Narrazioni
Do not disturb, please
di Teresa Merone
Capiscimi. - dice Bukowski - Non sono come un mondo ordinario. Ho la mia pazzia, vivo in un'altra dimensione e non ho tempo per le cose che non hanno un’anima.
Non disturbateli, che non hanno tempo per le cose che non hanno un'anima. Preferiscono voci che scalpitano indispettite, mostri da tenere sotto al letto, personalità da gestire. No, non li dovete disturbare...perché lo sono già. La loro mente è molesta, come chi starnutisce, ripetutamente, durante la messa di Natale, come i bambini che chiedono il perché del Mondo, come il permaloso nel gruppo di amici.
E creano, plasmano, cercano di buttar fuori qualcosa di indomabile, che si può tentare di contenere ma che non può essere eliminato. Tolgo il disturbo? No, lo vogliono tenere, tenere stretto ma senza soffocarlo, magari regalarlo a piccole dosi, diffonderlo con l'Arte.
Ma se dicessi che gli artisti sono, spesso, dei pazzoidi eccentrici probabilmente verrei definita banale e questa è una cosa che, come posso dire...mi disturba. Voglio parlare delle creazioni, dei personaggi di carta e inchiostro, dare un nome ai loro deliri, renderli sanguinanti.
Scompari, macchia maledetta! Scompari, dico!...Uno, due. Ebbene, è venuto il momento di agire... l'inferno è buio... vergogna, mio signore, vergogna! Come? Sei un soldato e hai paura?... Che bisogno c'è di preoccuparsi se qualcuno lo venga a sapere, dal momento che nessuno può chiamarci a renderne conto? Eppure, chi avrebbe mai pensato che il vecchio avesse tanto sangue?.
La Lady Macbeth di Shakespeare è ambiziosa, desiderosa di potere e straordinariamente determinata. Vuole essere la regina di Scozia e per diventarlo è disposta anche a...sporcarsi le mani. Mani che bagna nel sangue caldo del re Duncan, sangue che non andrà più via come una cattiva reputazione. Sente il peso di una colpa che l'avvilisce, che le insozza l'anima e il corpo. E si accanisce, e si avvelena cercando di lavar via le chiazze amaranto. Si scaglia con veemenza contro quelle dita, quel palmo, quel dorso perché ha perpetrato un'azione spregevole, che l'accompagnerà, passo dopo passo, ad un totale disgusto di se stessa. Le lava ripetutamente, compulsivamente, come in un rituale di purificazione, come tentativo disperato di trasporre la pulizia di qualcosa di concreto a qualcosa di nettamente più indefinibile ed evanescente, qualcosa che sa di aver perso per sempre, la sua anima.
Le tristezze non furono fatte per le bestie, bensì per gli uomini; ma se gli uomini ne soffrono troppo, diventano bestie.
El Rey Prudente, Filippo II di Spagna, fu un monarca assoluto votato alla strenua difesa dell'ortodossia cattolica contro gli eretici e gli infedeli, in modo tale da assicurarsi il pieno controllo degli immensi territori sottomessi al suo potere. Filippo si avvalse del tribunale dell'Inquisizione spagnola per solidificare l'uniformità religiosa dei sudditi, sradicando il protestantesimo in maniera violenta e reprimendo quei dissensi religiosi che avrebbero provocato l'indebolimento dello Stato. El Rey è una figura sbilenca che incarna perfettamente gli ultimi anni del Siglo de Oro, è una fiamma un tempo viva che si affievolisce con un incedere costante. E, per questo, Cervantes decide di inserirlo come personaggio, non troppo marginale, ne El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha.
Questa ombra così barricata in quella residenza/sepolcro che è l'Escorial e assolutamente prudente, appunto, nel prendere decisioni e nel passare a setaccio le missive, la vediamo trascinarsi tra corridoi angusti e passaggi segreti, rinchiudersi nella sua cella austera costruita con blocchi di granito. La guardiamo evitare le persone che la circondano, ignorare le influenze esterne, essere insoddisfatta, angosciata, triste, depressa. Riprendendo Pietro Citati: Parlava con la cortesia più fine: ascoltava, rispondeva a voce bassa, spesso con parole inintelligibili, e mai di sé stesso. Se riceveva cattive notizie, cadeva malato, e soffriva di diarrea come una pecora o un coniglio: almeno così dice un feroce osservatore. [...] Come un immenso ragno, Filippo II era felice soltanto se stava seduto al suo tavolo di lavoro.
