Diritto e rovescio
L’Italia che vogliamo
di Patrizia Bilardello
L’Italia che vogliamo
Ieri si è conclusa, a Firenze, la kermesse di tre giorni, la Leopolda, appuntamento creato e voluto da Matteo Renzi, tre giorni di dibattiti, scambi di idee e proposte, su come affrontare i gravi problemi che affliggono l’Italia. È innegabile che gli occhi di tutti gli italiani sono rivolti a Matteo Renzi, alle sue proposte politiche, sociali ed economiche per cambiare rotta a questo nostro bellissimo paese che, per troppo tempo, è stato in mano a politici miopi ed incompetenti, nel migliore dei casi. Negli ultimi decenni l’Italia è stata, a poco a poco, ma con tenacia, distrutta, sia dal punto di vista industriale, economico, territoriale, che morale. I problemi che ci affliggono, in ogni campo, sono gravi e necessitano di interventi mirati e lungimiranti, che certamente , né la classe politica che li ha prodotti, né quella che ha peccato di omissione, può essere capace di affrontare.
Tra i tanti problemi da affrontare e a cui porre rimedio, il più grave, a mio avviso, è la mancanza di lavoro, a cui si va sempre di più affiancando, la mancanza di speranza in un futuro migliore. I nostri genitori, nonostante fossero cresciuti in un paese che era stato distrutto dalla guerra, sono riusciti a consegnarci un paese florido, ci hanno fatto crescere in un clima di benessere e di sicurezza sociale. Questo è stato reso possibile da una serie di interventi, sia statali che economici, che, senza bisogno di chiamare grandi economisti e premi Nobel di economia, ma solo utilizzando il buon senso comune, hanno consentito al paese di rialzarsi. Per es. le banche iniziarono ad elargire anche piccoli prestiti alle famiglie, anche per l’acquisto di un semplice ferro da stiro. È stato l’accesso al credito,che, in pochi anni, mise in moto l’industria. Questa è stata la chiave del “boom economico” degli anni ’60. E se non si interviene sul sistema bancario, non ci saranno incentivi, né fondi stanziati per le nuove assunzioni, che potranno dare frutto. Bisogna ritornare a valorizzare il lavoro, basta con stage gratis, dove le aziende usufruiscono del lavoro di giovani laureati a costo zero. Il lavoro va valorizzato e non, come è avvenuto fino ad ora, sminuito.
Il lavoro è un tema centrale nella ormai lunghissima ed esasperata crisi economica. I dati declinati al presente sono spaventosi e gli orizzonti sono anche peggiori: per Bankitalia la disoccupazione arriverà al 13% nel 2014.
Noi che paese offriamo ai nostri giovani?
Dice Renzi: “Noi non ci rassegniamo a dare per scontato che i figli vivranno peggio dei padri. La sfida, per noi, è riuscire a coinvolgere le forze più vitali nella costruzione di un nuovo modello competitivo che abbia lo stesso potenziale di inclusione sociale del precedente”.
Siamo tutti d’accordo con lui, su questo punto. Ma, vogliamo guardare un po’, per esempio, come hanno ridotto la ricerca e le nostre università?
Si sente spesso parlare degli scienziati italiani che fuggono all’estero, e vengono segnalati dai giornali i casi di questo o quel ricercatore. Spesso sono casi eclatanti, che fanno notizia per ragioni diverse. Si dice che sono tanti, ma non si sa quanti.
Alcuni docenti di Fisica, come il Preside della facoltà di Fisica di Trieste, hanno cercato di dare una risposta a questo quesito. Il risultato è sorprendente. «Abbiamo provato a fare un’analisi usando solo i nostri laureati in Fisica negli ultimi vent'anni, che dopo la laurea, o dopo il dottorato, hanno deciso di andare all’estero a fare ricerca - dicono -.
Ci hanno risposto in tanti (troppi...), una settantina, con posizioni che vanno da full professor fino a Ph.D. students».
«Anche se in difetto i numeri la dicono lunga sul fenomeno, specie se moltiplicato per i circa 30 corsi di laurea in fisica in Italia; significa che migliaia di fisici hanno abbandonato il paese negli ultimi 25 anni. Il costo per formare un fisico, dalle elementari al dottorato, oscilla tra i 300mila e i 400mila euro (dato riportato nel libro “I Nipoti di Galileo” di Pietro Greco edito da Baldini Castoldi Dalai) il che significa che l’università italiana ha regalato in 25 anni circa un miliardo di euro alle università e centri di ricerca stranieri».
