La prigione che abitiamo


Riflessioni sul mondo della giustizia e del carcere


Una volta ascoltai un noto psicoanalista parlare di carcere. Mi colpirono le sue parole quando affermò che ognuno di noi, se potesse, trasformerebbe il mondo in un’unica prigione, per rinchiudervi tutti tranne sé stesso. In questo modo salverebbe sé stesso dal pericolo rappresentato dall’altro, un pericolo simbolico posto alla propria libertà. Restando sul tema, l’inconscio freudiano, quella parte “sorvegliata” dal grande custode “Super-io”, il luogo dove nascondiamo e teniamo sotto chiave pensieri, istinti, pulsioni, desideri che ci imbarazzano e riteniamo riprovevoli, rimanda proprio alla metafora della prigione. Ma dalla prigione si cerca di evadere perché è il luogo che priva della libertà, e quindi anche l’inconscio evade, evade con i sogni e con i contenuti simbolici che essi ci restituiscono al mattino. Non tutti però ricordano i sogni e c’è chi è pronto a giurare che non sogna, che le sue notti siano assenza di coscienza e basta. Ma è proprio così?

Il carcere è un luogo simbolico, dunque, che ci “salva” dal riconoscere la parte più nascosta di noi, perché poi quella parte occorre saperla accoglierla, interrogarla, incamminarsi in un percorso di autoconoscenza, anche senza l’aiuto dello psicanalista, che ci affranca dalla paura di vivere, dal dolore sordo che sembra non avere un perché, che si nutre della sensazione di sentirsi il bersaglio della cattiveria degli altri: tutti colpevoli tranne me stesso. Salvarsi da questo punto di vista è il primo passo verso la libertà, assumendosi la responsabilità di ciò che si è e di ciò che si fa, partendo dal qui e ora, con la consapevolezza che il passato non si cambia, crediamo o meno nel destino e nell’ineluttabilità di ciò che è stato. Invece è più rassicurante riprodurre schemi di comportamento antichi e non ci sforziamo di vedere oltre quella prigione in cui ci siamo incatenati anziché proiettare la nostra esistenza liberi dalle catene che noi stessi contribuiamo a stringere intorno a noi.

Il mito platonico della caverna ci viene in aiuto per comprendere quanto siano potenti le tenebre che ci impediscono di vedere la forma reale delle cose, attribuendo alle ombre che si proiettano sui muri il significato di oggetti reali. I prigionieri della caverna platonica vivono al buio, volgono le spalle all’ingresso. Dietro di loro, all’esterno, arde un grande fuoco che proietta sul muro le ombre di uomini che trasportano oggetti lungo una strada posta tra il fuoco e le loro spalle. Platone racconta cosa potrebbe accadere se uno di loro venisse liberato dalle catene e, in piedi, potesse volgere lo sguardo verso l’esterno. I suoi occhi rimarrebbero abbagliati dalla luce del fuoco ed egli proverebbe dolore. L’abitudine a guardare le ombre, scambiandole per forme reali, lo condurrebbe a pensare che le ombre che guarda all’esterno siano meno reali di quelle che è abituato a guardare sul muro della caverna. Se poi il prigioniero potesse uscire all’esterno, la luce diretta del sole lo accecherebbe e non riuscirebbe comunque a vedere la realtà, anzi, proverebbe irritazione per essere stato costretto ad abbandonare il buio della caverna. Il prigioniero avrebbe bisogno di tempo per abituarsi a distinguere le ombre delle persone e le loro immagini riflesse nell'acqua e solo con il passare del tempo potrebbe sostenere la luce e guardare gli oggetti. Il processo di conoscenza, anche se lento e doloroso, lo porterebbe a volgere di notte lo sguardo al cielo e ammirare i corpi celesti con maggiore facilità che di giorno. Ecco infine che il prigioniero, oramai liberato dalle tenebre, potrebbe vedere il sole e non il suo riflesso nell'acqua e vorrebbe ritornare nella caverna e liberare i suoi compagni, ma prima dovrebbe convincerli di ciò che aveva visto. Il ritorno dalla luce alla tenebre porrebbe però il problema inverso, dovrebbe cioè riabituare gli occhi al buio per ritornare a guardare il fondo della caverna. In questo spazio di tempo sarebbe oggetto di scherno da parte dei suoi compagni convinti che il tempo passato all’esterno della caverna gli abbia procurato danni agli occhi. Il momentaneo riadattamento alle ombre della caverna lo esporrebbe anche a un rischio maggiore, perché impiegherebbe del tempo a convincerli e se tentasse di liberarli e portarli alla luce, i compagni, convinti che il dolore provocato dalla luce diretta sia insopportabile, piuttosto lo ucciderebbero per non sottoporre i loro occhi allo stesso dolore. Ecco il dialogo tra Socrate e Glaucone riportato nel libro vii del dialogo “La Repubblica”: «E considera anche questo», aggiunsi: «se quell'uomo scendesse di nuovo a sedersi al suo posto, i suoi occhi non sarebbero pieni di oscurità, arrivando all'improvviso dal sole?» «Certamente», rispose. «E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con i compagni rimasti sempre prigionieri prima che i suoi occhi, ancora deboli, si ristabiliscano, e gli occorresse non poco tempo per riacquistare l'abitudine, non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo tra le mani e ucciderlo?» «E come!», esclamò. «Questa similitudine», proseguii, «caro Glaucone, dev'essere interamente applicata a quanto detto prima: il mondo che ci appare attraverso la vista va paragonato alla dimora del carcere, la luce del fuoco che qui risplende all'azione del sole; se poi consideri la salita e la contemplazione delle realtà superiori come l'ascesa dell'anima verso il mondo intellegibile non ti discosterai molto dalla mia opinione, dal momento che desideri conoscerla>>.

 

Avrei dovuto inaugurare questo spazio nella Stanza di Virginia parlando di carcere reale, il luogo dove si eseguono misure restrittive proporzionate al reato commesso, carcere come luogo di punizione e come luogo di risocializzazione, secondo il principio dettato dall’art. 27 della Costituzione “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’inconscio forse mi ha guidato e mi ha fatto scrivere della prigione come luogo simbolico, come metafora dell’esistenza ancor prima che come luogo di detenzione. Forse perché la dimensione del carcere reale e dell’umanità dolente che lo abita è invisibile a noi prigionieri senza catene. Su di esso agisce una rimozione collettiva che fa volgere lo sguardo lontano dai muri e dalle sbarre, che ci fa chiudere gli occhi come il prigioniero della caverna quando incontra la luce della conoscenza, proprio come l’inconscio che censura ciò che provoca imbarazzo e disagio.

Susi Borzacchiello - autore.

Giornalista, laurea in filosofia e consulente filosofico, mi occupo di comunicazione istituzionale in ambito penitenziario. Mi piace il potere creativo e liberatorio della scrittura, rifuggo dal conformismo culturale e ideologico, dai punti di vista che creano certezze e dagli sguardi distratti sul mondo. Sono nata a Napoli e vivo a Roma da molti anni, sono del segno dello scorpione.

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