Stride la vampa! la folla indomita corre a quel fuoco lieta in sembianza: urli di gioia, intorno echeggiano... Cinta di sgherri donna s’avanza! Sinistra splende sui volti orribili la tetra fiamma che s’alza al ciel! [Il Trovatore]
Azucena è la figlia di una zingara, che era stata condannata a bruciare tra le fiamme di un rogo, e che per vendicare la madre decise di dare la stessa sorte al figlio del suo assassino, finendo per incenerire, però, il suo.
Azucena è altra cosa rispetto alla società in cui vive, ha un mondo diverso a cui appartenere. Ha dimenticato la propria esistenza, il resto, tutto, poiché non vive per null'altro che la sua vendetta, per riparare all'errore di cui si è macchiata nella smania di offrire sangue per il sangue. Decide, nel momento stesso in cui compie questo gesto dettato dalla frenesia, di allevare il figlio del suo nemico, che odia eppure ama, scissa completamente nella sua affettività, pesantemente accasciata in uno stato psicotico e nell'ossessione. Tutto lascia presagire che abbia cresciuto, per anni, il Trovatore affinché riparasse al suo sbaglio, affinché assassinasse l'altro fratello che, invece, è ignaro della sua esistenza e che, per giunta, è il suo nemico in amore: il Conte di Luna. La follia di Azucena, senza limite né remore, esplode nel momento in cui vede il corpo esanime del figlio che non ha generato, non provando null'altro che la voglia di gridare al Conte la verità – egli era tuo fratello – di gridare a pieni polmoni all'anima della madre, come quando ci si rivolge disperati alle divinità, che aveva portato a termine il suo scopo. Il debito di sangue è saldato.
Il mio sforzo supremo deve consistere in questo: di non vedermi in me, ma d'essere veduto da me, con gli occhi miei stessi ma come se fossi un altro: quell'altro che tutti vedono e io no.
Vitangelo Moscarda, nato dalla penna di Luigi Pirandello, scopre un giorno, per gentile concessione della moglie, di avere il naso che pende verso destra, cosa, questa, che scatena in lui una tremenda crisi d’identità. E poi sono le donne ad essere troppo suscettibili.
Il personaggio sembra imprigionato in un disturbo della personalità egosintonico, poiché si sente in sintonia coi sintomi che ritiene coerenti con la sua personalità, e alloplastico, poiché tende a cambiare l’ambiente e chi lo circonda per ovviare alle condizioni avverse. Vitangelo sembra deciso a distrugge la sua immagine sociale e familiare e lo fa con così grande convinzione che, presumo, se solo la moglie l'avesse saputo prima, avrebbe sicuramente corretto il tiro con "Bella giornata, eh?". Il nuovo modello di comportamento, quello che prende forma durante la trattazione, quindi, tende a discostarsi gradualmente da quello che era il suo abituale schema personale e culturale, per di più senza che si renda conto del proprio impatto sugli altri e dei suoi atteggiamenti disadattivi.
Muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.
Per il Moscarda le persone sono sottoposte allo sguardo degli altri e di se stesse e da questo sguardo ingabbiate, intrappolate. Conclusione prevedibile sarà la presa di coscienza dell’impossibilità di distruggere le centomila immagini che gli altri hanno di lui, e che lui reputa estranee, conducendolo inevitabilmente verso una prigione fatta di cemento e ferro, senza via d’uscita e per niente metaforica: il manicomio.
Per me, Vitangelo ha una sola colpa: il non riuscire a spiegarsi qualcosa con cui, in fondo, facciamo i conti quotidianamente. Ci sentiamo fraintesi, ci vogliamo spiegare, diventare un tutt'uno con quello che pensiamo di noi e quello che vorremmo gli altri pensassero. Essere Uno per non sentirsi Nessuno né, tantomeno, Centomila. Ma noi, vili, per non impazzire, semplicemente e con molta nonchalance, lasciamo correre.
Il sogno diventa realtà
di Marina Ristè
Fra le immagini sfocate che si susseguivano una dopo l’altra mescolandosi fra loro, vidi apparire un viso che diventava sempre più nitido e all’improvviso…
- Ma quella sono io!
Ero lì sul palco mentre in platea le persone mi chiedevano della mia passione di scrivere; non credevo ai miei occhi, eppure era tutto vero; i libri, i giornalisti e un fiume di domande.
- Mi dica signorina Stivens ha mai avuto il blocco dello scrittore?
- Si dopo i 20 anni…Non ricordo bene la data ma sicuramente era non più tardi dei 28. Però non mi chieda come ho fatto a superarlo che non lo so.
- …Ma ci sarà qualcosa che le è rimasta impressa.
