Raccontami di
Viviamo in un miracolo e non ce ne accorgiamo
di Simona Trani
Viviamo in un miracolo e non ce ne accorgiamo
Ieri ho vissuto un giorno in paradiso.
In verità, sono tutti i giorni in paradiso, e lo guardo e lo vivo ora da una prospettiva, ora da un’altra, ma sempre paradisiaco è ciò che mi circonda e mi abbaglia.
Ieri ho guardato il mio piccolo paradiso da lontano, dal mare aperto. L’ho guardato mentre mi allontanavo dal porto e lui si mostrava piano piano in tutta la sua figura. A un certo punto, giunta a una buona distanza dalla costa, i miei occhi hanno potuto accarezzare un corpo che iniziava con un membro piccolissimo e dolce, quello che da vicino è il maestoso Castello Aragonese, e poi andava altrettanto dolcemente in crescendo, toccando Campagnano e arrivando alle cime rocciose del mio amato Monte Epomeo, che tutto sovrasta e accoglie, abbracciando chi arriva dal mare e chi abita la sua terra col suo verde manto brillante. Partendo dal volto di Tifeo, il Titano addormentato proprio nelle acque dove Ischia giace, le forme di quel corpo andavano nuovamente digradando, fino alla collina di San Montano, che vista dal mare sembra incredibilmente più piatta, per poi concludersi in un nuovo, piccolo crescendo, lì a Punta Imperatore.
Una lunga linea, una morbida onda che, all’inizio molto piatta, nasce da Monte di Procida, ancora lunga su Procida, inizia a alzarsi con la verdeggiante riserva di Vivara, tocca le poderose rocce di Capri e poi esplode e s’innalza con Ischia, trovando in essa il suo climax, fino a riunirsi col mare e col sole di un orizzonte immenso e blu.
Il sole… Un sole color oro che rifletteva la sua luce sul mare e sulla miriade di pesci che saltavano da ogni lato. Eh già, perché ieri questa è stata la magia delle magie: stare lì, su una barca tra altre, tante barche di pescatori, in mezzo al mare aperto, e godere di uno spettacolo che non avevo mai ancora né visto né nemmeno mai immaginato: una danza, gioiosa, grandiosa, di centinaia di pesci, piccoli e grandi, che tutt’intorno spuntavano fuori dall’acqua, o meglio saltavano, e che salti, che giravolte, che colori riflessi nel sole di un pomeriggio di metà settembre! Il mare è vivo, immensamente vivo! E in quel momento immagino e penso: ” Quello che vedo in superficie, questi salti, questi guizzi, non sono che l’iceberg di un movimento, un’energia, una danza, che ha inizio molto più nel profondo… Come mi piacerebbe poter vedere tutto ciò da dove esso comincia!”.
Ahimé, non avevo con me la macchina fotografica, è in riparazione, né un taccuino dove scrivere i miei pensieri così come mi sono usciti a caldo, in quel momento. Quello che scrivo ora, non è quello che avrei scritto ieri, quando ancora stavo vivendo quel sogno ad occhi aperti.
Ricordo che ho pensato a Paola e alla danza e a un amico che avrebbe pagato oro per vedere anche lui quello che i miei occhi stavano vivendo. E per la prima volta mi sono resa conto di quale piacere deve essere per un pescatore trovarsi in compagnia di uno spettacolo di colori, suoni, luci e movimento, come quello di cui sono stata spettatrice.
Io, spettatrice di uno show dalla scenografia impareggiabile, irripetibile, con un direttore delle luci dall’innato e indiscusso talento, un coreografo e dei ballerini d’eccezione… e perfino le comparse erano da Oscar!
E la mia giornata non aveva intenzione di terminare lì. Eh, no. Dopo tre ore in barca, corro al porto, prendo un aliscafo e m’imbarco per il Lungomare Liberato (Lungomare Caracciolo), intenzionata a non perdermi per nulla al mondo l’ultima serata di una magica iniziativa: ballare sulle note del tango lungo il lungomare della città più bella del mondo, Napoli. E che ve lo dico a fare…? No, ve lo dico, ve lo voglio proprio dire: ieri la costa partenopea, Posillipo, era più preziosa di qualsiasi altra volta di cui io mi rammenti, un gioiello fatto di mille gioielli sfavillanti, d’oro caldo, colori e intensità che colpivano dritti nel profondo del cuore.
Incontro un amico, gli racconto della mia magica giornata, faccio un apprezzamento sulla meraviglia di questo nostro lungomare liberato dal traffico e donato alla vita, alla gioia, alla danza, e lui dice: “Eh sì, viviamo in un miracolo ogni giorno e non ce ne accorgiamo. Napoli, Ischia, questi sono i nostri miracoli!”.
Arrivo al porto per far ritorno sul mio miracolo circondato dal mare e… sciopero dei traghetti.