In un mondo globalizzato, in cui talenti e intelligenze circolano liberamente, questo flusso in uscita di scienziati italiani sarebbe solo un segno positivo della qualità dell'Università italiana, se fosse compensato da un flusso in ingresso di talenti stranieri: purtroppo la situazione attuale è invece nettamente sbilanciata verso l'emigrazione».
«Nella tristezza della situazione italiana una cosa ci rincuora: i nostri ragazzi di Trieste coprono posizioni importanti in posti che vanno dall’Mit, a Caltech, Stanford, all’Università di Cambridge, al Cern di Ginevra, all’Università di Parigi, agli Istituiti Max Planck della Germania. Questo significa che sono bravi, ma anche che sono stati formati bene in questa università italiana cosi denigrata da tanti politici e giornalisti».
Non va meglio la situazione di un’altra prestigiosa Facoltà di Fisica, quella di Roma, quella dei “ragazzi di via Panisperna”, per intenderci.
Tra Roma e Parigi c’è una galleria che invece di sparare neutrini recapita Oltralpe i più brillanti fisici nostrani. Così, la “gaffe” del ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini sull’esistenza di un fantomatico tunnel che collegherebbe il Gran Sasso con Ginevra, diventa la metafora rappresentativa di una realtà nota a tutti i giovani studiosi del settore: se vuoi diventare un ricercatore di fisica devi volgere lo sguardo all’estero, percorrere il lungo “tunnel” che porta a Parigi. Un tunnel percorso da tanti, se è vero che da quelle parti si parla di “invasione italiana”.
Il perché è presto detto. “In Francia – spiega Francesco Zamponi, ricercatore in Meccanica statistica dei sistemi complessi presso il Cnrs, l’omologo francese del nostro Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) – per fare il mio lavoro non devi metterti in coda all’ordinario di turno e aspettare un concorso che potrà non arrivare prima di cinque o dieci anni, ma puoi giocartela ogni anno grazie ai bandi del principale ente statale deputato alla ricerca di base”.
Tempi certi, posti programmati, trasparenza e tempo indeterminato, questi gli ingredienti che rendono incomparabilmente più attrattivo rispetto al nostro il sistema di reclutamento transalpino. “Qui – continua Zamponi – il concorso Cnrs non solo si svolge con cadenza annuale, sempre nello stesso periodo, ma le università bandiscono un numero di posti che rimane costante, in modo che ogni studioso possa sapere in anticipo le disponibilità, cominciare a mettersi alla prova e rendersi conto prima possibile delle proprie possibilità di successo. In Italia, ammesso e non concesso che i concorsi si continuino a fare, accade l’esatto contrario: si accumulano per anni generazioni di studiosi per poi essere assunti tutti, o quasi, in una volta sola. Non c’è bisogno di uno scienziato per capire che si tratta di un reclutamento improvvisato, che mortifica invece di valorizzare”.
Zamponi, seppur appena 32enne, è stato testimone in prima persona dell’annus mirabilis della fisica italiana in Francia, il 2007, quando al concorso del Cnrs gli italiani ottennero, nelle classi di fisica, circa il 35 per cento dei posti banditi (il 71 nella sola classe di fisica teorica).
Ma, quello che amareggia , è la totale assenza di un flusso inverso.
Non si assiste a un normale processo di internazionalizzazione, in cui ognuno ha da guadagnare, ma a un esodo che impoverisce solo un parte: il nostro Paese. Tanto più che in genere sono proprio quelli più bravi a non aspettare il loro “turno”. “La verità è che appena un giovane respira l’aria pulita di un paese straniero decide di non tornare più indietro”. Lo stesso fenomeno avviene in Biologia, Matematica, Chimica, e quindi quel miliardo diventa ben di più.
Con l’abolizione della figura del ricercatore a tempo indeterminato, la riforma Gelmini ha cambiato radicalmente il modo in cui l’università recluta il personale docente. Oggi per i ricercatori precari esiste solo una strada per accedere alle posizioni di ruolo: vincere un concorso da ricercatore a tempo determinato (RTD) “di tipo b”. Si tratta di una posizione che dura tre anni, al termine dei quali l’ateneo, se possiede le risorse necessarie, valuta nuovamente il ricercatore ai fini della “promozione” a professore associato (sempre che nel frattempo il candidato abbia ottenuto l’abilitazione scientifica nazionale). I concorsi RTDb insomma svolgeranno un ruolo cruciale nella definizione degli organigrammi dell’accademia, e anche dalla trasparenza di queste procedure dipende il futuro dell’università e della ricerca italiana. Futuro che rischia di essere nero, ancora più di quanto i limiti al finanziamento già lasciano presagire.
