Topi


fabioAccadeva da qualche settimana: ricevevo i miei topi e ascoltavo quello che avevano da dirmi. Ho ricevuto i loro consigli, le loro indicazioni. Mi sembrava, all’inizio, una ricompensa data a me per averli accolti nella mia casa, dopo che avevo fatto di tutto per catturarli o per eliminarli. Mi offrirono la loro pace e io l’accettai, solo come ero, in virtù di quella vita nuova, che non mi consentiva certo di scegliere i miei interlocutori, e tanto meno di perder tempo a scacciare gli animali molesti. Ero veramente infastidito dalla loro presenza, mi sembrava una forma di punizione eccessiva per lo stato di solitudine in cui ero piombato. Miriadi di roditori zampettanti si presentavano ogni santa notte in cui cercavo di concentrare le mie forze per rimanere vivo: percorrevano le travi del tetto, si affacciavano nello studio dove cercavo di scrivere chissà che cosa, molti di loro sicuramente si divertivano nel solaio. Li sentivo correre e rincorrersi a lungo, forse per tutta la notte, o forse per tutto il tempo che la mia notte andava avanti, bloccata in un’immagine fissa, come un racconto pietrificato da un incantesimo malefico.

Potevo raccontare, una volta in strada, di aver visto una coda bianca sfuggire alla mia vista per pochi secondi, infilata in un pertugio del sottotetto. Ma difficilmente mi avrebbero creduto, e comunque non avrebbero condiviso nulla di quella sensazione. Avrebbero, i conoscenti con cui talvolta mi fermavo brevemente a ragionare, preso il racconto come fosse un motto di spirito. E l’effetto sarebbe stato quello di colorire l’immagine del mio carattere presso l’esterno, e non certamente quello di rendere viva l’impressione di quella grande coda bianca di topo che si insinua tra i legni del tetto. Scacciavo i roditori come fossero anime estranee, corpi pelosi e ripugnanti nel loro muoversi furtivi tra le travi del tetto di quella casa vuota. Escogitavo trappole, mi appellavo a tutti i rimedi conosciuti pur di allontanarli per sempre dalla mia dimora.

La loro assenza non era mai definitiva: quando non li vedevo, li sentivo comunque cavalcare come piccoli destrieri dalle zampette gommose il solaio della camera da letto, e mi dicevano che erano lì, comunque, che mi avrebbero accompagnato ancora in quella lunga notte che non si decideva a terminare, che non finiva più.

La mattina, nel silenzio totale, preparavo nuove aggressioni a quella colonia che calcolavo essere di una decina di animaletti fastidiosi e marroni, tranne il bianco che avevo visto quella sera insinuarsi nel sottotetto.

Quello stesso topo, che qualche sera dopo avevo visto in faccia. Avevo sentito rumori nel soppalco, mi ero precipitato, disarmato. C’era lui, il topo bianco che mi guardava con le sue guance paffute e pelose. Sembrava fosse in piedi. Siamo rimasti qualche secondo uno di fronte all’altro. Poi ho girato lo sguardo per vedere se avessi qualche bastone o qualcos’altro per colpirlo. Non c’era niente e, rivolto lo sguardo di nuovo di fronte a me, non c’era più nessuno. Il topo era scomparso. Nel silenzio della notte.

Finché, dopo un po’ di tempo di calma (per qualche giorno i topi non si erano visti, né sentiti) una notte mi precipitai a scrivere uno dei miei delirî che mi accompagnavano durante quelle notti fantastiche. Ero seduto alla scrivania. Guardai in basso, più o meno nel posto dove avevo avuto l’incontro ravvicinato col topo bianco: erano in tre. Il bianco era al centro, più avanti degli altri due che gli stavano ai lati. Erano un po’ più piccoli di lui, grigiastri, uno di loro sembrava portasse gli occhiali. (Ma non posso confermare questo particolare, tale fu allora il mio stupore).

Il bianco iniziò a parlare, lentamente.

