“Anelli di quercia”, di Cristina Bergomi
di Marina Brunetti
“La ferita che il non amore ci ha inferto è il ventre dal quale veniamo generati molte volte”. (Peter Schellenbaum, La ferita dei non amati, Red Ed., 1991)
Esiste un lato oscuro del dolore: la vergogna di raccontarlo. Se non si riesce ad articolarlo, a tratteggiarlo a voce, si ricorre alla parola, allo scritto, che permette le dovute pause, lascia il tempo di decantarlo quel dolore, di assecondare la mano che verga, nero su bianco, l’impronta di quel che eravamo, e che non siamo più. Un attimo prima di quel dato istante eravamo qualcosa, un attimo dopo la sua copia, sbiadita e colpevole, che dimorerà per sempre in noi. Il libro di Cristina Bergomi, “Anelli di quercia”, si apre dolorante come un edema fisico, con dei lividi veri, ma anche col gonfiore cardiaco che vorrebbe mettere fine alla miseria di vivere di Anna con un uomo violento, Sergio, vittima anche lui di un ignobile passato, quello dei non amati. L’infanzia di Anna è fertile terreno per i diseredati di affetto come Sergio, vittima anche lei di un abuso quando era ancora solo una bambina, quando la vita ha la gioia semplice di un’altalena, di un albero cavo di collina: “Ai bambini basta poco. Sono spalancati verso il mondo come fiori appena schiusi. Si lasciano conquistare da una parola piena di premura, un abbraccio, una risata che, come subdoli cavalli di Troia, s’insinuano nelle anime pure" (ebook, pos.9). Quest’ultima, la collina, è mesta spettatrice di quello che nessun padre o madre vorrebbe mai per la propria figlia, quell’indelebile macchia che non va mai via e da cui difficilmente si trovano i mezzi per riaversi, per imboccare la via della resilienza, quell'abilità, cioè, di riemergere fortificati da traumi e difficoltà, termine mutuato dalla fisica a indicare la capacità di un metallo di tornare alla sua forma originaria, dopo essere stato piegato; per fortuna, direbbe André Malraux (“La condizione umana”) “[...] ci resta l’azione, un uomo è la somma dei suoi atti, di quel che ha fatto, di quel che può fare. E basta”. Ma Anna no, non li possiede tali mezzi, ama nonostante tutto suo marito, i lividi “marchiano il corpo con l’infamia mostrando al mondo la mia vergogna […] ciò che mi terrorizza davvero è il dolore che deriva dall’incapacità di vivere. Quello non si risana mai: è una morsa che avviluppa ogni cellula e ci tiene in scacco, riducendo la mente a brandelli” (ib., pos.3).
L’incontro felice in età adulta con Sergio, sembra tenere momentaneamente silente la bambina violata, grazie a un uomo che la fa sentire speciale, che la sa ascoltare, pur tacendo molto di sé. Per qualche tempo quel primo incontro non ha seguito, poi i due si rivedono per caso e per Sergio parlare con Anna significa soltanto sfogliare un libro che conosce già a memoria, la capisce, lei si sente esposta e vulnerabile, ma felice di poter condividere con lui la trama incancrenita delle sue cicatrici, che li unisce come esseri gemelli; anche Sergio custodisce un passato travagliato, una morte prematura della madre, un trascorso di figlio alle prese con un padre violento e vigliacco, incapace di crescere i due figli a lui affidati: “Gli esseri tormentati si riconoscono dall’odore della disperazione. Si aggirano per il mondo con i pugni serrati per difendersi dai mostri invisibili che animano le loro notti” (ib., pos.16). Sergio sa farsi spazio nel cuore e tra gli scheletri di Anna, ne ha riconosciuto il tintinnio, ha fiutato l’odore del sangue, gli spettri di lei sono anche i suoi, perché, in fondo, “siamo tutti esuli dal nostro passato” (Dostoevskij). Lui le propone, affrettando i tempi, una convivenza, che lei accetta senza tuttavia rinunciare a una supplenza che si rivelerà poi la sua salvezza, prodromi di una resilienza che stenterà a decollare. Quando per Anna si prospetta la felicità, perché dedicare energie e pensieri alla paranoia e gelosia di lui, perché fare caso a “una verità meno poetica di ciò che raccontavo a me stessa: la mente di Sergio era un luogo cupo, popolato da spettri minacciosi che deformavano le cose intorno a lui rendendole pericolose e spaventose” (ib., pos.27). A scuola, Anna stringe amicizia con una collega, Marta, che sarà in seguito la sua comprensiva depositaria di confidenze, “una di quelle persone che sembrano ancora più attraenti dopo averle conosciute perché la loro personalità le illumina, conferendogli un’aura che va ben oltre la mera bellezza fisica” (ib., pos.30). Marta è anche colei che riesce a intuire i segnali negativi nella convivenza di Anna più di quanto non faccia lei stessa, segnali che c’erano sempre stati, atteggiamenti, gesti, espressioni che preludevano a conseguenze nefaste, ma che venivano zittiti dal sentimento d’amore; le gelosie patologiche e il desiderio morboso di possesso di Sergio erano mantra silenti pronti ad implodere per decretare l’indubitabile amore di lui per lei.