Beh, niente è perfetto sulla terra, nemmeno i miracoli, ma sempre miracoli magnifici restano e io vivo in essi immersa.
Mai fermarsi all'apparenza
di Giovanna Vannini
Mai fermarsi all’apparenza…
“Mmmm, non sono più la “pulisciona” di una volta, come avrebbe detto la zia Nella! Guarda lassù? Tra trave e trave, quante ragnatele!!!...”
“Rebecchina, abbi pazienza! Son qui tutto preso a sbaciucchiarti, a fare la piovra e te?... Te guardi le ragnatele…Via, su... e tu mi fa passare la voglia !!!”
“Oh Rolando e se le ’ho viste, l’ho viste! Oh cosa dovevo fare? Stare zitta?...”
“Tu mi fai perdere tutta la poesia…Torno a leggere il giornale che è meglio!”
Inforcò di nuovo gli occhiali e si ributtò sul divano.
Rebecca, che non poteva resistere un attimo di più alla vista di quelle ragnatele stantie, prese l’insostituibile “folletto”: agganciò prima il tubo flessibile, poi quello rigido, concludendo l’operazione con l’attacco della “giraffa”, attrezzo ad uopo per recuperare polvere e quant’altro negli angoli pertugi.
Tutto questo in un mezzogiorno d’agosto, con la casa in penombra, il pranzo a metà cottura e la figlia in vacanza.
“A tavola è pronto.”- disse Rebecca, mentre porzionava dalla zuppiera fusilli integrali con tonno, pomodoro fresco e basilico.
Silenzio.
Rolando bevve il suo caffè tiepido in piedi, davanti alla porta finestra aperta che dava sulla piccola resede. Appoggiò poi la tazzina sul tavolino di marmo del salotto, risprofondò sul divano e nelle pagine del suo “Rally Emotion”, fino all’inizio del notiziario regionale.
Dal tinello adiacente rumore di rigovernatura e faccende domestiche del dopo pranzo, che come un rito Rebecca portava ogni giorno a compimento.
Andava in tramonto il sole quando riaccesero entrambi i cellulari. Sei le chiamate a testa, tutte della figlia Cristina, mentre il fisso continuava a rimanere staccato.
Attraverso le stecche delle persiane chiuse, filtrava un aranciato riverbero; striatura di luce sul bianco delle lenzuola, riflessante naturale tra i capelli arruffati, tiepida carezza sulla pelle sudata ancora in odor d’amore.
Mai fermarsi all’apparenza…
Dina
di Letizia Dimartino
Dina è una donna minuta come il suo nome.
La sua piccola statura non le ha mai procurato problemi : sconosce gli oggetti visti dall'alto,
le manca un'altra visione della realtà, solamente questo.
Ha sul comodino laccato di bianco una vecchia sveglia d'argento annerito e uno specchio
rotondo su cui guardarsi tutte le volte in cui crede di perdersi e nel quale si ritrova - volto
ingrigito senza sorriso.
Il borsone è pronto, spalancato sulla cerniera ma nascosto nel misero armadietto.
Le sue gambe tremano un poco quando inghiotte l'ultima pillola rossa. Fuori le luci
illuminano una nebbia appena addensatasi che spinge pesantemente sui vetri.
Il ticchettio della sveglia si ingigantisce.
" Gentile dottore Accorsi quanta fatica nel decidere, dico solo decidere, di scrivere queste poche parole. Sono
necessarie, però.
Ci conosciamo da tempo, da troppo tempo; non ci vedremo più perché me ne andrò e non
tornerò. Nessun malanno improvviso mi indurrà a tornare. Cerchi di credere a quanto le sto
dicendo. Quante volte sono venuta a cercarla, mia unica speranza ! In certe mattine gelide di
gennaio che tutto era trasparente e vitreo mentre la mia anima era calda e piena. O in certe
primavere appena abbozzate in cui le dicevo di aver sentito per tutta la notte stornire le
rondini - il suo sorriso dottore come lo ricordo bene, un lieve sorriso di condiscendenza.
O ancora gli arrivi timidi e insieme tumultuosi ( dentro, dottore, ero tutta un fragore ) nelle
sere d'estate quando le finestre erano spalancate sul giardino, gli altri ammalati sembrava mi
attendessero lì seduti immobili sotto una luna poco amata, sì poco amata, perché non
splende certo per chi sta male, lo sappiamo bene noi che di certe nottate godiamo poco e il
cielo è nero e basta, solo nero e attendiamo la luce del sole per meglio mettere ordine nel
corpo - una pillola alle 9, 30, quella verde dopo un'ora, a pranzo la flebo e poi … poi…
E invece parto allo stesso modo in cui sono sempre partita con il mio borsone pieno di
piccole cose, sempre le stesse che ormai conservo in fondo all'armadio pronte per essere
arraffate nei momenti di panico, il cappottino grigio scuro e la sciarpa più volte avvoltolata
al collo.