Mi raccontò la breve vita della sua colonia, quasi a scusarsi del trambusto, mi disse che non dovevo prendermela così, che non dovevo chiudermi in casa a pensare a tutto il mio passato. Era un racconto lieve, che aveva però qualcosa di sinistro. C’era qualcosa che mi infastidiva nelle parole dette dal topo, o meglio, nelle parole che credevo fossero pronunciate da quel roditore: qualcosa di angosciante proveniva dall’incedere lento dei suoi ragionamenti. Avvertivo di non essere più attento al significato del discorso, ma di essere come ipnotizzato dal suono della sua voce che pareva un lamento lontano, una cantilena, una canzone che mi risuonava dentro. Mentre declamava le sue vicissitudini e la storia della sua colonia, i due topi più piccoli lo ascoltavano ad occhi chiusi. A volte mi sembrava di addormentarmi in quella specie di racconto circolare che si annodava su se stesso. In quella sorta di torpore, capitava che pensassi a qualche luogo del mondo fuori, dove magari ero stato di recente. Una fontana, una piazza, una strada, un giardino pubblico. E allora i topi non c’erano più, forse avevano concluso la loro esibizione sempre uguale a se stessa. Sentivo il bisogno di uscire, di camminare nella notte fonda, nella città vuota, a passo svelto.

Di solito andavo sempre nella stessa direzione.

Una notte in cui cercavo di dormire, mi si presentarono nella stanza da letto: la spirale dei racconti del topo era più vorticosa e fastidiosa del solito. Accadde la stessa cosa delle altre volte nelle quali i tre roditori mi sottoponevano la loro bizzarra liturgia piena di suoni e di voci incomprensibili. Uscito da quel torpore, ancora una volta ebbi l’istinto di uscire: presi il lungo rettilineo alberato che portava alla stazione. Davanti a me una visione tetra con quegli alberi neri e quel cielo fumoso e buio. Correvo, quasi. Affannato, senza incontrare nessuno. Dopo cosa accadde? Ricordo che vagai così a lungo che stava facendosi giorno. I suoni del lavoro, le spazzatrici stradali, il tintinnio delle tazzine da caffè nei bar, mi arrivavano come da un altrove, al di fuori di me. Era qualcosa di simile al torpore del racconto del topo, un’eco ripetitiva e funesta. Mi ritrovai sdraiato in una stanza bianca con un medico vestito di bianco che mi stava visitando: probabilmente ero svenuto.

Quel medico mi riaccompagnò a casa con l’automobile, mi sembrava di stare bene. Durante il viaggio il dottore mi fece qualche domanda, quindi si raccomandò di tornare quanto prima in ambulatorio. Mi diede un foglietto scritto, delle medicine. Io uscii dall’auto, salutai. Lui riaccese il motore e se ne andò.

Salii le scale di casa, tirai fuori le chiavi. Una volta entrato e chiusa la porta dietro di me, pensai che non sapevo cosa fare. Ero di nuovo nella casa dei topi, solo. Mi stesi sul letto, che era ancora disfatto dalla notte prima e guardai verso la finestra: stava facendo di nuovo buio. Ancora quel silenzio, ero di nuovo lì: teso ad ascoltare se ci fossero rumori nel sottotetto. La certezza che quegli animali sarebbero tornati mi terrorizzava.

Fabio Marricchi -

Sono un giornalista, un cronista di provincia, da oltre vent’anni. Questo desideravo da piccolo e questo è accaduto. Solo che non avevo considerato una cosa fondamentale: nella maggioranza dei casi ti pagano pochissimo o, se possono, non ti pagano proprio. E quindi per vivere faccio comunicazione per un ente pubblico. Una cosa noiosissima e soprattutto, inutile. Nella mia vita sono stato anche rappresentante di libri, professore di una scuola superiore, pizzettaio, costruttore di acquari, tagliatore di mattoni, scaricatore, rappresentante di mattoni, "mistery shopper", ho fatto la vendemmia, raccolto le olive, distribuito volantini. Ho scritto per una dozzina di giornali, ho intervistato pornostar, scritto articoli su cani e gatti. Sono anche stato direttore responsabile di una rivista d'arte. Sono sposato, ho quattro figli: un maschio e tre femmine. Ho anche due cani, femmine, e due pesci, forse maschi. Ho due lauree e un diploma preso al Vaticano che è scritto in latino.  Vivo in campagna, vicino Roma, dove sono nato. Ma sono di origine umbra. Quella credo sia la mia terra. Scrivo per piacere, un po' di tutto.

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