Con i concorsi RTDb, infatti, le manipolazioni non si effettuano in sede di valutazione, ma più comodamente redigendo un bando di concorso che richieda al candidato dei requisiti talmente specifici, perché ritagliati sul profilo di un “predestinato”, da rendere impossibile la competizione. La norma implementa la raccomandazione della Commissione Europea che chiede il rispetto dei principi enunciati dalla Carta europea dei ricercatori. Gli atenei “dovrebbero istituire procedure di assunzione aperte, efficaci, trasparenti, favorevoli, paragonabili a livello internazionale” e gli annunci “dovrebbero contenere un’ampia descrizione delle conoscenze e delle competenze richieste, ma non dovrebbero richiedere competenze così specifiche da scoraggiare i potenziali candidati. La situazione è aggravata dal modo in cui sono formate le commissioni. Prima la loro composizione era definita dalla legge, che al commissario “interno” ne affiancava altri due sorteggiati in una lista di “esterni”. Ora la formazione delle commissioni è demandata ai regolamenti di ateneo, col risultato di una estrema diversificazione: si va dagli atenei virtuosi che scelgono il sorteggio integrale ad altri che blindano i posti in palio con delle commissioni integralmente “fatte in casa”.
Così, una riforma nata per “togliere potere ai baroni” (secondo gli annunci del ministro di allora, quello dei neutrini in gita nel tunnel), ha di fatto aumentato la discrezionalità e l’arbitrio baronale.
Ma è chiaro che il problema deve essere risolto alla radice, facendo rispettare l’obbligo per tutte le università di bandire concorsi aperti e trasparenti come prescrive la Carta europea dei ricercatori. E vista la recidività di tanti atenei, è il Ministero che deve prendere l’iniziativa. L’università italiana non ha futuro se non si ripristina la legalità nelle procedure di reclutamento. Renzi, recentemente, ha affrontato il problema della ricerca e delle università, affermando: ”Ma come sarebbe bello se riuscissimo a fare cinque hub della ricerca. Cinque realtà anziché avere tutte le università in mano ai baroni, tutte le università spezzettatine. Le sembra possibile che il primo ateneo che abbiamo in Italia nella classifica mondiale sia al centoottantatreesimo posto? Io vorrei che noi portassimo i primi cinque gruppi, poli di ricerca universitari nei vertici mondiali.”
La riforma del sistema universitario e della ricerca, in Italia è certamente necessaria, se si vuole competere con gli altri stati europei. La Germania, per es., sta discutendo di questo e ha già aumentato le risorse finanziarie alla ricerca e alle università, nonostante la crisi, per porsi in una posizione di egemonia perfino sulla Gran Bretagna. L’Italia riesce comunque, nonostante i tagli continui, a piazzare nel novero dei 500 atenei nelle posizioni più alte in media una ventina di sedi, e, tenendo conto che le università prese in considerazione nel mondo sono, tra le dieci e le diciassettemila, essere cinquecentesimi rende assai più simili a Harvard che a una università “media”.
I futuri governi devono capire che la ricerca crea innovazione e imprese che producono e che assumono. Questa è una delle strade maestre da percorrere quando si parla di lavoro.
È vero che non tutti i nostri ragazzi faranno i ricercatori, e che bisogna affrontare le problematiche legate ad altri settori che daranno lavoro, come quello del turismo o quello dell’agro-alimentare o della ristorazione, o dell’artigianato. Quello che è certo è che abbiamo bisogno di giovani competenti e di scuole che li sappiamo formare. Ma questa è un’altra storia, di cui parleremo successivamente.