Nessuna medicina in tasca, solo un biglietto di ritorno e lo specchio, quello sì, per
ritrovarmi durante il viaggio e poter dire che sono io, solo io, quella donna che si specchia,
vera, con ciglia diritte, due lunghe pieghe ai lati della bocca, due piccoli nei sul mento, un
leggero cedimento che segna i contorni del viso, capelli di un improbabile biondo e occhi,
dio dottore, che occhi.
I miei occhi lei li conosce. Non glieli ricordo. Adesso sono gli occhi gonfi di chi vuol
scappare, di chi ha pensato per intere notti, di chi ha desiderato, di chi ha immaginato un
tragitto conosciuto e lo ha arricchito di colori, finalmente.
Lei sarà contento nel leggere questa lettera, forse la attende da tanto tempo, è la risposta al
suo lavoro, un lavoro che non le ho mai invidiato. Invece lei ha invidiato a me le risate
improvvise, rare, ma ampie, le risate che portano alle lacrime, lacrime che scendono giù
velocemente e non vengono asciugate subito. Si lasciano scendere per il viso, libere senza
vergogne, le lacrime che ridono e non certo le lacrime dei pomeriggi solitari trascorsi
davanti alla TV accesa - perché e per chi ? - e il mondo cade e ricade e ricade e loro corrono
sul collo, solleticano il petto bagnano il golfino e bisogna subito asciugarle prima che arrivi
l'infermiera.
Ha invidiato i miei ritorni a casa sul pullman per meglio io godere i prati oltre il finestrino,
per sentire sbattere la vecchia tenda impolverata sul viso,per sobbalzare sulle troppe buche
di una strada dissestata.
La lascio e lascio pure sul comodino un mia fotografia non recente, risale ai tempi in cui mi
conobbe per la prima volta ed io venni affranta e spezzata perché lei potesse ricucire i pezzi
di un corpo frantumato.
Vado con la certezza di non tornare, il suo lavoro di ricamo è ultimato.
Mi resta il dolore della sua ultima immagine, la sua bella figura bianca stagliata in fondo al
corridoio, il busto appoggiato alla vetrata fredda, lo sguardo perso oltre i confini di questo
luogo sventurato."
"Grazie signora Dina,
la sua lettera è bellissima, l'ho gradita.
Mi è giunta inaspettata quando avevo già sulla scrivania la foto portatami dalla infermiera di
turno.
Succede spesso che gli ammalati mi lascino qualcosa di loro, piccoli doni significativi che
io conservo e a cui penso ogni tanto nei miei rari giorni di calma.
Lei non mi ha chiesto, andandosene, niente ma io faccio finta che una sua richiesta ci sia fra
le parole addolorate che mi ha inviate e le rispondo.
Rispondo alla sua domanda taciuta : no, mia cara Dina, non l'abbandonerò mai. Resterà con
me seduta sulla sedia grigia della sua camera, seduta sulla panchina verde del giardino
spoglio, seduta sulla poltrona sfondata del corridoio, seduta sul lettino del mio studio,seduta
sul divano della camera d'attesa, seduta sul sedile del pullman che la portava qui in quelle
mattine che io e lei conosciamo bene.
Vada pure ora che si sente libera e capace di andare e non torni in questo luogo sventurato,
lasci che ci resti io a ricucire l'anima degli altri. La sua è perfetta e non ha bisogno di
nessuno. Parola mia. Vada e mi invii una fotografia recente del suo sorriso ritrovato. Vada. "
Il dottore Accorsi si scosta dalla vetrata, la spinge ed esce sulla veranda impolverata. Si
appoggia alla ringhiera. Sotto, due pazienti parlano lentamente, poi si accorgono di lui e con
la mano lo salutano, contemporaneamente.
Nella tasca ha la fotografia di Dina, la foto degli anni passati. La prende, la appallottola, la
ripone spiegazzata nella tasca del camice.
Il tramonto è aranciato dietro la collina, in fondo più a est il rigo del mare lontano si
intravede confuso. Il pullman si ferma rumoroso, un paziente vi sale trascinando una piccola
valigia. La vetrata, per una improvvisa folata di vento, sbatte alle spalle del dottore che
sussulta. Poi è silenzio.
Il sogno
di Raffaella Musicò
Il sogno
“Stanotte ho fatto un sogno”.
Penelope è seduta al tavolo della cucina, racchiusa nel cerchio giallastro del lampadario appeso proprio sopra la sua testa. Sfoglia una rivista vecchia di almeno un mese, in paese non è facile trovare giornali che le interessano nel momento in cui le interessano.
Nadia, sua sorella, armeggia al lavello con le verdure da tagliare per il minestrone.
“Brutto?” Prova a interessarsi, ma le esce quasi in uno sbuffo, i sogni degli altri hanno senso solo per gli altri.
