Raccontami di...


Storie, racconti, pensieri in prosa.



 

I braccialetti di mia nonna

di Asma Gherib

 

gIn tutta la città non c’era essere vivente che non conoscesse Arabiyyah, la donna che ogni giorno, all'ora del vespro usciva per dare da mangiare alle formiche, e ogni domenica, all’alba, richiamava i gabbiani con il rumore dell’acqua con cui annaffiava le sue palme. Sì, non devi meravigliarti, mia nonna parlava ai gabbiani tramite l’acqua, non capì mai cosa dicesse loro, ma mi raccontava spesso ciò che loro dicevano a lei.

Il giorno in cui ci visitava, era festa per me. Spesso ero io ad andare ad accoglierla ancor prima che arrivasse alla soglia della porta. La aiutavo a scendere dal tassì e a camminare pian pianino fino a casa nostra. Non dimenticavo mai di sbirciare dentro il grande cappuccio della sua gellaba, in cerca di biscotti, caramelle o i mandarini che nascondeva di proposito per me, dentro quel cappuccio che sembrava il sacco di baba Ashur, l’uomo leggendario che ogni dieci del mese di Muharram scendeva per le vie delle città distribuendo ai bambini svariati regali.

Quando la nonna era a casa nostra, mi svegliavo sempre di mattina presto, mi piaceva sentire la sua voce e quando il sonno si impossessava di lei, mentre era distesa sul divano, cosa spesso che accadeva, io rimanevo lì, accanto a lei, infatuata da ogni suo particolare: l’odore di muschio che emanavano i suoi vestiti di seta bianca, i capelli color argento lunghi, abbondanti e spesso coperti con un fazzoletto di crêpe de Georgette verde e ricamato con delle farfalle realizzate con i fili che fuoriescono dalle cozze, fatte asciugare e dorare sotto i raggi del sole di luglio. Le orecchie grandi quanto una conchiglia di mare, sembravano distese sulla costa che formava una guancia del suo viso ed aspettavano di udire il suono delle voci delle particelle che vagavano nell’aria della stanza, o dentro le vene del suo e del mio corpo. Su alcuni posti del corpo s’intravedevano dei tatuaggi: quelli della fronte avevano la forma di una piccola tortorella, quelli del mento di una spiga e quelli del braccio indicavano in arabo, il nome di Dio. Le mani erano sempre decorate con delicatissimi disegni d’henné, ma ciò che attirava la mia attenzione non era l’henné, ma le rughe delle sue mani dentro le quali leggevo tante cose e lei mi lasciava fare, e mi lasciava persino credere che stesse dormendo sul serio su quel divano. In realtà, lei, chiudeva solo gli occhi, e continuava a guardare con il cuore tutto quel che succedeva intorno, anche quando sembrava non esserci nulla da guardare.

I suoi gioielli erano un altro mondo tutto da scoprire. Nelle orecchie portava spesso degli orecchini a forma di grappolo d’uva, le cui foglie erano d’oro rosso fuoco e i chicchi erano di smeraldo scuro. Sul collo aveva sempre una collana di granelli di zaffiro ornata al centro da tre monetine d’argento massiccio e puro, sulle braccia portava sette braccialetti a forma di treccina i cui fili erano uno più diverso dell’altro; il primo era di oro nero, il secondo di oro giallo e il terzo di oro bianco. Ed io ogni volta che mi trovavo accanto a lei, mi mettevo a toccare questi braccialetti e a contarli ripetutamente senza capirne il motivo, fin quando un giorno non mi afferrò velocemente la mano e, guardandomi con i suoi occhi azzurri, mi disse: che tipo di braccialetti vuoi ti regalassi per il tuo prossimo compleanno? Qui, per te ne ho tre: uno di rame, uno di argento e un altro d’oro. Ed io sorpresa dalle sue improvvise parole non seppi cosa rispondere, e a quel punto lei con il dito medio e il pollice formò un cerchio e fece un movimento circolare sul mio avambraccio per tre volte consecutive: la prima volta mi diede un pizzico sopportabile con le unghie delle due dita, la seconda volta l’intensità del pizzico diminuì e nella terza, aumentando al massimo l’intensità, mi fece proprio male con le sue unghie, e gridando dal dolore, le chiesi il perché di questo suo gesto.