Voglio chiudere questo articolo, raccontandovi una bella storia accadutami la scorsa estate:
Poco tempo fa mi trovavo a Trieste. Quella mattina faceva molto caldo ed io e mio marito stavamo aspettando un autobus che dall'università ci portasse in centro. Dopo pochi minuti, l'autobus arrivò e salimmo. Mentre io mi accingevo a sedermi, mio marito si era diretto verso il centro dell'autobus per vidimare i biglietti. Dietro di noi era salito un ragazzo di colore, giovane, con uno zainetto sulle spalle. Vedendo che a fianco a me c'era un sedile libero, educatamente mi chiede se poteva sedersi. Io cercavo con lo sguardo mio marito, ma gli risposi di sedersi pure. Quando, poco dopo, arrivò mio marito, lui fece per alzarsi, ma gli dissi di rimanere pure seduto. Aveva un sorriso luminoso e uno sguardo gentile. Così, gli chiesi "Di dove sei?". La sua risposta mi lasciò per un attimo senza parole... "Io sono di Palermo" rispose, con un sorriso. Poi mi raccontò che aveva studiato alla scuola alberghiera a Trieste ed ora lavorava in un famoso ristorante in Piazza Unità, ma che sarebbe andato presto a lavorare nelle grandi navi da crociera. Voleva ampliare la sua competenza. Guardavo ammirata questo ragazzo che, con una punta di compiacimento diceva di essere italiano, un italiano che amava il suo lavoro. Poco dopo, arrivammo alla fermata e lui scese. La sera, andando a passeggiare a Piazza Unità, lo vidi da lontano, con la sua livrea, che sorvegliava il ristorante all'aperto... attento e competente. A lui e ai tanti ragazzi che sognano una vita normale, bianchi, gialli, neri, di qualunque colore e nazionalità, dobbiamo dare le risposte adeguate. Sono loro il futuro di questa paese, che adulti ottusi e, nel migliore dei casi, incompetenti, hanno ridotto in macerie.
Sabina Spierlein: anche io sono stata un essere umano
di Immacolata Iavazzo
Se pronunciamo i nomi di Sigmund Freud, il padre della Psicoanalisi, e di Carl Gustav Jung, suo allievo, pensiamo subito alla base della psicologia e agli studi sulla psichiatria.
Ebbene tra questi due nomi se ne inserisce un terzo, quello di una donna, quello di Sabina Spierlein.
Sabina nasce a Rostov il 7 Novembre 1885, la morte prematura della sua sorellina, fece scatenare in lei una serie di comportamenti anomali. Iniziò la sua solitudine. Fu ricoverata presso l’ospedale psichiatrico di Burgholzli, a Zurigo, e fu paziente del giovane dottor Jung.
Lui prese molto a cuore il caso di Sabina e con lei, oltre ad applicare gli insegnamenti del suo maestro Freud, iniziò un lavoro più analitico sui ‘luoghi dell’anima’.
L’incontro con Sabina fu molto di più rispetto a quello tra paziente e dottore, si instaurò un legame profondo, ‘d’amore’ per alcuni , che porterà lei a guarire e a percorrere la strada della medicina, si laureerà nel 1911 specializzandosi proprio in Psichiatria, mentre lui a distaccarsi dagli insegnamenti di Freud per dedicarsi ai suoi studi.
Sabina divenne membro della Società di Psicoanalisi di Vienna, ma fu lo stesso Freud a dividere i due amanti ritenendo che il rapporto non giovava alla pubblicità della scuola e della materia che in quegli anni iniziava la sua diffusione. Sabina più volte chiese di incontrare Freud per discutere della situazione ma lui la liquidò con una semplice epistola, dimostrando di non avere ancora elementi validi per affrontare il ‘controtransfert’.
Sabina accolse l’imposizione di Freud di allontanarsi da Jung e dopo un anno sposò un suo collega medico dal quale ebbe due figlie.
Nel 1923 ritornò in Russia e insieme a Vera Schimdt fondò l’Asilo Bianco a Mosca, dove metteva in pratica le sue teorie. Difatti i bambini e le bambine venivano educati in maniera libera di poter esprimere le loro doti. Si dice che tra gli iscritti vi fosse anche il figlio di Stalin, sotto falso nome. In una sua lettera per Jung si legge: ‘Pare sia la prima volta che una psicoanalista viene messa a dirigere un asilo infantile. Ciò che vorrei dimostrare è che se si insegna la libertà ad un bambino fin dall'inizio, forse diventerà un uomo veramente libero...ci metterò tutta la mia passione’.
L’Asilo fu però chiuso tre anni dopo dalle autorità sovietiche.
Per molti anni la figura di Sabina Spierlein è rimasta nell’ombra, maggiore rilievo ha avuto dopo la pubblicazione della raccolta di lettere intercorse tra lei e Jung, pubblicate nel libro di Aldo Carotenuto, Diario di una simmetria.