“Strano, direi. C’era Ludovico che camminava in un deserto piatto e a un certo punto, come se avesse avuto le vertigini, si è seduto per terra, proprio su una grossa linea, le gambe una di qua e una di là, i gomiti sulle ginocchia e la fronte appoggiata sulle mani. Mi sembrava che sbirciasse prima un emisfero e poi l’altro, come se stesse pensando, o valutando non so che cosa e io era lì vicina a li, ma lui non poteva vedermi, forse ero sola una presenza irreale, non so dirlo. E poi a un certo punto si è schiarito la gola dalla polvere, si è strofinato gli occhi, si è alzato lentamente e ha mosso qualche passo, prima incerto, poi sempre più sicuro e se n’è andato”.
Nadia riprende a tagliare con più vigore, vuole finire presto e fare un bagno, improvvisamente si sente molto stanca. Penelope alza la testa, con la pagina ferma a mezz’aria, aspetta un responso, anche se per la verità il tono didascalico delle immagini che ha cucito insieme nel suo sogno rende inutile lo spazio dell’interpretazione.
Ma Nadia è annoiata, pensa al turno in ospedale dell’indomani alle sette, vuole sbrigarsi a mangiare e andarsene subito a letto. Riempie la pentola di acqua fredda, la mette sul fuoco, ci butta dentro i tocchetti colorati, spazza via gli scarti dal tagliere direttamente nel secchio dell’immondizia, sciacqua il coltello, si asciuga le mani sul grembiule, poi se lo toglie e lo appoggia sullo sportello sotto l’acquaio, si china a regolare la fiamma, prende un cucchiaio di legno e dà una bella rimestata al suo magnifico lavoro. “Direi che possiamo apparecchiare e tu potresti tagliare il pane. Ho fame, sono stanca, ho bisogno di farmi un bagno. Qui ci vorrà un’ora”.
Penelope se ne era rimasta lì, senza andare né avanti né indietro, e ora, richiamata all’ordine pratico dello svolgersi delle cose, è bloccata, aveva voglia di parlare un po’, ma sembra che avvia scelto il momento sbagliato. O la persona sbagliata. Le serve un confronto, una parola che l’aiuti a guadare quel fiume di dubbi davanti al quale è ferma da un po’ di tempo, ma una sorella che si massacra in ospedale, che pensa alla spesa, a cucinare, a portare in lavanderia i vestiti di tutta la famiglia (e si ricorda anche di andarli a ritirare), non sembra avere tempo di concedere attenuanti a che non sa trovare la direzione verso cui incamminarsi. Penelope se ne rende conto, ma non può fare a meno di provare a chiedere, ogni tanto. Questa storia con Ludovico, più grande di lei e già legato a una donna e a una bambina nata tre anni prima, le sta facendo perdere di vista desideri e speranze per la sua esuberante esistenza e arenare su gelosie e rimorsi.
Nadia esce dalla cucina, si avventura sulla scala buia per raggiungere il bagno, di sopra. Gradino dopo gradino, fa mentalmente il calcolo di quanti soldi ancora le mancano per dare l’anticipo per l’appartamento, non ci mette molto, la cifra è ancora enorme e il piede che entra per primo dentro la vasca d’acqua caldissima e profumata produce un piccolo, ma udibilissimo tonfo.
Penelope è rimasta sola nella cucina e dopo pochi minuti, durante i quali il lieve sobbollire delle verdure le ha rilassato il cervello, schiarendo quell’immagine di Ludovico seduto per terra in mezzo alla polvere, lasciandole la convinzione che, se non avesse fatto subito qualcosa, tutto sarebbe svanito davanti a lei, decide di chiamarlo.
Anche se non è l’ora migliore per un’amante, le otto di questa sera le sembrano l’unico momento possibile, reale, urgente, in cui realizzare quello che sta aspettando da quasi un anno. Un solo squillo, poi la voce di lui è dolce, come se la stesse aspettando: “Ciao, bambina, cosa c’è?”
“Ciao” le esce più languido di quanto vorrebbe.
“Non sono ancora a casa, ho qualche minuto. Che fai?”
“Oh, me ne stavo qui in cucina, è una serata così strana, questa, avevo proprio voglia di sentirti. Ti ho sognato, stanotte”.
“Anche io ti sogno, tutte le notti, piccola…”
“Pensi sempre a quello, tu, eh?” e poi ride, come può ridere una ragazza che al secondo anno di università si ritrova a casa il venerdì sera felice di passare tre minuti al telefono con un uomo che non incontrerà. “Ho bisogno di vederti, non mi pare di farcela più ad aspettare”.