- “ questi erano i miei braccialetti, qual è allora quello che ti è piaciuto di più?”

- “quello che mi ha causato meno dolore, il secondo”

- “era d’argento.”

- “io però speravo che fosse d’oro.”

- “quello è il terzo che ti ha fatto morire dal dolore”

- “che vuoi dire?”

- “non tutto quel che vedi è oro, nella vita tutto ciò che luccica rallegra l’occhio, fa ubriacare i sensi ma, con il passare degli anni, è il cuore a rendersene conto del dolore che possono causare le cose, che sembrano luccicanti quanto l’oro, proprio come il dolore che ti ha causato il pizzico forte delle mie unghie sulla pelle del tuo avambraccio: stai attenta figlia mia all’oro dentro gli occhi altrui, stai attenta all’oro nel sorriso delle genti, stai attenta all’oro delle loro parole, stai attenta all’oro che sembra il miele della vita, poiché in un batter d’occhio può trasformarsi in giganti foglie di coloquintide.”

- “E allora perché a te piace l’oro, e le pietre preziose, tanto da indossare quelle più belle e più rare?”

- “No mia piccola adorata nipotina, quel che indosso di oro e di pietre, tu sei l’unica di tutta la famiglia a poterlo vedere, perché il tuo cuore è puro quanto la goccia dell’oro blu.”

-“E come può accadere questo, mi vuoi dire che in realtà tu non indossi niente di materiale, che possano vedere gli altri?”

-“Questo lo saprai, quando riuscirai a intendere cosa voglia dire il grappolo d’uva nelle mie orecchie e la collana di zaffiro con le monetine d’argento sul mio collo, e i sette braccialetti a treccina nel mio braccio.”

- “non lo saprò mai nonna.”

Dissi in silenzio smarrita nel bosco delle sue parole, mentre vedevo crescere sul suo vestito di seta bianco, un grande albero di oro blu, con dodici rami e in ogni ramo c’erano trenta foglie e da ogni foglia sorgevano cinque frutti: tre erano coperti dall’ombra e due dai raggi del sole.

 


 

 

Frittelle per due

di Raffaella Musicò

 

 

frittelle per dueOggi mio marito è andato a Venezia – non perché lui sia di Venezia e quindi ogni tanto ci va, che ne so, a dare un’occhiata che sia ancora in piedi la casa che ancora possiede, quella che lo ospitava durante le vacanze da ragazzo, quella in cui ha vissuto suo padre e la madre di suo padre prima di lui, quella che una volta era in un modo, un grosso parallelepipedo di due piani di altezza, squadrato e senza terrazzi, di un colore rosso cupo quasi marrone, e ora è in un altro, intanto i piani sono quattro, tre sopra la terra e uno sotto, e poi c’è una torre che viene fuori come un faro rosa dal resto della costruzione e ospita le scale, come se fosse un condominio, anche se non lo è, perché le case appartengono tutte a mio marito e a sua sorella, una per uno e due ereditate; dunque non c’è andato solo per dare un’occhiata alla casa e al giardino – perché le luci esterne spesso saltano, annacquandosi i fili con l’acqua che permea la parte di terra del comune di Venezia che se ne sta appoggiata sulle palafitte e non c’è niente da fare, non ci sono coperture e protezioni che tengono, le particelle umide s’infiltrano, penetrano, corrodono e distruggono, seppure con grande lentezza e pazienza, e ovunque fanno fiorire chiazze verdastre e bagnaticce, che pian piano coprono superfici e acquietano ogni spirito umano di lotta; non è andato per controllare e verificare, aggiustare e recuperare, come fa per la maggior parte della sua vita: ci è andato per comprare delle frittelle, che in dialetto veneziano si chiamano frìtoe, perché è carnevale.