Fu grazie a Sabina che il medico iniziò un nuovo percorso elaborando le teorie di Archetipo e Inconscio Collettivo. È proprio questa eredità spirituale che fa riconoscere in Sabina l’importanza della sua presenza e dei suoi studi.
Lei si soffermò, invece, sul concetto di pulsione di morte, ritenendo ‘pericoloso prestare troppa attenzione al complesso sessuale’.
Tracciare tutti gli aspetti della vita di questa donna sarebbe stato impossibile, anche perché la stessa letteratura ha preferito farne un caso ‘sentimentale, romantico’ più che affrontare seriamente le sue scoperte scientifiche, anche nelle università si studia approssimativamente l’importanza delle sue teorie. Sicuramente tra i due pilastri Freud e Jung, Sabina occupò un posto fondamentale, fece mettere in discussione i rapporti tra il maestro e l’allievo, e permise a Jung di aprirsi una strada sua. Riuscire ad ottenere un ruolo di rilievo in quegli anni non fu affatto semplice per la donna.
Soffermandoci sull’aspetto umano sicuramente Sabina è stata una donna sensibile, intelligente, tormentata dal dolore della malattia mentale ma con un’incredibile forza che non solo la portò a guarire totalmente dalla schizofrenia ma ad essere lei stessa una guida per gli altri. Appassionata in tutto quello che faceva affrontò la morte, le usurpazioni e l’allontanamento dal suo grande amore.
Sabina, ebrea, fu uccisa nel 1942 a Rostov dai soldati nazisti insieme alle sue due figlie.
Il suo testamento spirituale chiude il film romanzato Prendimi l’anima, di Roberto Faenza:
«Quando morirò voglio che il Dottor Jung abbia la mia testa, solo lui potrà aprirla e sezionarla. Voglio che il mio corpo sia cremato e che le ceneri siano sparse sotto una quercia, su cui sia scritto: anche io sono stata un essere umano».
L'insostenibile assenza dell'essere
di Francesca Pacini
Riflettevo, questi giorni, su come la nostra vita sia ormai disperatamente ”mediata”, filtrata: è tutto un medium, un mezzo che ci avvicina ma che paradossalmente ci separa dalla realtà: televisioni, telefonini, radioline varie, I mac pod I pad I am? I am. Ne siamo sicuri? Nella ressa scribacchina e condivisoria di facebook, non siamo più certi di esistere se non siamo in Rete: se stiamo vivendo qualcosa, pensiamo subito: “devo metterlo su facebook!” e quindi filmiamo, fotografiamo, postiamo…L’idea di catturare la realtà dell’esperienza che stiamo vivendo alla fine ci distoglie dall’esperienza stessa. Terzani diceva che alcuni popoli tribali detestano essere fotografati perchè dicono che “la fotografia ruba l’anima”. E oggi è tutto un fotografare tutto, dai piedi alle salsicce cucinate per cena al cartello visto per strada fino al neo che abbiamo sulla pelle. Tutto diventa una sorta turismo collettivo, quasi come fossimo replicanti dei giapponesi con la loro eterna passione per lo scatto imbecille, quello che non serve a nulla. E penso al poeta turco Hikmet, che diceva, in una poesia, a suo figlio Mehmet: “Non vivere su questa terra come fossi un turista”. E poi si condivide, certo, e si contano i “mi piace” e i commenti e allora se ci sono, ecco, ecco, esistiamo, quasi come se ciò avvalorasse l’esperienza, come se servisse la certificazione di un facebook o di un twitter per confermare la vita. E mi chiedo, mi chiedo sul serio: stiamo davvero amplificando le nostre esperienze o le stiamo perdendo? Il presente, quel meraviglioso “attimo fuggente” che non si ripeterà mai più, unico e irripetibile, vuole un contatto profondo, totalizzante, non vuole essere registrato, filmato, fotografato, schiaffato su youtube. Specie se questo comporta il mediare, appunto, il contatto tra noi e lui, servendoci selvaggiamente di mezzi e tecnologie. Recentemente ero a Notre Dame, ed ero capitata lì nell’orario della funzione serale: non c’era bisogno di appartenere a nessuna religione specifica per sentire la magia di quelle architetture verticali in cui rimbalzava, con magici echi, la voce scortata dall’organo, che si diffondeva fra gli archi che univano la terra al cielo. E tutti i turisti, invece, a preoccuparsi solo di riprendere tutto con i telefonini, di invadere con i flash (peraltro vietati) trasformando il momento in un Circo tecnologico, un “pigia pigia” “scatta scatta” frenetico . Ma cosa sarebbe rimasto al di là della memoria catturata? Catturata, appunto. Imprigionata in una rete di flash e di videocamere.