Nadia allunga il corpo nella vasca, chiude gli occhi, e si abbandona al piacere di potersi godere questo angolo di pace. Per la cena c’è ancora tempo, Penelope starà controllando il minestrone, i suoi non rincaseranno tanto presto, si sono concessi una cena in un ristorante di lusso, è il loro anniversario. Mette la testa sott’acqua e le sembra di sentire un canto di sirena fluire attraverso il silenzio dell’acqua; i pensieri sono immobili, per qualche secondo nemmeno immagini e parole si affacciano a distrarla.
“Posso?” Penelope sbircia dalla porta appena aperta.
Nadia apre gli occhi di scatto, si tira su, è subito lucida, pronta, l’abitudine a rilassarli completamente l’ha persa in ospedale. “Che c’è?”
“Niente, volevo solo parlare un po’”.
“…”
“Ho deciso, Nadia, non posso aspettare”.
“Cos’è che non puoi aspettare?”
“Indovina un po’?”
“Non so, che Ludovico lasci sua moglie?”
“Anche. Ma soprattutto non posso aspettare di finire l’università per andarmene di casa”.
“Non se ne poteva parlare a cena? Cercavo di riposarmi un po’”.
“No, te l’ho detto, non posso aspettare”.
“Ma ceneremo tra mezz’ora”.
“Ludovico dice che dove lavora lui cercano una segretaria”.
“Se pagano una segretaria quel tanto che basta per potersi permettere un affitto, lascio l’ospedale”.
“No, certo che no”.
Penelope abbassa gli occhi. Non è che non lo sappia anche lei, che questa è una trappola mortale. Incalza perché vede le labbra di Nadia aprirsi per sputare fuoco e fiamme. “Lui vuole solo darmi una mano. Aiutarmi”.
“Immagino che lo faccia perché capisce molto bene quanto sia pesante vivere in una casa dove non si vorrebbe stare!”
Nadia si è tirata su, esce gocciolante alla ricerca di un accappatoio. I capelli zuppi formano un’enorme massa scura, come un grosso gatto nero accovacciato sulla sua schiena. Subito si forma una piccola pozza d’acqua ai suoi piedi. Penelope, come faceva sempre da ragazzina, l’aiuta a raccoglierli in un asciugamano. Nadia si gira verso di lei, le ciglia bagnate sbattono veloci, lo sguardo si concentra su questa sorellina cieca: “Io non credo che sia quello che vuoi. Ci assomiglia, certo, ma non è la stessa cosa”.
Penelope si gira verso il corridoio, vorrebbe rifugiarsi in camera, ma è una battaglia che deve affrontare, e Nadia rappresenta l’ostacolo minore; le vengono i brividi all’idea di parlarne con i suoi. Nadia viene fuori dal bagno: “Non puoi davvero considerare questa ipotesi. Sai anche tu che cosa ti aspetta, no?”
“Ma io vado via perché non posso più stare qui! Io non sono come te, non riesco a stringere i denti pensando a un futuro migliore. Questo è qui ed è ora, una possibilità reale, un’occasione vera. Se lui spera di cavarci qualcosa per sé, be’, peggio per lui. Io lo faccio per me”.
Nadia si limita a fissarla alzando un sopracciglio. “Lavorerò, riuscirò a pagare quasi tutto”.
“Gli uomini segnano il territorio con i soldi, non importa quanti”.
Penelope sente tremare le labbra, propende per una tregua, torna in cucina. Manda un messaggio a Ludovico “Fissami il colloquio. Qualunque giorno va bene”. Nessuna risposta immediata.
Il giorno stabilito è il mercoledì successivo, nella sede dell’azienda che produce pezzi per macchinari agricoli, sulla tangenziale di Lodi. Penelope ha scelto un completo di lana blu, la gonna al ginocchio, la giacca avvitata che le sta così bene, sotto una maglia giallo chiaro, la catenina con la croce in evidenza, gli stivali di cuoio. Davanti allo specchio dell’ingresso si dice che i capelli raccolti in una semplice coda di cavallo le daranno un’aria più seria (non se li lega mai, i capelli, le orecchie sguarnite la fanno sentire nuda, ma questa volta fa un’eccezione).
Arriva in anticipo. Ludovico non c’è ancora, ma ha promesso di venire. Conosce bene il titolare, l’aiuterà. Una signora, con le maniche del golf ingrigite dal continuo strusciare contro la scrivania, le chiede di riempire un modulo con i suoi dati e poi di sedersi ad aspettare il signor Persini, non ci vorrà molto, di solito è puntuale.
Penelope non ha mai sostenuto un colloquio di lavoro, non ha mai avuto bisogno di avere un lavoro, i suoi genitori sono sempre stati attenti alle sue necessità, le pagano gli studi e gli svaghi, senza fare neanche troppe domande. Ora, mentre scrive il suo cognome, l’indirizzo, vede la faccia di sua madre, il suo sorriso quando le prepara una cioccolata per colazione le mattine in cui deve sostenere un esame all’università. O quelle sue offerte che lascia cadere come per caso, di poterla passare a prendere dopo una giornata intera di lezioni, che tanto deve passare a Pavia a trovare una vecchia amica.
