"Accabadora" di Michela Murgia
di Rita Pisanello
Accabadora, cioè "colei che finisce" in sardo, è un libro di successo pubblicato nel 2009, edito da Einaudi, e vincitore del Premio Campiello del 2010. Accabadora è l'ultima madre, non un'assassina per la comunità, quanto colei che compie il gesto amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi.
Ambientato in un piccolo paesino della Sardegna degli anni ’50, dove la gente sa tutto di tutti, ma fa finta di non sapere, e spettegola malevolmente sul rapporto misterioso che unisce le due protagoniste Tzia Bonaria Urrai e la piccola Maria.
Tzia Bonaria, che non è mai stata sposata, sceglie di prendere con sé Maria, che è l’ultima di quattro sorelle di madre vedova, per farla crescere e farne la sua erede, chiedendole in cambio solo compagnia e cura quando arriverà il momento del bisogno.
Maria è quella che i sardi chiamano “fillus de anima”, cioè i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna che li cede e dalla sterilità di un’altra che li accoglie. Questo è proprio l’incipit del romanzo, dal quale, fin da subito, emerge uno dei temi centrali del romanzo, quello dell’adozione e del rapporto umano che si instaura tra due persone che non hanno vincoli familiari ma che si scelgono per tutta la vita. Significativi i passi di pag. 18: “ … e tutt’a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fill’e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia.”, e di pag. 26: “Tu sei diventata mia figlia nel momento stesso in cui ti ho visto, e non sapevi ancora nemmeno chi ero”.
Fin dal principio Maria va a vivere con Tzia Bonaria allontanandosi dalla madre naturale della quale quasi dimentica la fisionomia, anche se in realtà continuerà a vederla, così come le sorelle, ogni volta che ne avrà voglia. A pag. 4 la Murgia scrive:“Si perse anche i ricordi della faccia di sua madre mentre lei si allontanava, quasi se la fosse scordata già da tempo”. Maria è una bambina abbandonata a se stessa, che rubacchia non per necessità ma per prendere ciò che desidera, fino a che Tzia Bonaria non la scorge a rubare delle ciliegie in un negozio e di fatto la adotta.
Questo ricordo affiorerà solo quasi alla fine del romanzo, al ritorno di Maria dal Continente, quando Bonaria Urrai giace in un letto di ospedale e percepisce la presenza silenziosa della figlia adottiva che la osserva. Allora ricorda come tutto ebbe inizio: “Gli occhi della vecchia furono i soli a vedere che dal cesto di ciliegie Aritzo un pugno di frutti neri spariva tra le pieghe del vestitino di Maria, nel segreto di una tasca bianca. Su quel volto infantile Tzia Bonaria non vide comparire né vergogna né consapevolezza, come se l’assenza di giudizio fosse il giusto contrappasso della sua dichiarata invisibilità. Le colpe, come le persone, iniziano ad esistere se qualcuno se ne accorge”.
Questo passaggio a pag. 145 è particolarmente significativo, perché coglie, con poche parole, due aspetti importanti: l’assenza di visibilità di Maria per la madre naturale, che non si cura affatto di questa bambina silenziosa e solitaria, e il senso di colpa, che viene percepito solo da chi è consapevole della illegittimità delle proprie azioni. Senso di colpa che scalfisce anche Bonaria Urrai quando Maria finalmente si rende conto con estrema chiarezza che le uscite notturne di Tzia Bonaria non sono innocenti, soprattutto quando ricollega l’attività notturna della madre adottiva con la morte di Nicola Bastìu, l’unica morte a sconvolgere la coscienza di Bonaria Urrai.
Tornando al rapporto che unisce le due donne, si può affermare che la loro intesa è speciale, come tutte le cose che si scelgono e che non nascono dalla natura.
Il tema dell’adozione è quello che maggiormente emerge nella prima parte del romanzo. Molti sono i passaggi particolarmente toccanti e significativi:“L’anziana sarta si era comportata da subito come se la creatura le fosse nata in grembo”(pag. 17). La sensibilità di una madre, che Bonaria Urrai dimostra, è a tratti sconcertante, come quando accoglie Maria nella propria casa facendogliela scoprire a poco a poco fino a sentirla anche sua: “Bonaria Urrai non fece mai l’errore di invitarla a sentirsi a casa propria, né aggiunse altre di quelle banalità che si usano per ricordare agli ospiti che in casa propria non si trovano affatto. Si limitò ad aspettare che gli spazi rimasti vuoti per anni prendessero gradualmente la forma della bambina, e quando in capo a un mese le porte delle stanze erano state tutte aperte per rimanere tali, ebbe la sensazione di non aver sbagliato a lasciar fare alla casa”. Oppure quando la presenta agli altri facendola sentire per la prima volta come una persona e non un numero. La madre naturale aveva, infatti, l’abitudine di non chiamarla per nome e presentarla agli altri come “l’ultima”o “la quarta”, invece Bonaria dice semplicemente: “Lei è Maria” (pag. 18).
