Inseguendo Taia e Pasolini, appunti di viaggio da Salé
di Jacopo Granci
Un diario di viaggio in Marocco, sulle tracce di un’ispirazione. Due scrittori, due passaggi, due ricerche, sullo sfondo di una terra meravigliosa, potente, che non smette mai di incantare.
Il treno ha appena superato la stazione Rabat-ville. Mi affaccio al finestrino e vedo la torre Hassan spuntare imponente sui tetti delle case circostanti. Poco più in là c’è la casbah des Oudayas, che osserva dall’alto del suo promontorio l’incontro silenzioso tra il mare dell’Atlantico e il fiume Bouregreg. Questo piccolo corso d’acqua, poco più di un rigagnolo, nasce nelle lontane montagne dell’Atlas. Percorre centinaia di chilometri, scavando il suo letto tra le rocce aride dell’interno, prima di gettarsi sull’oceano proprio in questo punto, separando così Rabat da Salé. Due città vicine, “gemelle” a detta di alcuni, ma distanti in realtà dei secoli l’una dall’altra.
La prima governa la vita amministrativa e politica del paese, ed è rivestita di bei palazzi in stile coloniale e luci scintillanti. La seconda sembra aver fatto capolino nel ventesimo secolo soltanto da qualche decennio. A Rabat ci si sposta solo per lavorare, gli affitti sono alle stelle. Salé, Sla in arabo marocchino, è diventata invece una città dormitorio, un formicaio di cemento che si estende a perdita d'occhio dietro il prezioso centro storico.
Sono due le ragioni che mi hanno spinto fin qui, a Salé, un universo affascinante ma poco conosciuto. La prima si chiama Abdellah Taia. La seconda, Pier Paolo Pasolini. Il giovane scrittore marocchino, nato e cresciuto proprio a Salé (oggi vive a Parigi), descrive con parole cariche di affetto i ricordi che ancora lo legano alla sua terra. Nei suoi racconti dà voce alla miseria di Hay Salam, il quartiere popolare dove ha conosciuto la durezza della vita, e accenna ai misteri e alle leggende che ancora avvolgono la medina. E poi c’è Pasolini. Nel 1966 l’intellettuale friulano aveva trascorso alcuni mesi in Marocco, per cercare l’ambientazione adatta al suo Edipo re. Catturato dal sapore autentico profuso dalla città, Pasolini era tornato a Salé un anno prima di morire. Un vero colpo di fulmine. Lo stesso Taia, rapito dalla grandezza della sua opera, racconta che Pasolini aveva scelto questo posto come soggetto e ambientazione per un nuovo film, e che qui aveva deciso di convertirsi all’islam. Non so quanto ci sia di vero in tutto questo. Forse sono solo voci, solo fantasie, sufficienti tuttavia a stuzzicare la mia curiosità e convincermi ad inseguire le tracce dei due letterati.
Mi lascio la stazione alle spalle e mi dirigo verso le vecchie mura che ancora circondano il centro della città. Risalgono all’epoca della dinastia merinide, più o meno la seconda metà del XIII secolo, quando Salé acquisì importanza sul piano commerciale ed il suo porto, di cui oggi è rimasto ben poco, divenne uno scalo irrinunciabile per gli europei che si avventuravano nella costa atlantica. La calce che riveste i bastioni, un tempo bianca e lucente, è ormai gialla e sporca, deturpata dagli scarichi del traffico cittadino. Supero Bab Fes e muovo i primi passi all’interno della medina. Di colpo mi ritrovo immerso tra i vicoli stretti e chiassosi del mellah, il quartiere ebraico, almeno storicamente. Quasi tutti gli ebrei del paese (circa 60 mila), infatti, hanno lasciato il Marocco dopo la "guerra dei sei giorni".
Sono le undici del mattino e nel mellah è l’ora del mercato, dei traffici e degli affari. Un formicaio di volti, merci e colori a cui non sono preparato. Ho in testa le storie di Taia. I suoi racconti rievocano la presenza dei corsari, che resero celebre e temuta la città per oltre tre secoli, fino all’arrivo delle potenze del nord, che ha poi aperto la strada alla colonizzazione. Si soffermano sui “santi”, le confraternite sufi e i marabut, che vegliano numerosi a protezione degli abitanti del luogo, gli slaouis. E’ questo che mi interessa adesso. Non è ancora il momento di abbandonarsi all’allegria del suk e di perdersi in contrattazioni infinite. La ricerca è appena cominciata e, per quanto astratta e immaginaria, sono deciso ha proseguire nel mio intento senza concedermi distrazioni. Così, supero velocemente le strade affollate del mellah e punto dritto verso la Grande moschea, il cuore spirituale della città. E’ lì che troverò i miei tesori. O almeno credo. La Grande Moschea si trova dall’altra parte della medina e, per arrivarci, bisogna oltrepassare decine di strade e stradine, che al mio occhio inesperto sembrano tutte inesorabilmente identiche. Perdo ben presto l’orientamento. Provo ad imboccare qualche via a caso, nella speranza di imbattermi in un monumento noto che possa servirmi da riferimento, o di ritornare al punto di partenza. Senza successo.