Il viso di suo padre appare al momento di descrivere gli interessi: le ha trasmesso la passione per gli aquiloni, da far volare in spiaggia, o più spesso in mezzo a campi lontani dalla strada, che chi li vede pensa che siano due innamorati annoiati dalla routine di canonici incontri in centro. Se ne stanno immobili a guardare in alto, quasi aggrappati a quei fili che disegnano colori nel cielo, pronti a sollevare i piedi da terra e a lasciarsi trasportare, ognuno con il proprio aquilone, tutti e due con lo stesso sogno di leggerezza.
“Sei già qui, ciao”. Ludovico le si avvicina svelto, lei si alza, il foglio le cade per terra, si lascia abbracciare e baciare sulle guance. “Ti presento il signor Persini. Lei è Penelope, l’amica di cui le ho parlato”.
Penelope stava abbassandosi a recuperare il modulo, e quando si alza di scatto per stringere la mano a Persini, perde un po’ l’equilibrio, ma Ludovico è pronto, la sostiene: “Che fai? Sta’ attenta”.
Lei non riesce a spiccicare parola. Sta pensando che non ha finito di scrivere tutto quello che doveva su un pezzo di carta, sorride mentre l’altro le stringe le dita, e dice: “Piacere. Venga, per di qua, andiamo nel mio ufficio. Ludovico, ci vediamo dopo, io e la signorina abbiamo bisogno di un po’ di intimità”. Dev’essere abituato a incontrare persone, ha una faccia affabile, sembra disponibile, nei suoi pantaloni grigi e maglioncino di cachemire, Penelope lo segue, il cappotto sul braccio, la coda che le tira i capelli sulla nuca.
E’ un’incredibile giornata di sole, in pieno febbraio, e lungo il corridoio pieno di vetrate c’è un tepore che le dà quasi le vertigini, mentre i suoi stivali sbattono sul parquet lucidissimo e il foglio le svolazza nella mano. “Dia pure a me questo, si accomodi”.
La porta si è aperta su un ufficio quadrato, ben riscaldato, dove ogni cosa ha trovato un suo posto. Lei sceglie la poltroncina di sinistra al di qua della scrivania e posa il cappotto sull’altra. Non è che a ventun’anni ne abbia visti molti di uffici, ma crede che questo sia l’espressione di una personalità pacata e sincera e anche che le piacerà lavorare accanto a un uomo così. Quando la sera tornerà a casa, penserà con piacere all’idea di ripresentarsi lì il mattino successivo. Una casa tutta intera per pensare. Una vita da adulta in una casa tutta per sé. Un nido per scrostare un po’ di squallore dai suoi incontri con Ludovico. Magari potrebbe anche comprarsi un cane.
“Signorina?”
“Sì?”
“Le chiedevo se studia, nel suo curriculum non l’ha indicato”.
Un cane piccolo, certo, non potrà permettersi una reggia.
“Sono iscritta a Biologia, secondo anno”. Sarebbe meglio se l’appartamento fosse vicino alla fermata dei pullman, ha sempre lezione la mattina presto.
“Io glielo evo dire, anche se va contro il mio interesse: il lavoro potrebbe distoglierla dallo studio”.
Rinuncerebbe alla vasca da bagno, ma non a un bel terrazzo. Le piace prendere il caffè seduta fuori, in primavera. E godersi certe notti stellate anche quando si gela.
“Potrei venire a lavorare di pomeriggio. La mattina ho sempre lezione”.
Bisogna essere decisi nello stabilire certe condizioni, in futuro potrebbe essere troppo tardi. Sicuri di sé, tranquilli. Gran sorriso. Lui la guarda e sorride pure lui.
“Be’, questo lo vedremo, signorina. Non abbiamo ancora capito se facciamo l’uno per l’altra”.
Non è che lui sia stato malizioso, anzi. Ma Penelope sente che è uno di quei momenti in cui è importante ribadire la propria posizione: “Non vorrei essere scortese, ma ho già qualcuno che fa per me. E la cosa è reciproca”. Altro sorriso. Non è che Persini non si fosse reso conto che Ludovico avesse – la chiama così, lui – una predilezione per quella ragazza (pochi si sognerebbero di raccomandare una ventunenne inesperta per un posto di responsabilità come quello, la segretaria del padrone della ditta, una ditta che rifornisce tutta la zona, e che esporta all’estero); anche lui aveva avuto le sue, di predilezioni. Ma sentirselo sbattere in faccia gli dà fastidio, è come se Ludovico gli avesse chiesto supporto, come si fa con un amico. E Persini si rende conto che dargli una mano lo metterebbe in una posizione strana, quella di chi fa un favore alla persona che sta dalla parte sbagliata. Quella ragazza gli faceva tenerezza, soprattutto adesso che aveva raddrizzato la testa e lo guardava con la spavalderia tipica degli ingenui; avrebbe voluto aiutarla, ma in altre circostanze, senza doversi portare appresso quel fardello di favoreggiamento che tutta la storia richiedeva.