E’ stata una decisione presa così su due piedi ieri sera, mentre parlavamo dei nostri progetti per il fine settimana; ci chiedevamo cosa ci sarebbe piaciuto fare, se avremmo preferito il freddo e il caos ipercolorato di Venezia e delle sue maschere sorretto da un paio di cene di pesce come piacciono a noi, con i fritti di verdure all’inizio e un buon piatto di spaghetti con le cozze e i pomodorini, al dente e sugosi, che ti scivolano sulla lingua e ti lasciano un po’ di acido in tutta la bocca – acido che si sposa bene con una bella sorsata di prosecco, certo – e poi magari un’orata al forno pescata di fresco; a colazione avremmo potuto andarcene, come sempre, al bar sotto casa che fa le brioches più buone di tutta Venezia, con il laboratorio di pasticceria proprio lì in fianco, da cui viene un odore di burro e di zucchero che trasforma qualsiasi essere raziocinante in un bambino di tre anni, festoso ed entusiasta.

Ci siamo chiesti se avremmo invece goduto di più restandocene a casa, col camino acceso a fare una partita a Scarabeo, con i cani addormentati ai nostri piedi per tutto il pomeriggio, e poi la sera una cena nel nostro ristorante preferito, che fa bene la carne alla brace ed è gestito da un oste che ha il dono della parlantina filosofica. Dormire nel proprio letto può non avere pari.

Ma poi ci sono venute in mente le frittelle. E’ carnevale e di frittelle a Venezia si può morire. Perché quelli che le sanno fare bene, le fanno soffici e non troppo dolci, con l’uvetta che arriva a spezzare la monotonia dell’impasto o, meglio ancora, con dei pezzetti di mela che concedono al palato una pausa corroborante prima del boccone successivo. Non ci piacciono quelle con crema o zabaione, che riempiono la gola e stroncano la leggerezza. Mentre ne parlavamo sentivamo entrambi aumentare la salivazione e ripercorrevamo con la memoria delle papille gustative il piacere generato al momento della degustazione. Perché è di questo che si tratta, della degustazione di un cibo sopraffino, che la tradizione popolare ha un gusto anche così.

Quindi mio marito ha deciso di concedersi una pausa dal lavoro, una fuga segreta, alla ricerca di un piccolo sogno che si sarebbe avverato senza troppe difficoltà. L’apertura di uno spazio nascosto e solitario, ma condiviso con la mia attesa, per guardare in faccia i propri pensieri, per ripescare emozioni infantili e dolcissime. Una missione per il godimento di entrambi, una promessa che si è certi di poter mantenere.

E’ partito presto, non erano neanche le otto, faceva un freddo che tagliava il respiro; si è infilato nella sua macchina con i sedili riscaldabili, ovattata e morbida, ha acceso la radio e mi ha salutato con la mano. “Ci vediamo stasera, con il malloppo!” Quando mi sorride così, mi convinco che la felicità è questione di attimi che potrebbero smarrirsi come niente, bisogna stare attenti, che ci sono poche altre cose per cui vale la pena attraversare questa valle di lacrime.

Io ho avuto una preziosa giornata di silenzio e solitudine che mi ha privato di ogni scusa per non rimettermi a scrivere; mi sono arresa, ho preso il mio blocco a righe – che tutte le volte che lo apro penso che preferirei fogli bianchi, senza costrizioni, che tanto riesco ad andare dritta quando scrivo, non ho bisogno di guide, e se ho la necessità di lasciare un po’ di spazio sarebbe più bello se fosse bianco, intonso, virgineo, mi viene da dire – e ho cominciato. Il segreto del foglio bianco è che fa paura quando è bianco, ma appena ci si posa sopra la penna, tutto comincia a cambiare, si aprono mondi, dimensioni impensate, o meglio pensatissime, sognate, desiderate, tutte quelle immagini che popolano i sogni da svegli, tutte quelle impressioni che hanno marchiato la corteccia cerebrale, il cuore, lo stomaco; basta anche scrivere solo “Mi ero appena svegliata, in un martedì di neve a fiocchi di zucchero, che il telefono aveva preso a squillare come non faceva mai di prima mattina” e subito, istantaneamente, ti viene da andare avanti, non sai bene dove o come farai per arrivare in fondo, ma senti che una porta si è aperta, una luce all’inizio ti ha accecato, ma subito i contorni delle cose hanno preso a delinearsi, a colorarsi, ad appropriarsi delle loro ombre e ti viene una specie di bulimia, un affanno esaltante di correre dietro a tutti i sentieri che cominciano a snodarsi al di là di quella porta spalancata; ho letto da qualche parte che la vita è fatta di e/e/e/e piuttosto che di o/o e credo che non ci sia affermazione più vera. Le possibilità diventano alternative solo perché non abbiamo abbastanza tempo o coraggio per percorrerle tutte.

