Diversamente Eco: l’ultima fatica narrativa del Professore
di Giovanni Garuglieri
Il nuovo racconto di Eco in versione vintage - giornali corrotti, trame clandestine, storie immaginarie - ambientato a Milano nel 1992, piacerà ai suoi numerosi lettori e gliene farà guadagnare di nuovi?
È in commercio l'ultimo romanzo di Umberto Eco, Numero zero: rispetto alle precedenti opere di narrativa il numero di pagine si è sensibilmente ridotto – 218 rispetto alla media precedente di circa 500 - e il contenuto semplificato. È questo che intendeva l'autore quando ha affermato da Fazio che se finora i sui libri sono stati sinfonie di Mahler, questo è un pezzo di Charlie Parker? Per capire su quale piano considerare la validità di questa affermazione, è bene avvicinarsi a comprendere questa opera.
La domanda da porsi, su cui torneremo alla fine dell'analisi, è quella sulle intenzioni dell'autore, quale obiettivo cioè Eco intendesse raggiungere con Numero zero. Il romanzo si inserisce nel solco di quella letteratura del complotto e del complottismo cui l'autore aveva dato avvio nel 1988 con Il Pendolo di Foucault e che aveva ripreso con Il Cimitero di Praga nel 2010 - e sarà per questo attraverso il confronto con tali romanzi che l'oggetto della ricerca risulterà comprensibile.
Il protagonista narratore di Numero zero racconta la sua esperienza all'interno di una improbabile redazione, il cui unico scopo è preparare i numeri destinati alla stampa, che non vedranno mai, e ciò con l'unico scopo di ricattare potenti con l'arma della diffamazione: dietro loro pagamento l'editore non avrebbe pubblicato il giornale; l'obiettivo dei giornalisti non sarà raggiunto e l'esperienza finirà in tragedia. Per ciò che concerne il plot, ovvero gli elementi fondamentali della storia, si nota in primo luogo una certa semplificazione rispetto ai romanzi precedenti: l'ossatura è immediatamente riconoscibile già dalle prime pagine, e il lettore non è sottoposto alle lunghissime digressioni erudite o alle foreste di simboli presenti altrove. Ciò vale anche per i personaggi, figure che ruotano attorno alla piccola editoria scandalistica e perlopiù senza interessi storici o filosofici – ed anche quando questi sono presenti non altereranno l'accessibilità delle pagine né daranno adito alle lunghe discussioni dotte del Pendolo e del Cimitero. Per spiegarci: il protagonista di quest'ultimo romanzo, Simone Simonini, ripercorrendo la propria esistenza e quella dei propri avi, dà il pretesto per excursus storici lunghi interi capitoli (il cap. 7 verte sulla spedizione dei Mille, il 17 sulla Comune di Parigi, il 18 sui Protocolli di Sion); l'io narrante del Pendolo, Casaubon, spazia per le 503 pagine della narrazione dai Rosa-Croce al misticismo ebraico, dall'ingegner Eiffel a Satana. Eccetto le pagine di cui diremo tra poco, in Numero zero non vi è traccia di tutto ciò e la maggior parte dei riferimenti è alla portata di tutti: si va Chandler e D'Annunzio (p. 18) ad un lungo soliloquio su Saab, Rover e Mercedes (pp. 43-46).
Osservando poi le caratteristiche delle figure protagoniste ci si imbatte in un fatto notevole per un autore come Eco, cioè la non verosimiglianza di queste o, se si preferisce, un difetto di spessore. Nella pratica ciò risulta, nelle 180 pagine del racconto del protagonista, dal fatto che ad esse non viene concesso un grande rilievo: nonostante questo spazio consti perlopiù di dialoghi, questi divengono il luogo in cui si gioca alla progettazione del numero zero della rivista, la bozza che non vedrà la luce, in cui si scherza su luoghi comuni e fenomeni giornalistici, come a pagina 101, dedicata per tre quarti a invertire frasi fatte ("a volte la fantasia supera la realtà, premetto che sono razzista, le droghe pesanti sono l'anticamera delle canne" ecc.) e in cui si manifesterà il desiderio didattico di Eco; questa volta non con storie di Templari, carbonari o filosofi medievali, ma raccontando aspetti della nostra storia più recente, dato che il racconto si svolge a Milano nel 1992: la settimanalizzazione dei quotidiani o la diffusione della macchina del fango; l'emergere della corruzione e sinistri o ironici presagi sugli anni a venire.
Sempre in riferimento a questo aspetto ci si può chiedere come mai Braggadocio, uno degli improbabili redattori, nella seconda metà del romanzo, offra una lunghissima disquisizione sugli ultimi giorni di Mussolini, con una sicurezza più da storico che da giornale scandalistico, esponendo dettagliatamente l'argomento da pagina 169 (ma introdotto già dalla 157) a pagina 188. La spiegazione più plausibile è che l'autore, pur forte della sua esperienza nell'editoria, riflessa anche nel Pendolo, non abbia acquisito tuttavia conoscenza dell'ambiente umano della cattiva editoria, di cui emergono sì i meccanismi, ma senza che gli attori risultino convincenti.
Un po' lo stesso motivo per cui Proust, che ha descritto il mondo della borghesia del suo tempo così dettagliatamente, proprio per averlo vissuto, non avrebbe potuto ritrarre altrettanto bene quello popolare, a ragione della sua estraneità con esso. È legittimo pensare di trovarsi di fronte ad un tentativo di svolta narrativa, e ciò in direzione di un romanzo più accattivante e più facile, per di più di un genere, quello giallo, che gode di grande popolarità, probabilmente con il fine di ampliare il pubblico di lettori. Umberto Eco sembra aver rinunciato alle strutture narrative del Pendolo e del Cimitero che, per quanto non fossero sperimentalismi, recavano un'impronta piuttosto personale.
La tentazione è quella di accusare il Professore di avere scritto un'opera ben al di sotto delle sue possibilità, nella certezza che il solo nome gli avrebbe garantito comunque vendite; può darsi che ciò abbia influito, ma forse è più probabile che abbia cercato di cimentarsi con un genere di natura più "bassa".
Torniamo all'affermazione secondo cui avrebbe abbandonato le sinfonie di Mahler per dedicarsi ad un Charlie Parker. Se vogliamo comprenderla attraverso la seconda lettura, deve risultare che qualcosa è andato storto: il prodotto non è, difatti, un buon romanzo di genere minore, per il quale sarebbe stato necessario cambiare anche i ferri del mestiere, cioè un altro approccio alla realtà ed un altro mondo da ritrarre, bensì un racconto la cui story e il cui plot non persuadono. Eco lo ha realizzato più sottraendo allo scrittore che è, che non adottando nuovi strumenti e una nuova prospettiva.