Penelope lo guarda spettando che lui dia segno di aver compreso e prosegua con il colloquio. E’ pronta per la domanda “Tre pregi e tre difetti”, ammetterà di essere testarda, ma riuscirà a illanguidirsi dicendo di essere comprensiva e molto discreta. Dirà anche che i suoi sono contenti all’idea che la loro figlia si renda indipendente così presto (questa non è una bugia vera e propria, i suoi saranno fieri di lei, quando vedranno che bel posto si è trovata).
Persini cerca di immaginare che tipo di padre e madre possa avere una ragazza così: il profumo dell’ammorbidente del suo golf gli arriva alle narici anche da quella distanza e gli ricorda l’odore del bucato della sua, di madre, che si spandeva per tutta casa – era una casa molto piccola, certo – e gli faceva salire un languore che quasi lo commuoveva. Pomeriggi di compiti in cucina mentre suo padre lavorava nell’azienda dalla quale adesso lui era proprietario. E quel completo blu che portava, di certo doveva averlo comprato insieme a sua madre, non era certo farina del sacco di una studentessa universitaria di – controlla sul curriculum – soli ventuno anni. Una madre così non meritava una figlia che avesse una relazione con un uomo di trenta, sposato, con una figlia. Soprattutto non meritava che uno come lui, nella sua posizione di responsabilità, le giocasse un tiro così sporco, incoraggiando quella scelta. Non poteva esserci futuro per quei due, e comunque lui non voleva averci niente a che fare.
Penelope esce fuori, nel prato davanti all’ingresso della ditta, si scioglie finalmente i capelli, mette l’elastico nel taschino della borsa, si guarda in giro, cercando di focalizzare il posto in cui ha lasciato la macchina che suo padre le ha prestato.
“Vorrei proprio sapere cosa devi fare, stamattina, vestita in questo modo. Non sarà che ti sposi di nascosto, vero?”
“Papà, ti dico tutto dopo, quando torno”.
E ora sarebbe tornata, e per fortuna lui non sarebbe stato in casa. Le tremano un po’ le gambe, nonostante il sole ha freddo. Avrebbe voglia di un cappuccino, ma quella è una zona isolata, per trovare un bar dovrebbe andare in centro e teme che prima di arrivare le lacrime comincerebbero a scendere. No si muove, non riesce a decidere in che direzione andare, non si ricorda dov’è la macchina. Ludovico non si vede, starà lavorando. Vorrebbe essere dentro un nido, invece di dover affrontare la tangenziale, e per di più ha anche gli stivali, che per guidare sono proprio scomodi, soprattutto se uno ha preso la patente da poco. Il mondo le sembra così gigantesco da farla sentire come un granello di polvere che aspetti il soffio del vento per continuare il suo cammino.
Poi sente una mano sulla spalla e la faccia di Ludovico entra nel suo campo visivo, prima della sua voce: “… successo? Persini aveva una faccia strana quando abbiamo parlato, gli hai detto qualcosa?”
Ha lo sguardo severo, la fronte ripiegata su due grosse rughe, non le sembra quasi di riconoscerlo. Fa fatica a capire cosa le sta dicendo. “Gli hai detto qualcosa di noi?”
Quel noi non somiglia per niente ai dodici mesi che hanno vissuto insieme, alle fughe nel mezzo della giornata per starsene da soli, alla prima volta che hanno fatto l’amore e neanche all’ultima, pochi giorni prima. Quel noi sembra più un tu e io, ciascuno sul punto di riprendere il suo posto. Penelope ha paura. Se inizierà a difendersi non potrà più tornare indietro.
“Quello è il mio capo, non so se te ne sei resa conto, non un amico”.
Penelope pensa che non hanno amici, perlomeno non in comune. Non ci sono testimoni per la loro storia. Quando lei avesse avuto una casa, allora sì, forse si sarebbero potuti spingere a crearsi delle amicizie; ma in quella condizione celata, l’unico spazio disponibile era stato per l’amore.
“Dimmi che cosa gli hai detto, così posso salvare il salvabile. Lo sapevo che non dovevo fartelo fare, ma era solo un colloquio di lavoro, pensavo che fossi in grado di… Dovevi solo cercare di avere quel lavoro, lo volevi tanto, non era così difficile. Chissà che gli hai messo in testa, a Persini, speriamo che non mi venga a fare il terzo grado, che poi, sai che diritto avrebbe di venirmi a dire qualcosa, con tutte quelle che si è fatto lui…”
Penelope gira di scatto la testa, lui si rende conto che proprio non avrebbe dovuto, no.
“Scusa. È che sono nervoso, tutta questa storia è stata uno sbaglio, non avremmo dovuto rischiare così”.