La madre naturale si rivolge alla figlia solo in caso di bisogno, “Maria veniva richiamata a casa ogni volta che serviva”(pag. 41), e perché erroneamente pensa che Maria debba restituire un po’ di quei benefici che ha ricevuto dalla vita vivendo con Bonaria Urrai “…non aveva rinunciato del tutto all’idea che la condizione privilegiata di Maria dovesse comportare qualche vantaggio in più per lei, …”, “Non c’erano ragioni perché non cominciasse a restituire un po’ di quello che aveva ricevuto, considerando da che pentola si era riempita la pancia fino ai sei anni”(pagg. 41-42).
Perfino al funerale di Bonaria Urrai la madre di Maria si dimostra venale e poco addolorata per la morte di quella donna che l’aveva sollevata dal pesante fardello di dover crescere una figlia di troppo. Nelle due ultime pagine del romanzo si legge: “Anna Teresa Listru si pavoneggiò per tutto il tempo di un dolore che assolutamente non provava, confidando nella ricchezza caduta in mano di Maria, quella figlia che dal suo più grosso errore credeva ora mutata nel migliore dei suoi investimenti”.
Nella seconda parte del romanzo, la Murgia concentra la sua attenzione su un altro tema scottante, l’eutanasia.
Di Bonaria Urrai si sa che è la sarta del paese, ma conosce sortilegi e fatture e spesso durante la notte si veste di nero ed esce da casa con fare misterioso. Già a pag. 12 del libro si legge: “La prima volta che Maria si accorse che Tzia Bonaria usciva di notte aveva otto anni, … [omissis]”.
Solo divenuta grande, Maria, capisce il perché di quelle uscite notturne misteriose, fino ad allora solo intercettate ma non comprese. Capisce che Tzia Bonaria è “accabadora”, in sardo colei che finisce, dallo spagnolo “acabar” che significa finire.
Essa, infatti, aiuta i moribondi a morire, e come un’ultima madre accompagna amorevolmente e pietosamente le loro anime, confortandole nel momento estremo. “L’ultima. Io sono stata l’ultima madre che alcuni hanno visto” (pag. 117).
Il suo intervento nella morte altrui è qualcosa di misericordioso e giustificato solo dall’estrema sofferenza del moribondo che, incosciente, si abbandona al sonno eterno. Per Bonaria Urrai è inconcepibile, invece, che siano i familiari a chiederne la morte, solo per liberarsi da un fardello divenuto troppo pesante da sopportare e, nel sesto capitolo, arriva a maledire la famiglia Vargiu per averla chiamata a finire il vecchio padre, il quale, lucidamente, fa capire a Bonaria di non essere poi così vicino alla morte come vorrebbero far credere i suoi parenti più stretti.
Solo la richiesta del giovane Nicola Bastìu, si aiutarlo a morire dopo essere rimasto menomato, o “storpio” come si definisce lui, e aver perso il vigore della gioventù, getta Tzia Bonaria in uno stato di confusione e di dolore, e, nonostante sia convinta che non si può favorire la morte di chi può ancora avere una vita piena e attiva, dopo molte insistenze, vacillerà di fronte alla determinazione del ragazzo e ne provocherà la fine.
Maria non comprende e non accetta la verità dell’accabadora, che le viene rivelata dal suo amico più fidato, Andrìa, fratello di Nicola Bastìu, il quale, avendo assistito all’uccisione del fratello da parte di Bonaria Urrai, sfoga così tutta la sua rabbia. A pag. 108 i passaggi più significativi: “Le parole di Andrìa erano state folli … [omissis] e per Maria non avevano alcun senso; eppure accostate a determinati ricordi un senso cominciavano ad averlo”. “ Maria aveva smesso da tempo di interrogarsi sulle misteriose uscite notturne dell’anziana madre adottiva, ma ora quella dimenticanza le tornava addosso come un elastico di fionda, e bastava a insinuarle il dubbio che Bonaria Urrai avesse qualcosa di grave da nasconderle”.
Tzia Bonaria cerca di far comprendere a Maria che i momenti della nascita e della morte non ci trovano mai da soli. “Non c’è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada” (pag. 117) e Tzia Bonaria è l’ultima madre che alcuni hanno visto.
Ma per Maria non è sufficiente, per lei “ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno, e Maria la differenza la conosceva benissimo” (pag. 107).
Maria lascia la Sardegna e la madre adottiva con un addio burrascoso, doloroso e definitivo, ma la lontananza rappresenta per lei anche un periodo di crescita interiore e, quando la sorella la richiama al paese perché Bonaria Urrai è malata, Maria torna ad accudirla e ritrova, immutato, l’antico attaccamento per lei.