Il sole comincia a farsi sentire. Intorno a me non c’è nessuno, nessuno a cui possa rivolgermi per chiedere informazioni. Solo pareti candide e vecchi portoni stuccati, alcuni intarsiati con precisione ed altri abbandonati al degrado del tempo. L’atmosfera che si respira ha il gusto antico del mito e il sapore amaro della miseria. Senza farci troppo caso, vengo lentamente risucchiato dall’incanto che ancora aleggia dentro la città. Un fascino privo di coordinate e dimensioni.
La mia mente si perde in riflessioni e congetture quando un ragazzo magro e mal vestito si avvicina proponendomi il suo aiuto. Si chiama Abdelillah e fa la “guida clandestina”. Ogni mattina va alla ricerca dei pochi turisti che transitano da queste parti per offrire loro i suoi servizi. Così si guadagna la giornata. Probabilmente mi stava seguendo fin da quando ho lasciato il mellah. Il suo volto scuro è segnato da cicatrici, ai piedi porta delle ciabatte di plastica logore.
In Abdelillah riconosco subito i tratti del “ragazzo di vita”. Del resto, come scoprirò più avanti, anche lui è il prodotto di un sottoproletariato povero e violento, come i personaggi dei romanzi di Pasolini. I suoi capelli crespi mi fanno pensare al “Riccetto”. Sono sulla strada giusta. L’idea di proseguire la ricerca in compagnia di un autentico slaoui, probabilmente a conoscenza delle storie e dei racconti che vado cercando, non mi sembra così insensata. Accetto la sua proposta e ci incamminiamo assieme verso la Grande moschea, nella zona ovest della medina, quella che confina con il cimitero e poi con il mare. Abdelillah è nato lì, ne conosce ogni dettaglio.
Proseguiamo veloci, cinque minuti di marcia e siamo di fronte alla zawiya Sidi Ahmed at-Tijani. E’ la sede della Tijaniyya, una confraternita sufi ben radicata nel tessuto sociale del paese. Il sufismo è una caratteristica dell’islam marocchino. Almeno di quello autentico e popolare, non ufficiale. Con i suoi marabut (una sorta di santuari) e le sue confraternite, diffusi in tutto il territorio, si discosta dai canoni classici dell’ortodossia musulmana. La tariqa Tijaniyya è una organizzazione religiosa diffusa ormai a livello internazionale. L’accesso principale al misterioso luogo di culto è chiuso per lavori di ristrutturazione, ma dietro le impalcature si possono scorgere lo stesso alcune decorazioni in caratteri kufi (la calligrafia prende nome dalla città di Kufa, nell’attuale Iraq, altro importante centro legato alla confraternita). Abdelillah mi informa che i fedeli, i faqir (“poveri” in arabo), ogni giorno fanno il loro ingresso dalla porta secondaria sul retro, al termine della preghiera dell’alba, per compiere i rituali collettivi: è qui che si abbandonano alla danza e all’invocazione ripetuta del santo fondatore, per cadere in trance ed entrare in contatto diretto con il divino.
Superata la Tijaniyya, arriviamo alla Grande moschea. Il perimetro è vasto e, mentre lo percorriamo, Abdellilah va avanti con le spiegazioni: “la moschea ha sette ingressi. Sei porte più piccole, aperte a turno dal sabato al giovedì, ed una più grande, riservata al venerdì, giorno di preghiera comune”. Accanto all’immenso portale, rifinito in legno di cedro, c’è la medersa. E’ la più vecchia del Marocco, costruita all’inizio del XIV secolo dai berberi Merinidi, divenuti i sovrani di Fes. Anche la Grande moschea risale a quell’epoca. Le decorazioni a mosaico e gli stucchi raffinati che rivestono le colonne e le pareti dell’atrio permettono alla medersa di Salé, seppur di dimensioni modeste, di gareggiare in splendore con le altre scuole coraniche del Paese. “E’ perfino più bella della Youssufiyya di Marakkech”, commenta il mio "Riccetto".