Dopo due ore mi sono tirata via a fatica e mi sono messa a cucinare, che poi è un po’ come scrivere: ci vuole attenzione, precisione e inventiva. Ci vuole una capacità empatica con i destinatari delle creazioni, ci vuole un’immaginazione lungimirante per immedesimarsi nel godimento che proveranno nell’istante in cui addenteranno i nostri bocconi o scorreranno con gli occhi le nostre parole: bisogna credere di sapere di che emozione moriranno. Ho tirato fuori dal frigo l’impasto di carne trita che mi ero fatta preparare dal macellaio, che ci mette dentro anche un po’ di filetto e di salsiccia; ci ho aggiunto pezzetti minuscoli di mortadella, e ho messo del pane raffermo a bagno nel latte freddo. E poi spezie, sale e una delle uova vendute di nascosto dal mio fruttivendolo, di nascosto perché le fanno le sue galline e lui le porta in negozio così come sono, senza lavarle né confezionarle, e adesso ho capito che è una cosa che non si può più fare. Ma sono uova così gialle e gustose che se anche te le sfrittelli in una triste domenica di pioggia – che il sabato prima sei andato al cinema e ti sei cibato solo di pop-corn e hai un buco allo stomaco indomabile – il sapore e il profumo riempiono la stanza e il cuore (per cui vale la pena di incappare e perseverare nell’illegalità). Finito l’impasto mi sono dedicata al sugo, mio marito adora le polpette al sugo, che però dev’essere profumato e pieno, e deve rimanere abbracciato alle palline di carne, avvolgerle, accudirle, quasi, prima che vengano messe in bocca. E’ uno dei piatti che sua madre sapeva fare meglio, finché le è rimasta la voglia di cucinare (e di dedicarsi a qualcuno) e quindi è uno di quei piatti che quando lo mangiamo ci restituisce la sensazione di una cura di cui abbiamo sempre bisogno.