La smania di usare le tecnologie per confermare noi stessi al mondo rischia di renderci orfani di quello stesso mondo che pensiamo di “penetrare”.
Così, viviamo distraendoci continuamente perché ogni cosa diventa un mezzo per mostrare a noi stessi e agli altri che ci siamo davvero. E no, invece non ci siamo. Non ci siamo per niente. I “momenti di essere” non sono, e non saranno mai, fotografati. Saranno semplicemente vissuti e resteranno nel cuore. Lì, in quel posto, non c’è nessun “Mi piace”, “Non mi piace”. Semplicemente, è.
Ipazia, l'intellettuale di ieri e di oggi
di Fiammetta Mariani
Ipazia, l'intellettuale di ieri e di oggi
Era una sera di fine aprile 2010 quando venni a conoscenza, per la prima volta, dell'esistenza di Ipazia. Ero all'uscita di un cinema di periferia a Roma, quella sera, ed avevo gli occhi lucidi. La scena in cui, in Agorà, i cristiani distruggono la piccola biblioteca del Serapeo d'Alessandria, mi aveva spezzato il cuore. Ma a riempirmelo ci pensò Ipazia, interpretata nel film da un'incantevole Rachel Weisz. La prima domanda che mi posi il giorno seguente fu: "Chi era davvero Ipazia d'Alessandria, la filosofa e scienziata della tardoantichità? E fu soltanto questo?". Non saperlo mi divorava. Da quel preciso istante nasce la mia curiositas per Ipazia e tutto il suo mondo; a più di un anno di distanza (dopo mesi di letture, studi e visioni di dibattiti) ho trovato la vera Ipazia: la donna e l'intellettuale neoplatonica, la sacerdotessa e filosofa che con la sua morte ha inaugurato l'inzio dell'età bizantina. Ipazia nasce presumibilmente attorno al 370 d.C. in un periodo storico difficilissimo per Alessandria. Da secoli città simbolo della cultura dell'Impero Romano, facente capo sia all'antica paideia, ovvero alla tradizione ellenica, quanto all'ermetismo egizio la cui pratica di assorbimento nel pensiero dominante era ritenuta mansuetudine durante la conquista dei Romani. Sede della Grande Biblioteca, la città di Alessandria godeva di una reputazione altissima fra le province dell'Impero per essere uno dei maggiori centri di studio. Alessandria possedeva una sorta di moderna Università che prendeva il nome di Muzeum, nella quale Ipazia era titolare di una cattedra (probabilmente stipendiata dallo Stato) e dove si insegnavano le quattro discipline del quadrivium platonico. La sua fama si radicò ben presto in tutte le provice arrivando sino a Costantinopoli e forse anche a Roma; scienziati di mezzo mondo e di ogni appartenenza religiosa, accorrevano per assistere e partecipare alle sue lezioni.
