Il Cicerone che non ti aspetti
di Andrea Socrati
[In questo discorso] Ho tirato fuori, come mai altre volte, periodi arrotondati, passaggi abili, pensieri acuti, artifizi retorici.
In una sua lettera inviata all’intimo amico Attico, Marco Tullio Cicerone, con parole di estrema sincerità, parla di se stesso e di un suo discorso tenuto in Senato e finalizzato a ben figurare in presenza di Pompeo, l’uomo più “in” della Roma degli anni 60 a.C., insieme al beneamato Giulio Cesare, che proprio allora cominciava la sua inarrestabile ascesa politica.
L’arte dell’oratoria (in latino oratio, cioè della “manifestazione del pensiero tramite la parola” e quindi “discorso”), in realtà, non è originaria della caput mundi. Già la civiltà greca assegna al discorso razionale, che si traduce e si articola in parole, una funzione essenziale per la vita nella società: l’uomo greco è profondamente convinto che chi sa parlare in modo logico e coerente possieda uno strumento potentissimo che permette di assicurarsi il consenso degli altri e sottometterli alle sue decisioni. Quasi un’arma da fuoco, quindi. E fu così che nel corso dei secoli, impiegando la retorica nei vari aspetti della vita quotidiana (la politica, i dibattiti giudiziari, ma anche la filosofia, ecc.), diviene una scienza a tutti gli effetti, grazie alla quale grandi nomi come Lisia, Isocrate o Demostene sono in grado di muovere intere masse da una parte (o da un partito) all’altra.
Con il progressivo sviluppo della civiltà romana, e con l’interessante diffondersi delle liti giudiziarie e di comportamenti politicamente scorretti (niente affatto sconosciuti a noi), anche a Roma la retorica e l’oratoria trovano terreno fertile. Oltretutto, ogni (benestante) giovane romano deve fare una “vacanza-studio” in Grecia, dove può entrare in contatto con i “big” in voga del settore e apprendere i segreti del mestiere. Cicerone, dopo il suo regolare tirocinio formativo a Roma, va felicemente ad Atene insieme al fratello e ne rimane estasiato: dirà, infatti, (De finibus V 5).
Emanuele Narducci, dopo aver dedicato a Cicerone un trentennio di studi, ha scritto un’opera (Cicerone. La parola e la politica), edita da Laterza, che va ben al di là della consueta rassegna accademica; lo studioso, infatti, non si limita a dare informazioni da manuale, in modo comunque quasi romanzesco e accessibile a tutti, ma ci racconta anche singolari aneddoti e peculiarità del celebre oratore, statista, politico e filosofo latino, tutte informazioni che difficilmente si leggono in un testo (spesso) universitario e avvicinando così sorprendentemente a noi uno scrittore vissuto più di 2000 anni fa: il quartiere di residenza prescelto, le più profonde inquietudini del personaggio, le varie teorie sulla sua morte, la gara quotidiana con il suo amico Roscio, le sue derive maschiliste e talvolta omofobe, i suoi continui cambi di bandiera, i suoi continui dolori di stomaco, ma anche informazioni sul modo (davvero singolare!) in cui si svolgevano le campagne elettorali nella Roma repubblicana, fornendoci anche un vero e proprio galateo del buon politico e del perfetto oratore; il tutto, arricchito di un’accuratissima scelta di passi tratti da opere sue o altrui.
Narducci ci regala, quindi, un Cicerone “diverso”, ma che probabilmente si sarebbe gloriato, da buon presuntuoso, se avesse saputo che qualcuno, a distanza di millenni, avrebbe scritto e parlato di lui, e avrebbe fieramente guardato l’obiettivo delle telecamere, se qualcuno l’avesse intervistato.
Cicerone, in quel discorso del 61 a.C. succitato, riuscì nel suo intento, poiché l’arte della seduzione (verbale!) certamente non gli mancava. Già, perché, se non era un playboy e con le donne non ci sapeva fare, ma anzi risultava goffo e piuttosto sgraziato (aveva sposato una donna molto particolare, che probabilmente non amava), tuttavia, grazie alla sua parola, era capace di far tacere i giudici, gli imputati e tutto il popolo di Roma.
Con la sua verve, l’oratore per antonomasia rendeva il tribunale un palcoscenico, imputati, giudici e testimoni il suo pubblico, e lui era considerato una star, spesso tanto attesa che addirittura – spiega Narducci – chiunque avesse sentito la sua voce in lontananza, abbandonava la propria attività per andare ad assistere allo “spettacolo” (tra l’altro gratuitamente).
Scrive Narducci:
[...] i romani erano consapevoli delle indubbie analogie tra lo ‘spettacolo’ del processo e la rappresentazione teatrale. Ma quanto avveniva nei tribunali non aveva, come sulla scena, il carattere della finzione; dopo che era stato emesso il verdetto, il pubblico non ritrovava, come al calare di un sipario, la stessa realtà che aveva lasciato per immergersi nella rappresentazione: per moltissima gente, niente restava come prima.
Il discorso ciceroniano è un vero e proprio elettroshock di emozioni (autentiche o artificiali): che si tratti di indignazione, letizia, tristezza o collera, l’oratore mette letteralmente in scena tutto ciò che possiede e conosce, mette tutto se stesso, senza improvvisare, al fine di portare a casa l’ennesima vittoria. E una sola volta, infatti, Cicerone viene sconfitto.
Un avvocato, insomma, che tutti oggigiorno vorremmo avere: interessato sì al denaro, ma anche sinceramente impegnato in politica (connubio assai raro nel nostro Parlamento), amante della famiglia e dell’amicizia, un uomo a cui davvero nulla mancava, se non un pizzico di umiltà.
C’è da chiedersi, quindi, dopo la lettura di questa trattazione un po’ “sui generis” (come all’oratore sarebbe piaciuto definirla), chi debba insegnare e chi debba imparare.