- Ricordo soltanto che non volevo più scrivere, forse per il gran dolore di aver perso un amico a cui avevo dedicato tante poesie; credo che sia stato più forte il dono di scrivere che tutto è cambiato in un lampo.
- Può dirci ora chi è o qual è la sua fonte d’ispirazione?
Soltanto la fantasia e la creatività a mio giudizio non sono sufficienti.
- Posso parlare per me perché non so cosa sentono gli altri scrittori, a me lo spunto posso prenderlo da qualsiasi cosa; una volta ho scritto un racconto guardando una foto appesa al muro nella casa al mare. Però…può essere un film che mi dà l’idea, una canzone, un oggetto, una parola, una persona; ora non saprei dirle cosa, ma le assicuro che se mi metto al computer e ho una traccia, saprei crearle qualcosa sul momento e può essere una poesia, una favola, un racconto, un romanzo, poi dipende dal tempo che ho a disposizione.
- Ma non è mai stanca?
- Sicuramente come tutti, però se devo dirle la verità…Non smetterei mai di scrivere e più lo faccio e più aumenta la mia fantasia.
- Non ha mai pensato di creare una casa editrice?
- Si, ma ci vuole troppo impegno e soldi che non ho, io faccio tutto per passione e ho già aiutato per cinque anni gli altri scrittori ad emergere e se mi capita ancora lo faccio perché m’interesso di pubbliche relazioni. In passato ho coordinato anche cantanti, musicisti e un gruppo musicale per tre anni a cui scrivevo le parole, infatti sono iscritta alla Siae come autrice del testo letterario e compositrice melodista, ma non scrivo la musica.
- Se è così brava perché non scrive per lavoro?
- E’ una bella domanda, non ho il nome importante da far vendere migliaia di libri.
- E lo farebbe su commissione?
- - Si naturalmente.
- - Ma poi non avrebbe gelosia per il suo scritto?
- No a patto che mi viene pagato e so dentro di me di far felice una persona; solo chi è invidioso si preoccupa degli altri, a me piace scrivere perché amo farlo.
Topi
di Fabio Marricchi
Accadeva da qualche settimana: ricevevo i miei topi e ascoltavo quello che avevano da dirmi. Ho ricevuto i loro consigli, le loro indicazioni. Mi sembrava, all’inizio, una ricompensa data a me per averli accolti nella mia casa, dopo che avevo fatto di tutto per catturarli o per eliminarli. Mi offrirono la loro pace e io l’accettai, solo come ero, in virtù di quella vita nuova, che non mi consentiva certo di scegliere i miei interlocutori, e tanto meno di perder tempo a scacciare gli animali molesti. Ero veramente infastidito dalla loro presenza, mi sembrava una forma di punizione eccessiva per lo stato di solitudine in cui ero piombato. Miriadi di roditori zampettanti si presentavano ogni santa notte in cui cercavo di concentrare le mie forze per rimanere vivo: percorrevano le travi del tetto, si affacciavano nello studio dove cercavo di scrivere chissà che cosa, molti di loro sicuramente si divertivano nel solaio. Li sentivo correre e rincorrersi a lungo, forse per tutta la notte, o forse per tutto il tempo che la mia notte andava avanti, bloccata in un’immagine fissa, come un racconto pietrificato da un incantesimo malefico.
Potevo raccontare, una volta in strada, di aver visto una coda bianca sfuggire alla mia vista per pochi secondi, infilata in un pertugio del sottotetto. Ma difficilmente mi avrebbero creduto, e comunque non avrebbero condiviso nulla di quella sensazione. Avrebbero, i conoscenti con cui talvolta mi fermavo brevemente a ragionare, preso il racconto come fosse un motto di spirito. E l’effetto sarebbe stato quello di colorire l’immagine del mio carattere presso l’esterno, e non certamente quello di rendere viva l’impressione di quella grande coda bianca di topo che si insinua tra i legni del tetto. Scacciavo i roditori come fossero anime estranee, corpi pelosi e ripugnanti nel loro muoversi furtivi tra le travi del tetto di quella casa vuota. Escogitavo trappole, mi appellavo a tutti i rimedi conosciuti pur di allontanarli per sempre dalla mia dimora.
La loro assenza non era mai definitiva: quando non li vedevo, li sentivo comunque cavalcare come piccoli destrieri dalle zampette gommose il solaio della camera da letto, e mi dicevano che erano lì, comunque, che mi avrebbero accompagnato ancora in quella lunga notte che non si decideva a terminare, che non finiva più.
La mattina, nel silenzio totale, preparavo nuove aggressioni a quella colonia che calcolavo essere di una decina di animaletti fastidiosi e marroni, tranne il bianco che avevo visto quella sera insinuarsi nel sottotetto.