Mi sto lentamente calando in quell’universo mistico che Taia lascia trapelare dalle sue opere. Gli abitanti di Salé dimostrano tuttora un vigoroso attaccamento al culto e alle pratiche religiose, tanto che la città, eclissata dai fasti della capitale, è considerata una delle roccaforti del tradizionalismo. Tuttavia, mentre la medina resta impregnata di una religiosità popolare, legata al sufismo, alla spiritualità e alla venerazione dei santi, i quartieri periferici hanno subito la penetrazione della predicazione salafita (“islamista”), più rigorosa e intransigente, ed in netto contrasto con la prima tendenza.
Proseguendo il cammino che dalla moschea conduce all’esterno delle mura, verso la piccola spiaggia, ci imbattiamo nel marabut di Sidi Abdallah Ibn Hassoun, il “patrono” della città. Da quattrocento anni viaggiatori e marinai oltrepassano la soglia del santuario e depositano una piccola candela colorata sopra la tomba del sufi, nella speranza di ricevere la sua benedizione e la sua protezione, o meglio la sua baraka.
Poco più avanti, oltre il cimitero sconfinato e sobrio che si estende per tutto l’angolo nord-occidentale della città, c’è un altro marabut. Un cubo bianco, all'apparenza spoglio, con il tetto dipinto di verde e una mezzaluna che spunta timida sopra la cupola. Il santuario di Sidi Ahmed Ben Ashir riposa solitario tra il cimitero e la spiaggia, di fronte all’immensità dell’oceano. “Era un dottore di origine andalusa, che arrivò a Salé all’inizio dell’Ottocento. Con strani unguenti e una profonda dedizione si dedicò alla cura dei folli”, spiega Abdelillah. Sono in molti a rivolgersi ancora oggi al “santo” per invocare la sua baraka. Taia, durante la sua infanzia, si ritrovava spesso ad accompagnare la madre fin dentro al marabut, dove questa si prendeva cura dei malati che lì trovavano rifugio durante la giornata. “Non so per quale motivo gli volesse così bene – scrive Taia – gli portava da mangiare, latte e datteri, e rimaneva per ore a parlare con loro. Percepivo una intimità che allora non riuscivo a comprendere e che a tratti invidiavo”.
Il mio sguardo si perde tra le migliaia di tombe disseminate attorno a me, in ogni direzione. Piccole lapidi grigie, bianche, rossastre, con inciso nome e data. Niente altro. Niente fiori, niente foto, niente altari, come se i morti che qui riposano da secoli appartenessero tutti alla stessa umile classe sociale. Abdelillah richiama la mia attenzione, invitandomi a proseguire il cammino. Sono soddisfatto dei risultati ottenuti finora dalla mia ricerca. Adesso però è arrivato il momento di abbandonare i “santi” e di mettersi sulle tracce dei celebri corsari che resero grande e temuta la città.
“Il luogo che stai cercando si chiama Suk El-Ghazel, ma prima di raggiungerlo voglio farti conoscere il fornaio del mio quartiere”, butta lì “il Riccetto”. Nelle strade che stiamo percorrendo, di nuovo all’interno della città vecchia, Abdelillah ha trascorso gran parte della sua vita. Dopo il matrimonio si è trasferito con la moglie nei sobborghi di recente costruzione. Incuriosito, accetto volentieri questa breve deviazione. Pochi passi e siamo già arrivati. Rachid ha un piccolo forno, nascosto dietro una porticina socchiusa, in cui cuoce il pane che le famiglie della zona preparano in casa. Sopra tavole di legno giacciono pile e pile di impasti rotondi, che Rachid ha accumulato nel corso della mattinata. Nelle ceste, invece, ci sono le pagnotte già cotte, pronte per essere riconsegnate alle famiglie. Dopo una chiacchierata e qualche foto, saluto il fornaio e lo lascio al suo lavoro.