Ma il profilo di Ipazia non concerne solo il suo ruolo di magister; come scrive Suida (il lessico bizantico del X secolo), qui nelle parole di Esichio, ella era «eloquente e dialettica (dialektike) nel parlare, ponderata e piena di senso civico (politike) nell'agire, così che tutta la città aveva per lei un'autentica venerazione e le rendeva omaggio». Non era certo ciò che noi oggi comunemente defineremo una santa, né un simbolo - come poi è divenuta nei secoli - anzi tutt'altro. Apparteneva piuttosto all'antica schiera dei Saggi, coloro che per le proprie conoscenze in svariati campi del sapere e per l'autorità raggiunta fra la schiera dei politici, venivano interpellati dai rappresentanti delle istituzioni pubbliche e dai quali spesso dipendevano le sorti della gestione delle città. Nonostante le origini aristocratiche e l'aristocratico modo di intendere la polis e i suoi luoghi - in primis l'agorâ - alcune fonti parlano di lei come la donna che usava spiegare pubblicamente Platone, Aristotele o altri filosofi antichi a chiunque lo volesse senza distinzione di ceto; in realtà (sottolinea Silvia Ronchey), la parola "pubblicamente" o "per la pubblica via" è da intendersi non come l'abitudine di filosofare per le strade della città (sempre più minacciose ai quei tempi), ma come la tendenza a praticare un certo esoterismo. Si presume usasse richiamare in casa un numero cospicuo di allievi, forse i più bravi, o anche soltanto persone che non seguivano abitualemente le sue lezioni al Muzeum, rivolgendo a loro i suoi insegnamenti più mistici e probabilmente ritualistici. A chi si chiede come sia possibile che la Ipazia citata spesso come l'astronoma, la matematica o più in generale la scienziata, possa essersi occupata di simili cose, suggerisco la risposta. Sappiamo, ed è appurato, che Ipazia aderisse al neoplatonismo, alla frangia neopitagorica erede di un'atichissima tradizione astrale, astrologica e numerica: entrambe scuole di pensiero, ma soprattuto pratiche di vita nelle quali era impossibile distinguere gli interessi scientifici da quelli mistici. La concezione della conoscenza fin tutto il medioevo, faticava a discernere fra razionale e irrazionale, fra fede e ragione diremmo noi oggi volendo semplificare. Tutte le cose del mondo e del cielo, venivano approcciate con gli strumenti di una scienza polivalente che, seppur depurata dalle credenze del vulgo e dalla dogmatica, manteneva un rapporto intrinseco con il trascendentale. Era questa la richezza di Ipazia e il fascino da lei esercitato, di cui tutte le fonti ci parlano: la sua bellezza non era così strettamente connatura ai suoi tratti fisici (come una copiosa eredità letteraria ha voluto farci credere) bensì al suo essere sacerdotessa, scienziata e politica allo stesso tempo. La sfortuna di Ipazia sta nella sua sorte; nell'essere stata al centro di una bega di potere, fra il vescovo cristiano Cirillo e il prefetto augustale Oreste - massima carica imperiale in Alessandria. Il suo brutale assassinio, compiuto nell'anno 412 d.C. per mano dei parabalani (milizia armata del vescovo stesso), è frutto dell'invidia di un uomo pubblico, come era Cirillo, nei riguardi della donna di potere e della sacerdotessa più famosa dell'Impero, alla quale forse volette strappare il primato di maggiore interlocutrice del prefetto. Ciò che più ci rammarica oggi, non è tanto sapere quanto e come si rese complice e colpevole Cirillo dell'eccidio, ma il fatto che di lei non ci rimanga alcun testo scritto da cui partire per verficare il pantheon di dubbi in cui fluttua la memoria del suo ricordo e su cui molti studiosi continuano ad interpellarsi.
Lasciandoci alle spalle e sorvolando la copiosa serie di problematiche inerenti il suo vissuto, i suoi presunti scritti, i suoi insegnamenti, il rapporto con i suoi discepoli, Ipazia oggi può rappresentare molto per le donne. Comprendendo realmente quale fu il suo vero ruolo nella società a lei contemporanea, dopo averla svestita di tutti quei vessilli e quegli stereotipi che una certa letteratura le ha cucito addosso, dovremmo chiederci se vi siano oggi donne intellettuali, capaci e possibilitate a ritagliarsi il posto che ella si ritagliò fra i suoi pari. Se esista, allo stesso tempo, una società che si occupi delle donne, della loro storia, del loro pensiero, dei loro contributi alla scienza che dia voce alle loro voci. Sento che questo non è ancora possibile oggi, e sento forte l'esigenza di conoscere quale sia la strada che il genere femminile vuole percorrere, come interpreti e decostruisca il proprio immaginario o intrattenga rapporti con l'altro sesso. Tutto ciò rende Ipazia personaggio d'attualità da porre all'interno di un dibattito intellettuale ampio: partendo dalla concezione che sta assumendo in questo secolo, l'apparire femmina o femminile piuttosto che l'essere donna o il provare a pensarsi tale. A fronte della permanente alienazione dell'essere a favore dell'apparire (it doesn't appear, doesn't exist) il concetto di donna viene equiparato e ridotto a quello di femmina o, nel caso opposto, a quello di iena. Alla perpetua ricerca della femminilità, vittima di una dittatura simbolico-rappresentativa a cui doversi costantemente rifare, si presuppone che le donne spendano la propria vita per raggiungere un modello iconografico impossibile da emulare. Molto più che all'uomo, alla donna viene chiesto di assoggettarsi a vivere la femminilità - massima espressione della propria essenza - attraverso canoni ben precisi. A partire dagli standard proposti dalla pubblicità, passando per il modello unico di corpo femminile propugnato dalla televisione, il circo mediatico si fa promotore di uno stereotipo a senso unico, al quale sembra dover rispondere la vera donna. Ipazia era assolutamente distante dal pensarsi schiava di modelli di costume ai quali rispondere per essere socialmente riconosciuta o, peggio ancora, riconoscibile a se stessa. Lei era semplicemente libera, vera, in virtù della sua intelligenza e del suo sapere, messi a guida della propria coscienza. La sua popolarità era direttamente proporzionale al suo impegno nello studio e alla forza delle sue argomentazioni, che per molti restavano inconfutabili. L'evidenza del fatto che fosse l'unica donna a tenere lezioni, fra un copioso numero di uomini, non la imbarazzava affatto, né la rendeva meno autorevole. Chi meglio di lei, può rappresentare un modello altro per le donne di oggi; altro da ciò cui ci impongono d'assomigliare.