Quello stesso topo, che qualche sera dopo avevo visto in faccia. Avevo sentito rumori nel soppalco, mi ero precipitato, disarmato. C’era lui, il topo bianco che mi guardava con le sue guance paffute e pelose. Sembrava fosse in piedi. Siamo rimasti qualche secondo uno di fronte all’altro. Poi ho girato lo sguardo per vedere se avessi qualche bastone o qualcos’altro per colpirlo. Non c’era niente e, rivolto lo sguardo di nuovo di fronte a me, non c’era più nessuno. Il topo era scomparso. Nel silenzio della notte.
Finché, dopo un po’ di tempo di calma (per qualche giorno i topi non si erano visti, né sentiti) una notte mi precipitai a scrivere uno dei miei delirî che mi accompagnavano durante quelle notti fantastiche. Ero seduto alla scrivania. Guardai in basso, più o meno nel posto dove avevo avuto l’incontro ravvicinato col topo bianco: erano in tre. Il bianco era al centro, più avanti degli altri due che gli stavano ai lati. Erano un po’ più piccoli di lui, grigiastri, uno di loro sembrava portasse gli occhiali. (Ma non posso confermare questo particolare, tale fu allora il mio stupore).
Il bianco iniziò a parlare, lentamente.
Mi raccontò la breve vita della sua colonia, quasi a scusarsi del trambusto, mi disse che non dovevo prendermela così, che non dovevo chiudermi in casa a pensare a tutto il mio passato. Era un racconto lieve, che aveva però qualcosa di sinistro. C’era qualcosa che mi infastidiva nelle parole dette dal topo, o meglio, nelle parole che credevo fossero pronunciate da quel roditore: qualcosa di angosciante proveniva dall’incedere lento dei suoi ragionamenti. Avvertivo di non essere più attento al significato del discorso, ma di essere come ipnotizzato dal suono della sua voce che pareva un lamento lontano, una cantilena, una canzone che mi risuonava dentro. Mentre declamava le sue vicissitudini e la storia della sua colonia, i due topi più piccoli lo ascoltavano ad occhi chiusi. A volte mi sembrava di addormentarmi in quella specie di racconto circolare che si annodava su se stesso. In quella sorta di torpore, capitava che pensassi a qualche luogo del mondo fuori, dove magari ero stato di recente. Una fontana, una piazza, una strada, un giardino pubblico. E allora i topi non c’erano più, forse avevano concluso la loro esibizione sempre uguale a se stessa. Sentivo il bisogno di uscire, di camminare nella notte fonda, nella città vuota, a passo svelto.
Di solito andavo sempre nella stessa direzione.
Una notte in cui cercavo di dormire, mi si presentarono nella stanza da letto: la spirale dei racconti del topo era più vorticosa e fastidiosa del solito. Accadde la stessa cosa delle altre volte nelle quali i tre roditori mi sottoponevano la loro bizzarra liturgia piena di suoni e di voci incomprensibili. Uscito da quel torpore, ancora una volta ebbi l’istinto di uscire: presi il lungo rettilineo alberato che portava alla stazione. Davanti a me una visione tetra con quegli alberi neri e quel cielo fumoso e buio. Correvo, quasi. Affannato, senza incontrare nessuno. Dopo cosa accadde? Ricordo che vagai così a lungo che stava facendosi giorno. I suoni del lavoro, le spazzatrici stradali, il tintinnio delle tazzine da caffè nei bar, mi arrivavano come da un altrove, al di fuori di me. Era qualcosa di simile al torpore del racconto del topo, un’eco ripetitiva e funesta. Mi ritrovai sdraiato in una stanza bianca con un medico vestito di bianco che mi stava visitando: probabilmente ero svenuto.
Quel medico mi riaccompagnò a casa con l’automobile, mi sembrava di stare bene. Durante il viaggio il dottore mi fece qualche domanda, quindi si raccomandò di tornare quanto prima in ambulatorio. Mi diede un foglietto scritto, delle medicine. Io uscii dall’auto, salutai. Lui riaccese il motore e se ne andò.
Salii le scale di casa, tirai fuori le chiavi. Una volta entrato e chiusa la porta dietro di me, pensai che non sapevo cosa fare. Ero di nuovo nella casa dei topi, solo. Mi stesi sul letto, che era ancora disfatto dalla notte prima e guardai verso la finestra: stava facendo di nuovo buio. Ancora quel silenzio, ero di nuovo lì: teso ad ascoltare se ci fossero rumori nel sottotetto. La certezza che quegli animali sarebbero tornati mi terrorizzava.