Suk El-Ghazel è una piccola piazza situata più o meno nel centro della medina. A prima vista non sembra evocare nulla di così straordinario. Anzi, la definirei anonima. Sono le due di pomeriggio e in giro non c’è quasi nessuno. In realtà molte storie, vecchie e nuove, si intrecciano proprio in questo punto della città. Ci mettiamo a sedere e, con molta calma, Abdelillah inizia il suo racconto. “Suk El-Ghazel da decenni è il centro di riferimento di tutte le attività legate alla lavorazione della lana, una delle risorse principali di Salé. Un’antica tradizione che continua ancora oggi. E’ qui che al mattino arrivano i carri provenienti dalle regioni interne, dalle montagne del Medio Atlante”. Portano la lana grezza. Cumuli biancastri di tessuto vergine e maleodorante inondano il terreno, mentre i tessitori, proprietari degli atelier che si affacciano sul perimetro del mercato, analizzano la merce e danno il via alle contrattazioni. “I maestri artigiani poi la cedono ai laboratori di tintura. Una volta trattata, la lana ritorna ai tessitori che la trasformano al telaio in tappeti e coperte”. Gli chiedo dove siano finiti ora i carri, la lana e tutto il resto. “Il mercato finisce verso le undici, a volte alle dieci, se il carico di lana in arrivo è già venduto. Ma il pomeriggio, dopo la preghiera di al-Asr, il suk cambia volto. Le donne si siedono in cerchio all’ombra degli alberi e comincia l’asta per la vendita dei prodotti finiti, tappeti e coperte”, replica Abdelillah. Manca ancora un po’ alla terza preghiera della giornata, ma in effetti una ventina di donne, nascoste dietro i loro hijab, cominciano ad ammassarsi al centro della piazza.
Tuttavia, per spiegare l’importanza che Suk El Ghazel riveste nella storia della città occorre fare un passo indietro. Fino alla seconda metà dell’Ottocento, prima dell’interesse coloniale e della vittoria delle truppe federali nella Guerra di secessione americana, non erano i tappeti e le coperte che qui venivano messi all’asta, bensì gli schiavi. Gli Europei attraccavano le loro navi al porto di Salé o della vicina Rabat (un tempo chiamata Sla jdida, "Salé la nuova") per rifornirsi di manodopera destinata alle piantagioni del nuovo mondo. I mercanti del suk, a loro volta, acquistavano gli schiavi dai corsari, al rientro dalle spedizioni nell’Africa centrale. El Ghazel era uno degli anelli di congiunzione di quel “commercio triangolare” che caratterizzava la tratta degli uomini in catene. “Un perno vitale per i traffici che dal Seicento all’Ottocento legavano l’Europa all’Africa e all’America”, conferma Abdelillah, che continua a sorprendermi con le sue spiegazioni. Guardandolo in faccia non lo avrei mai creduto un così fine conoscitore della città.
Le attività dei corsari, però, non si limitavano alla compra-vendita degli schiavi. Per prima cosa, la “guerra di corsa” non deve essere confusa con la comune pirateria. Era una pratica regolata da codici ben precisi, da trattati che ne definivano zone e obiettivi. Questa attività dominò la scena mediterranea, almeno nella parte occidentale, dalla battaglia di Lepanto fino alla conquista di Algeri.
Era una guerra fatta di saccheggi, assalti e alleanze, a cui non si sottrassero nemmeno le flotte europee. I bottini, le mercanzie e i marinai appartenenti alle navi nemiche, servivano in parte a ripagare gli armatori e in parte venivano divisi tra l’equipaggio. “I corsari di Salé si lasciarono dietro prigionieri, vedove, orfani e bastardi. Si lasciarono dietro immensi tesori, nascosti da qualche parte nelle montagne dell’Atlante. Ma soprattutto, si lasciarono dietro, ben ancorati nella memoria popolare, dei racconti incredibili, storie favolose che non moriranno mai”, confessa Abdellah Taia in una delle sue prime opere, Le rouge du tarbouche.
Comincio ad essere stanco e il mio stomaco avanza proteste timide, ma inequivocabili. Così propongo una pausa pranzo. Entriamo in un ristorante alla buona, sporco al punto giusto e non lontano dalla piazza. Ci dividiamo un tajine di montone mezzo bruciacchiato e non troppo speziato. Inebriato dal forte odore di timo, cerco di saperne di più sul conto di Abdelillah. Siamo stati assieme quasi quattro ore, abbiamo percorso la medina in lungo e in largo, abbiamo inseguito assieme i “santi” e i fantasmi dei vecchi corsari, raccontandoci aneddoti sul passato della città e dei suoi abitanti. Ora vorrei conoscere un po’ meglio la storia della mia “guida clandestina”. I segreti che “il Riccetto” nasconde, dietro al suo volto assolutamente poco raccomandabile, mi incuriosiscono. Nel corpo porta i segni della violenza della miseria. Oltre alle cicatrici sulla faccia, ha il braccio sinistro inciso da decine di tagli.