Ho controllato che ci fosse una bottiglia di barbera, il cui sapore aspro esalta il suo corrispondente nel pomodoro e c’era; tutta contenta ho preso a formare le polpette e poi le ho messe in frigo. Intanto guardavo il mio blocco a righe aperto sul tavolo della cucina e ho declinato almeno due volte il suo invito silenzioso a rifarmi viva: mancava ancora un contorno appetitoso. Ho optato per un bel cespo di scarola ripiena, con capperi, olive, pinoli e dadini di salame piccante; un po’ d’olio e quaranta minuti di forno a bassa temperatura. Fuori il freddo sembrava stremare persino gli alberi e verso le due del pomeriggio ha cominciato a nevicare; prima poco, poi sempre di più, a grossi fiocchi abbondanti e muti. In poco tempo il giardino si è trasformato in un luogo da fiaba e i miei cani si sono messi a protestare per uscire a giocare; è bastato aprire la portafinestra per vederli volare nel bianco, tuffarsi, rotolarsi e poi correre sfrenati in un’euforia sfolgorante. Io sono rimasta a guardarli per un po’, a bearmi di quella libertà giocosa e ingenua, seppure scandita dai delicati equilibri di branco – in cinque fanno un branco bello e buono – e poi sono rientrata, con le guance gelate e un sorriso del cuore. Sono tornata dentro e la cucina iniziava a profumare della verdura che si abbandonava al calore del forno; le ombre erano diventate nette e lunghe, ho acceso la luce. Il mio blocco ancora lì sul tavolo, le idee nella testa, il silenzio conciliante. Ho pensato a mio marito che a quel punto doveva quasi essere sulla via del ritorno, magari ancora una passeggiata lungo laguna, con i lampioni gialli e il sottile rumore dell’acqua smossa dalle barche e le luci delle case tutte accese contro un cielo netto e freddo. Magari non c’era vento e si sentivano i cani abbaiare dall’isola a loro destinata come ricovero; magari era al bar, a bersi un caffè caldo e a farsi preparare le frittelle da portare a casa. O era già sul traghetto che dal Lido porta i passeggeri sulla terra ferma – che quando la sento mi sembra sempre una bella espressione, soprattutto perché è in contrasto con la terra dell’isola che tanto ferma non è – e allora si stava godendo i colori della laguna e di Venezia, e magari il pensiero era volato indietro a mille ricordi che non sai di avere finché non ti trovi in una certa condizione che ti permette di farli tornare fuori. E come è bello stare lì a rivedere tutto davanti agli occhi, persone che si sovrappongono a persone, conversazioni e risate sopra le voci che ti circondano, quella stretta inesplicabile allo stomaco nel risentire un abbraccio, o il tuo nome pronunciato ad alta voce. E sopra ogni cosa c’è il ricordo di quel richiamo dalla cucina – una nonna o una mamma – che avvertiva che c’era da fare merenda: a casa mia era un tè caldo con il ciambellone appena sfornato, oppure la crema pasticcera nelle tazze con i biscotti, che, siccome doveva bollire per perdere il sapore di farina, bisognava stare molto attenti a che non si attaccasse al pentolino mentre la cucinavi e poi ci si aggiungevano le scorzette di limone che facevano diventare la crema amara tutt’intorno e ti dovevi ricordare di questo se no avevi un piccolo shock, un inaspettato insospettabile brusco risveglio dal sogno dolce in cui ti eri appena immerso. La voce era gentile e molto attesa e nessuno si era mai fatto ripetere due volte la richiesta. I ricordi di mio marito in merito non li so, quello che mi ha raccontato dei suoi pomeriggi a casa era il suo starsene con lo stereo alto, al buio, lo studio come una pausa tra un’emozione evocata e un’altra, ma deve essere stato intorno ai quindici sedici anni, non prima, e lo racconta con un misto di sofferenza, di rimpianto e di liberazione. Di sicuro ora che se ne sta al Lido da solo chissà quante merende fatte di gelati sulla spiaggia o di panini portati da casa gli staranno tornando in mente!

Io sono ancora incerta sul da farsi, se tuffarmi di nuovo nelle parole che affollano il cervello e il cuore o se dedicarmi alla preparazione di qualcosa d’altro, che cucinare ripristina il mio equilibrio e permette all’energia di impiegarsi con profitto. Un compito godurioso e ben eseguito porta tranquillità d’animo e soddisfazione. Così mi è venuta l’idea di farle anche io le frittelle, con la ricetta di mia suocera, così, tanto per fornire un termine di confronto, una sovrabbondanza di piacere, una scorta di amore trasmesso e arrivato. Nella nostra casa c’è un silenzio che incoraggia la bellezza dei sentimenti e che a volte ti mette davanti all’assoluto: sarà per questo che se io e mio marito litighiamo lo facciamo in modo estremo, come se dopo non potesse restare che l’odio o l’amore eterno.