Uno sbaglio. Uno sbaglio è mettersi gli stivali quando non si è ancora imparato a guidare con scioltezza o legarsi i capelli se ti senti più a tuo agio lasciandoli sciolti. Uno sbaglio è un errore di valutazione, l’incapacità di calcolare la portata di una certa azione. Lui ha detto ‘tutta questa storia è uno sbaglio’ e lei sa che non stava parlando del colloquio. Aveva in testa tutte le telefonate, tutti i baci, tutte le parole, gli sguardi, le implorazioni.
Attratta da un fattorino che attraversa il cortile spingendo un carrello pieno di carta da macero, Penelope si accorge della sua macchina, parcheggiata proprio di fronte a lei, a qualche decina di metri.
“Adesso devo tornare dentro, mi dispiace”.
Il sole è sparito, si è alzato il vento, Penelope sente quasi odore di pioggia. Meglio avviarsi, non c’è molto di peggio che guidare con la pioggia. E con gli stivali.
Cristiana, mon amour
di Marina Bisogno
Cristiana, mon amour
La notte era molto tranquilla, e in quelle notti, quando il traffico si va diradando, il passante si accorge che sopra la strada c’è la luna, neanche fossero state tirate le tende del cielo così da mettere allo scoperto il firmamento, come in campagna (V. Woolf, Notte e giorno).
Già da qualche sera le luci del lido “Sirena” avevano ripreso ad illuminare la spiaggia. L’estate stava per esplodere di nuovo, e presto i vacanzieri sarebbero tornati ad affollare il litorale.
Erano anni che Cristiana lavorava al lido come barista. Puntuale, a maggio, Salvo, il padrone, le telefonava per proporle il solito contratto stagionale, e lei che aveva bisogno di soldi, accettava volentieri. Per tre mesi se ne stava dietro al bancone a spillare birra o a servire cocktail “Sempre meglio che lucidare i gabinetti” diceva. Le piaceva pescare tra le bottiglie affastellate sullo scaffale, scegliere il bicchiere e shakerare, shakerare forte per accontentare i clienti. Da là dietro aveva elaborato una visione tutta personale del mondo, della gente. Sul fondo dei boccali da lucidare, a fine serata, restavano barlumi di vita appena trascorsi, malinconie amiche, amori lontani da dimenticare a tutti i costi. Lei li poteva sentire, li poteva toccare, quasi restassero impigliati nello straccio, mentre le vacanze passavano in un lampo, come una scia di luce fugace, destinata a dissolversi ancor prima di riuscire a scorgerla.
Di mattina, il bagnino aveva preso a rastrellare la sabbia, tracciando le file per sistemare gli ombrelloni. Lei era al Sirena da tre giorni, e da tre giorni non aveva fatto altro che trascinare pacchi, scaricare bottiglie di ogni specie e aggiornare la lista dei fornitori. Le dispense erano praticamente vuote da un anno e doveva rimediare. Il lavoro non era ancora intenso, e di sera poteva ancora godersi l’illusione della tranquillità. Nel bar c’era un vecchio juke box che Salvo aveva trovato in qualche fiera dell’usato. Introdusse un euro e scelse “Because the night” di Patty Smith. C’era solo la voce possente della cantautrice a farle compagnia. Fumava appoggiata alla ringhiera della terrazza sulla spiaggia. Ad ogni boccata allungava bene le labbra, quasi stesse per pronunciare una parola. Ma stava zitta. Aveva la sensazione di vagare in uno spazio nero e assoluto, dove si concentravano ridde di pensieri impazziti. Un’accozzaglia che in genere le procurava un gran mal di testa, inutile, perché vi soccombeva inerte. Anche in quel momento era come assente. Sentiva solo l’odore di mare, che per lei era anche quello della libertà. La libertà di poter scegliere, di poter essere se stessa e crescere. Notò che sulla battigia era ammarrato un pedalò, mentre il mare si stagliava immenso verso l’orizzonte, sotto un tetto di stelle. Le sembrava la metafora perfetta di quei giorni prima del caos, la sintesi di uno stato emozionale intimo e impenetrabile. Tutto quello che durante l’anno appena trascorso l’aveva condotta al Sirena acquistava di colpo un valore nuovo, quasi sconosciuto. Il viso, le mani, gli occhi tremanti di Fabio quando si erano detti addio sotto il portone in una sera tiepida di fine marzo scomparivano col ghiaccio nel bicchiere di gin. I pianti, i bocconi amari, le promesse infrante erano passi per un cammino di rinascita, che toccava necessariamente l’estate. Le notti che avrebbe passato a sgobbare, il fragore notturno delle onde, il silenzio del primo pomeriggio nelle strade del villaggio le avrebbero suggerito le risposte e risvegliato nuovi interrogativi. Lo sapeva e aveva solo voglia di vivere.
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