“Ho trent’anni e faccio questo lavoro da quando ne avevo nove. A scuola ci sono andato poco e malvolentieri. Mia madre, allora, mi mandava a caccia dei rari stranieri che mettevano piede in città, per fargli fare il giro dei monumenti. Così portavo a casa qualche soldo”, mi confida tra un boccone e l’altro. “Ma all’inizio conoscevo a malapena i nomi delle strade. Poi ho capito che se mi fossi impegnato veramente, dai pochi spiccioli delle mance sarei potuto passare al guadagno vero. Mio fratello, prima di morire, aveva studiato parecchio e nella sua casa c’erano ancora un sacco di libri. Li ho presi ed ho iniziato a leggerli, per imparare più cose possibili sul passato di Salé e del Marocco in generale”.
Di nozioni, aneddoti, nomi e dinastie, Abdelillah ne sa tante, non c’è che dire. Ma essere una guida preparata non gli basta per assicurare una vita decente alla moglie e al figlio. Nel corso della chiacchierata, vengo a sapere che per arrotondare si dedica, di tanto in tanto, al commercio clandestino di hascisc. “Solo quando gli amici vanno a prenderlo direttamente nelle montagne del Rif”, tiene a precisare. E non è tutto. Dopo una breve parentesi in carcere, più o meno cinque anni fa, è diventato un informatore della polizia, al servizio del mokaddem (ministero dell'Interno) della città. Quelli come lui, da queste parti, si chiamano “orecchie del potere”. Così può portare avanti i suoi piccoli affari senza problemi, lo spaccio del fumo e il lavoro di faux guide, due reati per cui sono previste, da qualche anno, delle pene piuttosto severe.
Il tajine è finito e, mentre ci gustiamo quello che resta del digestivo (un rigoroso tè alla menta), Abdelillah mi fa capire che per lui è arrivato il momento di andare. Un sottile invito a mettere mano al portafoglio per dargli quel che gli spetta. All’inizio del giro, inebriato dall’entusiasmo e dalle aspettative della ricerca, non avevo pattuito alcuna cifra e solo adesso mi accorgo del grande errore commesso. Vuole 250 dirham, più o meno 25 euro, una tariffa da “americani”, secondo il gergo negoziale. Non ci siamo. Mi preparo ad una contrattazione serrata, come vuole il costume locale, e non ho alcuna intenzione di cedere. Le trattative vanno avanti per una mezz’ora, durante la quale il proprietario del locale ci offre un altro bicchiere di tè. Alla fine arriviamo ad un accordo: 100 dirham e mezzo pacchetto di Gauloises. L’altro mezzo lo conservo per il ritorno a piedi all'Océan, il simpatico quartiere di Rabat dove vivo ormai da alcuni anni. Lascerò perdere il treno e attraverserò il Bouregreg in una delle barchette a remi che fanno la spola tutto il giorno, per pochi spiccioli, da una riva all'altra.
Pago il conto, come stabilito. Lasciamo il ristorante e ci salutiamo con una calorosa stretta di mano, entrambi visibilmente soddisfatti. Abdelillah ha guadagnato ampiamente la sua giornata, ed io sono riuscito a penetrare parte dei misteri e delle leggende che avvolgono questa città in fondo ignota, soffocata dalla vicina Rabat e, proprio per questo, incredibilmente autentica.
Mi resta ancora un ultimo obiettivo prima di lasciare Salé. Raggiungere la spiaggia. Questa volta ho memorizzato bene le strade, percorse solo qualche ora prima assieme al “Riccetto”. Mi incammino lungo rue al Qashashin, una via stretta e invasa dall’immondizia, che taglia in due la medina come un perfetto asse perpendicolare al mare. Arrivo alla Grande moschea, poi ai marabut ed entro nel perimetro del cimitero. Superata l’ampia distesa di lapidi spoglie, avanzo a passi circospetti nella sottile lingua di sabbia che separa i bastioni della città dall’oceano. Il sole è già basso all’orizzonte. I suoi raggi rimbalzano sulla superficie liscia dell’Atlantico come saette, mentre alla mia sinistra la casbah, antichi bastioni a protezione del porto corsaro, risplende di una luce irreale. Il riflesso del sole ha velato le pareti gialle di una tinta rossastra. Nella piccola baia, una manciata di barche sta rientrando adagio verso la foce del fiume.
Pier Paolo Pasolini si rifugiava ogni sera di fronte a questo spettacolo, stregato dalla purezza di Salé e dalla semplicità genuina dei suoi abitanti. Qui aveva trovato dei nuovi “ragazzi di vita” e l’esaltazione di quel misticismo popolare descritto con passione nelle prime opere in dialetto friulano. Ora la mia ricerca è davvero finita. Mi siedo sulla sabbia ancora calda e aspetto il tramonto in silenzio, come era solito fare il nostro grande poeta.