In questo pomeriggio sempre più nevoso e offuscato, il silenzio comincia a diventare incombente e così mi decido a mettere su un po’ di musica; scelgo una piccola collezione di arie famose cantate da Maria Callas, arie romantiche e travolgenti che in un attimo ti trasportano in un altrove fatto di palpiti e sospiri, di voli su distese sterminate, di battiti furiosi del cuore. E’ la musica perfetta per fare dei dolci. Mi metto all’opera, grembiule, ricettario, ingredienti e strumenti: avere tutto a portata di mano, tutto in fila sul ripiano di marmo arrotonda le mie ansie, perché con i dolci io non ci so fare. Ci vuole tutta la volontà di cui sono capace e la capacità di cogliere, in corso d’opera, deviazioni pericolose per la riuscita finale. Non è come cucinare carne o pesce, ingredienti base che esistono già, che hanno solo bisogno di essere capiti ed esaltati; no, qui si tratta di creare dal nulla, di mettere insieme materiali che di per sé hanno già un senso che, combinato nell’unico modo giusto con quello degli altri, sfocia in tutt’altro e dà vita a una composizione unica. Per molto meno qualcuno è stato definito Dio. Quindi. Maria canta, con tutta la potenza di cui dispone, e io comincio a mischiare, aggiungere, sbattere energicamente, assaggiare, per poi ricominciare ad aggiungere, e nuovamente mescolare, amalgamare, invitare segretamente al connubio necessario. Mi calmo quando viene il momento di friggere, perché è un’operazione che mi riesce bene e mi dà un gran gusto: l’olio in grande quantità, la fiamma alta, le prime bollicine, la prova con un poco di impasto. Tutto è pronto, vado. Riesco a tirare fuori diciotto frittelle, belle gonfie e spugnose al tatto, dorate e profumate. La cucina è un trionfo di odori, il mio grembiule imbrattato quanto basta a rendere onore all’impegno e alla fatica, sulla lingua ancora il sapore dei residui che ho tirato su dalla ciotola con il dito. Ho finito, spengo il fuoco, l’olio non vuole arrendersi e sfrigola ancora su piccoli pezzi di impasto rimasti in giro per la padella. Una ciotola di ceramica a fiori accoglie il risultato della mia dedizione. Con fierezza mi tolgo il grembiule e trepidante ne assaggio una. Perfetta. Ho quasi le lacrime agli occhi. In quella squilla il telefono, è mio marito: “Ho con me il bottino, la macchina profuma, non so se riesco a resistere fino a casa! Sono già a metà strada, arrivo presto.” Non gli confesso che cosa ho fatto, voglio vedere la sorpresa nei suoi occhi, leggerci dentro la gioia di ritrovare profumi e sapori anche nella nostra casa, tutta una serata pervasa di ricordi di vecchi piaceri che risuoneranno nei nuovi, qualcosa di cui ci saremo impadroniti e che entrerà a far parte delle nostre tradizioni. La nostra famiglia che aggiunge tasselli di identità ai retaggi di cui siamo singolarmente portatori.

Vado di sopra, voglio farmi una doccia e cambiarmi, pregustando il piacere di cui sarò stata complice con lui. Non ci impiego più di dieci minuti e scendendo le scale sorrido. Apro la porta della cucina e il sangue mi si gela nelle vene: vedo la mia cagnolina, quella cagnolina che ho scelto io stessa in mezzo a tredici fratelli e sorelle di neanche sessanta giorni, che mi ha preso un dito fra i denti quando l’ho accarezzata, quella stessa cagnolina che ho assistito con mio marito mentre partoriva i suoi nove cuccioli in una notte di ottobre, ritta su due zampe con la bocca spalancata dentro la mia ciotola di ceramica a fiori a meno di un centimetro dall’ultima frittella. Lei si gira verso di me, mi guarda e poi addenta la preda. Io sono ancora sulla porta, i miei sensi immobilizzati dall’orrore e dalla rabbia. E dalla mia stupidità. Dalla mia assoluta, totale stupidità. Mi metto a urlare “Via! Via di lì!” dimostrando ancora di più la mia idiozia. Lei manda giù l’ultimo boccone e lentamente, per via della panciona gonfia delle mie frittelle, va a stravaccarsi sul divano. “Cosa hai fatto! Cosa!” se vado ancora avanti e qualcuno mi sente finisco all’ospedale psichiatrico del paese. Ma la mia rabbia è devastante, mi scendono lacrime che bruciano le guance, puro odio distillato. Vado su è giù per la cucina imprecando e maledicendo qualunque cosa, piango disperata, disperata, disperata. Mentre lei se ne sta placida a godersi il frutto della sua prontezza d’azione. Non ha neanche rovesciato la ciotola, peggio per lei perché adesso ho una gran voglia di spaccargliela sulla testa. Mi brucia la gola per quanto ho gridato, decido di sedermi un attimo. Non ho né tempo né ingredienti a sufficienza per farle daccapo. Mi arrendo.

