libertà: «nel matrimonio ci vuole un po’ di libertà, di indipendenza tra persone che devono vivere insieme giorno dopo giorno nella stessa casa. Richard gliela dava, e lei a lui».4

Il personaggio maschile con cui Clarissa si confronta non è, infatti, Richard, ma Peter Walsh. Proprio come Sally, anche lui è un simbolo del passato. Eppure intercorre una differenza sostanziale tra la funzione di Peter e quella di Sally, perché se la seconda non è riuscita a proiettarsi nel presente, il primo è motivo di un conflitto interiore, che Clarissa riscopre essere sempre attuale. È un legame che sa cavalcare gli anni rimanendo immutato, quello che li unisce, perché «avrebbero potuto star lontani anche cent’anni, lei e Peter, lei non gli aveva scritto neppure una lettera, e le lettere di lui non erano un granché, ma poi d’improvviso pensava, se fosse qui con me adesso, che direbbe?»5. Ciò non toglie che, a reggere la loro relazione, non sia tanto il sentimento di amicizia, quanto quello di una frustrazione, che non riesce a risolversi per entrambi. Forse il motivo è in quella scelta che Clarissa stessa attuò in favore di Richard. Una preferenza che le costerà malumori e la Woolf la rende esplicita quella loro ostilità, che rimanda a un amore non condiviso, chiuso in un potenziale inespresso. Quando si ritrovano, i due danno vita a un dialogo solo apparentemente pacifico, perché ogni parola è portatrice di una tensione pronta a esplodere: «come prima che inizi la battaglia i cavalli scalpitano; scuotono la criniera; la luce gli brilla sui fianchi, il collo si curva, così Peter Walsh e Clarissa, seduti fianco a fianco sul divano azzurro, si sfidavano»6. A Clarissa basta la presenza di Peter per sentirsi nel pieno di una guerra, bisognosa di trovare una difesa nella personalità che si è costruita in età adulta, oltre che nei nuovi affetti, quelli esclusivi, che mettono fuori gioco Peter; durante una visita a sorpresa prima della festa, Clarissa «chiamò in aiuto tutto ciò che di solito faceva, che amava, il marito, Elizabeth, se stessa, cose che Peter ormai conosceva appena, perché le soccorressero e l’aiutassero a sconfiggere il nemico»7. Cos’è Peter se non una minaccia alla serenità di Clarissa, che si anima di gelosia nel sentirgli raccontare le sue storie “indiane”? E non è sicuramente un caso, se al cospetto di Peter, si presenta la figlia di Clarissa, metafora di un presente che già le sfugge di mano. Elizabeth, è un personaggio, che sembra affermarsi da una posizione rivolta verso il futuro: «i suoi begli occhi, non incontrando altri occhi, guardavano avanti, nel vuoto, luminosi, con la fissità e l’innocenza di una statua»8, armata di quei progetti, «poteva fare il medico. Oppure l’agricoltore»9, che nella madre hanno ceduto il posto alla volontà di vivere l’attimo, quello che si dà nell’immediatezza.

La festa che conclude il romanzo non sembra essere, pertanto, la rappresentazione di un ritrovo tra amici e familiari, quanto lo spazio entro il quale i personaggi dilatano le proprie distanze. Sono come alla deriva verso i margini di un nucleo di affetto, che si dissolve sotto la spinta di un gioco temporale, consumato senza pietà. Perché in fondo ognuno di loro non è altro che un pezzo di quel grande mosaico, che è il tempo interiore di Clarissa. Al di fuori di lei, nessuno vive autonomamente, eccetto Septimus Warren Smith, reduce di guerra, la cui esistenza si concluderà nell’estremo gesto del suicidio. La sua trama scorre in parallelo a quella di Clarissa senza entrarne mai in contatto. Septimus ha una propria storia, un proprio io che, anche nel suo essere tragico, sa comunque vivere: nella depressione che lo rende ormai prigioniero in una dimensione dove è la percezione che sia il nulla a prevalere, togliersi la vita è paradossalmente un modo per riprenderla, per acquisirne nuovamente un possesso. E questo recupero prende forma già nei pensieri di Septimus, «sono morto, e sono di nuovo vivo»10, che precedono un gesto finale senza ritorno. Ecco qual è il sottile filo che lega i due: una visione profonda della realtà; la dinamica che emerge tra loro, infatti, costituisce il luogo, in cui approcci diversi si rendono simili, rispondendo all’esigenza comune di ritrovare il pieno senso della vita. Pur non conoscendolo, Clarissa, nell’apprendere la notizia del suicidio, si sente come pervasa da una energia che l’avvicina a Septimus, e che allo stesso tempo la fa sentire tremendamente viva: «ma che notte straordinaria! Si sentì proprio come lui - il giovane che si era ucciso. Fu contenta che l’avesse fatto; che l’avesse buttata via la vita, mentre loro seguitavano a vivere»11. Clarissa si costruisce una personalità capace di sopravvivere alla dialettica feroce del mondo, laddove Septimus si autodistrugge per non soccombere a una sofferenza senza tregua, che lo allontana dall’opportunità di cogliere la bellezza delle cose, nel loro semplice disporsi allo sguardo, perché «veder tremare una foglia nella forte corrente d’aria era una gioia squisita»12.



Le parole con cui Virginia Woolf racconta l’interiorità di questi personaggi sono magnetiche e decise, capaci di liberare i pensieri di ognuno dalla logica fittizia che non appartiene alla vita reale, donando al romanzo un senso autentico.

1 V. Woolf, La signora Dalloway, trad. it. di Nadia Fusini, Feltrinelli, Milano 2013, p. 2.

2 Ivi, 30.

3 Ibidem.

4 Ivi, p. 5.

5 Ibidem.

6 Ivi, p. 38-39.

7 Ivi, p. 38.

8 Ivi, p. 122.

9 Ivi, p. 123.

10 Ivi, p. 61.

11 Ivi, p. 169.

12 Ivi, p. 61.

Elisabetta Rizzo -

Nata a Palermo, dove consegue la laurea in filosofia di primo livello, completa i propri studi presso l’Università di Bologna, con una tesi sul linguaggio simbolico in Ernst Cassirer. Durante il percorso universitario si dedica al concetto di spazio dal punto di vista conoscitivo, con particolare riferimento alla filosofia tedesca del Novecento e all’arte contemporanea. Dopo la laurea va a Bonn e ci rimane più di un anno, per approfondire la lingua e i temi che ama. Redige articoli di filosofia, recensioni e le piace scrivere racconti. È appassionata di letteratura, cinema e fumetto.

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