E dinanzi alle atroci e prolungate sofferenze di Tzia Bonaria, e alle sue richieste silenziose di aiuto “Maria non aveva bisogno nemmeno di un gesto per capire di cosa aveva bisogno” (pag. 151), per la prima volta mette in discussione le sue convinzioni e tentenna quando riconosce che anche lei potrebbe fare per la madre adottiva quello che quest’ultima aveva fatto per altri “… la ragazza cominciò a comprendere cosa intendeva Bonaria Urrai tre anni prima quando le aveva detto - Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo”.
La morte di Tzia Bonaria giunge liberatoria per entrambe proprio quando Maria sta per agire, sollevando l’una dalle sofferenze della malattia e l’altra dalle proprie colpe.
L’eutanasia appare come sempre esistita nella realtà ma occultata per ipocrisia, punita moralmente ma praticata nel segreto. Il dilemma morale e spirituale che ancora oggi divide, che opprime le coscienze, che impedisce di trattare l’argomento a livello legislativo, anche se a lungo dibattuto, è lo stesso che vive Maria alla fine, dinanzi alla morte della persona a lei più cara. Facile allontanarsi dal problema e giudicare, come fa Maria quando viene a conoscere le attività misteriose di Tzia Bonaria, più difficile è trovarsi a stretto contatto con le sofferenze delle persone amate e rimanere ferrei nei propri propositi.
Il ritratto delle due donne è magistrale, due personalità complesse, intense ed emotivamente forti che, anche grazie al mistero che le avvolge, appassionano il lettore fino all’ultima pagina.
Gli altri temi, più marginali, del romanzo sono le tradizioni paesane e le relazioni umane che condizionano la vita del paese, con le sue regole e i suoi divieti, fatte di gente che sparla e che conosce tutto di tutti: “Perché invece Tzia Bonaria Urrai si fosse presa in casa la figlia di un’altra a quell’età, davvero non lo capiva nessuno. I silenzi si allungavano come ombre quando la vecchia e la bambina passavano per le vie insieme, suscitando code di discorsi a mezza voce sugli scanni del vicinato.” (pag. 6). Persino la maestra, piemontese, non capisce questo legame e non si spiega perché Maria nei suoi disegni rappresenta sempre Bonaria come la sua mamma e non la vera madre. E, tuttavia, è Bonaria che manda a chiamare in qualità di genitore, per parlarle dell’andamento scolastico di Maria ma anche per capire meglio il rapporto che lega l’anziana donna e la bambina.
E poi ci sono gli aspetti scaramantici, anch’essi legati a certe tradizioni popolari. Ne è un esempio, nel quarto capitolo, il ritrovamento nella vigna dei Bastìu del cane quasi sepolto vivo sotto un muretto e nascosto in un sacchetto insieme ad alcuni strani elementi che, portati dinanzi a Bonaria, vengono da essa interpretati malevolmente, quasi fossero una iattura ai danni dei proprietari del campo. O ancora, nel sesto capitolo, l’episodio in cui Maria si intrufola di nascosto nella stanza da letto della madre naturale, il giorno del matrimonio della sorella maggiore, per spiare le ceste contenenti le trecce di pane beneaugurante che gli sposi devono appoggiarsi sulla testa durante la cerimonia. Maria viene sorpresa dalla propria madre e da quella dello sposo proprio nel momento in cui fa cadere una treccia di pane, che si sbriciola sul pavimento.
Facile mettere a confronto questo romanzo con altri sul tema delle tradizioni popolari e dei legami tra la gente del paese, ciarliera e pettegola. Le tradizioni dei piccoli paesi italiani, pur diverse tra loro, accomunano tutto il territorio nazionale da nord a sud. Basti pensare ai luoghi Manzoniani e alle storie e agli ambienti descritti da Andrea Vitali nei piccoli borghi sul Lago di Como, o ai romanzi di Simonetta Agnello Hornby, ambientati nella Sicilia di ieri e di oggi ma sempre profondamente segnata dalle tradizioni popolari.
Passano i tempi, cambiano le ambientazioni storiche ma le tradizioni restano intatte quasi ovunque e invadono tutti i campi della vita, facendo sì che i comportamenti umani si adeguino ad esse.
Inevitabile il paragone con “Canne al Vento” di Grazia Deledda, per le ambientazioni storico-geografiche, per la passionalità e l’energia espressa dai personaggi e per il tema della morte provocata, che anche per Efix rappresenta un gesto da amante della giustizia e della vita. Naturalmente le due storie sono molto diverse, partono da spunti differenti, ma hanno in comune tradizioni e umanità e l’elemento della “sorte”, che guida le azioni umane anche quando la razionalità porterebbe verso altre conclusioni.