L’autrice ha uno stile forte, incisivo, mai greve e incolla, nel corso della narrazione, scorci introspettivi di infanzia, ricordi del passato, dei flashback che aiutano a percepire la rilevanza che alcuni episodi avrebbero poi avuto nell’età adulta di entrambi, quell’ignobile imprinting che si vorrebbe cancellare con la gomma razionale e matura, pur tuttavia ancora fragile, dell’esperienza. Individui innocenti e ignari che si pongono sulla linea di fuoco di Sergio, gli offriranno il pretesto per sfogare ogni volta i propri impulsi violenti sulla moglie, su cui cerca di esercitare un parossistico controllo, o di sfogare la sua rabbia, quella “dentro di lui, non fuori”: “Quando si vive una relazione malata, il bene e il male si fondono e si diventa incapaci di distinguerli. Il limite che si pensava insuperabile viene costantemente oltrepassato e l’asticella si sposta ancora più lontano, verso un confine che appare sempre più labile” (ib., pos.41). Il triste bollettino di guerra dei femminicidi, dei casi di violenza domestica, di stalking a cui siamo quasi quotidianamente sottoposti dimostra, oltre ogni ragionevole dubbio, tra cui quello, spesso errato, di un’indole debole connaturata alla donna, che “quando un uomo, anziché interrogarsi sul fallimento della sua vita amorosa, anziché elaborare il lutto per ciò che ha perduto, anziché misurarsi con la propria solitudine, perseguita, colpisce, minaccia o ammazza la donna che l’ha abbandonato, mostra che per lui il legame non era affatto fondato sulla solitudine reciproca, ma agiva solo come una protezione fobica rispetto alla solitudine” (M. Recalcati, Quel maschio fragile che non accetta limiti, “La Repubblica”, 5/5/2012).
Sergio giustifica e assolve la sua incontrollabile violenza vestendola dell’abito falsato dell’amore assoluto, quello che vorrebbe due anime unite solo in virtù di una reciproca esclusività, ma tutto questo è terribile, insano, come ci ricorda Elsa Morante, perché è tuttavia “un inferno essere amati da chi non ama né la felicità, né la vita, né se stesso, ma soltanto te”(“L’isola di Arturo”, ebook p.2035). In quei momenti di puro terrore e sopraffazione che Sergio riserva ad Anna, dimora un’atavica quanto malata spiegazione: lei rappresenta l’incarnazione di ciò che non si può mai sottomettere, disciplinare, possedere integralmente; in pratica ciò che la donna, in senso negativo, rappresenta per l’uomo, il limite insuperabile e l’angoscia verso un “qualcosa” che non si può governare e di cui la gelosia maschile dà solo una vaga percezione. Neppure Dino, il protagonista di “La noia” di Alberto Moravia, riesce nel suo intento di controllare la propria donna, Cecilia, allettandola con il denaro, nulla, nessun oggetto né cosa può trattenere ciò che è per sua natura sfuggente. Troppo semplice ridurre tale sottomissione a fattori caratteriali o, peggio ancora, tratti propri dell’indole femminile; Anna è una donna con un lavoro, potrebbe essere indipendente se solo lo volesse, ma l’ansia di costruire una famiglia e la pervicacia di volerla far funzionare, il bisogno di una presenza maschile accanto, la portano a subire più di quanto avrebbe immaginato e a perdonare più di quanto avrebbe dovuto: “Non rinunciare mai, Catherine. Hai tante cose dentro di te e la più nobile di tutte, il senso della felicità. Ma non aspettarti la vita da un uomo. Per questo tante donne s’ingannano. Aspettala da te stessa”, diceva Albert Camus (“La morte felice”), avvalorando la tesi degli psicologi secondo cui in un ideale processo di resilienza, fattori fondamentali sono il rafforzamento della stima di sé e il senso di sicurezza interno. Anna cerca in ogni modo di fortificare questo senso di stabilità ed è quasi certa di averlo raggiunto nel momento in cui scopre di aspettare un bambino, un evento che viene inizialmente accettato con gioia anche dal marito e che sembra momentaneamente pacificare e solidificare la loro unione.
Tuttavia è sufficiente scoprire che il bambino atteso sarà un maschio, e non una bambina come aveva soprattutto sperato Sergio, ansioso di fugare gli spettri infantili che popolavano i suoi giorni, quel se stesso odiato, malmenato e privo di significativi appoggi esterni, per far precipitare il fragilissimo ménage coniugale. I genitori rappresentano spesso il punto cardine su cui fanno leva le più complesse problematiche sviluppate dai propri figli, una sorta di proiezione mentale che favorisce la coazione a ripetere il proprio destino quotidianamente, attraverso pensieri nocivi, malsani e distruttivi: “[…] I miei genitori sapevano che cosa stavano commettendo? Assolutamente no. Senza volerlo, facevano a me quello che era stato fatto a loro. E così, reiterando di generazione in generazione i misfatti emozionali, l’albero di famiglia continuava ad accumulare una sofferenza che durava da parecchi secoli” afferma Jodorowsky in “La danza della realtà” e forse è proprio per esorcizzare una sua potenziale reiterazione che Sergio, alla fine, commetterà quell’irreversibile gesto che cambierà per sempre l’esistenza di tutti.
“Anelli di quercia”, di Cristina Bergomi (edizione digitale autoprodotta e auto pubblicata, dicembre 2013).