Poco meno di un’ora dopo sento la ghiaia stridere sotto le gomme della macchina di mio marito, davanti al garage. Poi il motore si spegne, i suoi passi arrivano portatori di gioia e di piacere, la mano libera dal vassoio abbassa la maniglia della portafinestra che ho dimenticato di chiudere a chiave; mi aspetto una ramanzina, ma lui è tutto un sorriso, dice ‘ciao’ come se avesse davanti agli occhi la cosa più bella della sua vita, e neanche si accorge della mia faccia stravolta, mi viene incontro, mi bacia – sa di freddo, di aria nuova e del suo profumo, lo stesso da anni – mi accarezza i capelli. “Missione compiuta!” E io non posso fare altro che sorridere all’idea che per fortuna siamo in due.

 


Diario dalla mia isola

di Stefania Aureli

 

 

Il sole aveva già cambiato rotta e colore,

puntava ora ad ovest

verso le soffici onde dell’oceano,

era quasi rosa con piccoli grumi di arancio e fiammelle rosse.

 

 

Due erano i pesanti sacchi verdi,

uno per parte, stretti dalle forti mani.

Fasci di foglie e rametti sottili si affacciavano dagli argini di plastica,

“verdura molto nutriente” imparai molti passi dopo.

Era davanti a me, con un ritmo perfetto,

dondolava precisa come un pendolo,

il suo corpo e le braccia con i due pesi disegnavano un’ombra:

una bilancia.

 

Il sentiero bruciava le suole dei sandali,

la sua voce intonava una nenia crepuscolare,

fruscìo, gorgoglìo e oceano.

Il mio fiato a tratti affannato cercava l’intonazione.

 

Alberi di banane e piccole cascatelle,

una grande sottana svolazzante di cotone grezzo,

verdura in sacchi, capelli scuri come la sua pelle raccolti insieme a quelli argentati.

Sete.

 

Era bellissima.

 

La sua casa era arroccata sopra una collinetta dopo il terzo albero di banane,

percorrendo il sentiero a nord del villaggio.

L’abito del Sabato era appeso dietro la porta di legno insieme con la sottoveste bianca.

Una capanna di legno e un vestito blu a fiorellini azzurri.

 

Mattoncini e sassi per tenere sollevato il pavimento,

un pozzo vicino, un ruscello vicino,un macete,

un albero del pane: non lo avevo mai mangiato prima di allora.

Un grande frutto da tagliare e da friggere.

 

Un tempo il suo sorriso doveva essere meraviglioso:

denti bianchi come il cocco da bere e grandi labbra carnose come foglie di aloe.

Occhi di verità e coraggio.

Che onore nella sua casa!

 

 

Un solo piatto, un solo letto, un tavolino ben saldo.

Uno specchio dalla cornice di plastica rossa,

il cappellino e la borsetta del Sabato alla messa

per ringraziare Dio cantando la libertà.

 

 

Dorcas non era più giovane,

venticinque anni fa aveva cominciato a lavorare nel turismo.

Puliva i bagni dei grandi alberghi.

Due miglia di cammino dal suo alloggio e quasi tre dal suo villaggio.

 

Era bellissima.

 

 

Era un corallo nero

di quelli che i turisti tentavano di rubare dal suo oceano,

lucidi e levigati dalla vita.

Era una donna fiera e libera.

 

Dorcas mi ha dato cibo, acqua, canti.

Mi ha insegnato a danzare tra i banani,

nelle fiammelle del sole…

… e quando me ne sono andata mi ha detto “ arrivederci amica mia ”….

 

Era bellissima… e la sua voce,spesso,

mi insegna ancora dell’albero del pane,

della festa del Sabato.. e di me,

donna come lei.

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I redattori collaboratori che hanno partecitato a questa rubrica sono: Asma Gherib, Raffaella Musicò, Stefania Aureli.


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Presentarsi non è sempre facile, ma ci provo: sono Annalisa, ho 21 anni ed abito a Roma. Sono un'eterna...Read more >>
Studentessa di Lettere e aspirante giornalista. La frase che mi contraddistingue, imperativo per vivere...Read more >>
Sono nata in provincia di Napoli dove vivo tuttora. Ho conseguito una laurea triennale in Economia Aziendale....Read more >>
Ilaria Biondi nasce a Parma nel 1974. Dopo gli studi liceali, si laurea in Lingue e Letterature Straniere...Read more >>
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