Ischia, un caos postale
di Simona Trani
Un osservatorio irriverente per stimolare sane riflessioni sulle insane cose che ci circondano. L'ironia e la vis polemica ci aiutano, sempre, a superare la lobotomizzazione della coscienza, praticata oggi in dose massiccia.
Ischia, un caos postale. Da un caso locale, una riflessione globale.
Che le poste isolane non funzionassero a dovere è oramai una realtà nota da fin troppi anni e a cui la popolazione del luogo ahimè si è assuefatta: importanti corrispondenze che non arrivano o arrivano quando è troppo tardi, con varie conseguenze annesse; posta che fin troppo sovente viene consegnata al destinatario sbagliato da postini che cambiano di continuo e che si contraddistinguono per essere confusionari e distratti, persone che svolgono il loro lavoro con la più totale assenza di serietà. Se fai mille volte sempre lo stesso errore di consegna, quando poi per giunta le indicazioni sono più che chiare, inconfondibili, è ovvio che sei uno che non conosce cosa sia un comportamento professionale.
In data 5 settembre 2011, le nostre care poste hanno riservato ai loro utenti un’altra gradevole sorpresa, anche se questa volta si è trattato di un problema che sarebbe potuto insorgere, ed è verosimilmente sopraggiunto, in qualunque altro ufficio postale italiano. Un amico si è recato alle poste per inviare tramite raccomandata una domanda di dottorato che scadeva esattamente quel giorno.
Le tecnologie dovrebbero servire a facilitare tutte le nostre attività quotidiane. In questo caso, non è proprio andata così. I terminal dell’ufficio, causa guasto alla centrale di Milano, erano bloccati. Le raccomandate, che una volta si potevano preparare e spedire a mano, attualmente passano in maniera esclusiva attraverso la via telematica. Insomma, o computer e network ben funzionanti o stallo delle attività e dei servizi. Il mio amico ha dovuto rinunciare alla domanda.
Una situazione del genere ci pone, ancora una volta, di fronte alla domanda: è efficiente, è conveniente, è intelligente rinunciare in toto alle vecchie procedure, manuali e cartacee, e sostituirle completamente con le “nuove tecnologie”? Evidentemente no, definitivamente non sempre.
L’esempio delle poste ischitane, in cui lo smistamento e la consegna della corrispondenza, entrambe manuali, hanno raggiunto livelli di inefficienza terrificanti, potrebbe essere certo un forte elemento a favore della computerizzazione. D’altra parte, il caso del mio amico che a causa di problemi ai terminal ha visto sfumare una probabile possibilità lavorativa, poiché ormai una semplice raccomandata non può più essere preparata manualmente, ci porterebbe eventualmente verso l’ipotesi opposta.
Ma come in ogni cosa, la virtù essendo nel mezzo, l’idea migliore sarebbe una convivenza delle due diverse modalità in quante più situazioni di vita possibili, al fine di avere sempre una soluzione alternativa a portata di mano qualora se ne presenti la necessità o qualora una determinata fattispecie suggerisca un’opzione anziché l’altra.
Chiudo con questa riflessione: non è interessante vedere come la convivenza di ciò che è differente, lungi dall’essere cosa nociva o dannosa, sembri costituire una parola d’ordine così importante e utile all’equilibrio e al buon funzionamento di ogni aspetto delle nostre esistenze, dal microscopico al macroscopico?
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