Sciolti
L’arte dei sogni: la psicografia di Sinclair
di Teresa Merone
C’è un momento preciso nella vita di uno studente o una studentessa di Lettere o Lingue in cui ci si ritrova a dover ascoltare, in ore diverse, da professori diversi, in tipi di letteratura diversa, uno stesso concetto ribadito più e più volte: i leitmotiv del Novecento.
Parlando del Novecento non si può non menzionare l'ansietà dovuta alle due Guerre Mondiali, non si può che parlare della caduta di ogni certezza, della fine del Positivismo e (tirate ad indovinare) di Sigmund Freud. Non parlare di Freud significherebbe non parlare di questo periodo e poco importa che un autore lo apprezzi o lo condanni, l’importante in fondo è che se ne parli.
Freud è il filo di Arianna, noi Teseo e la letteratura novecentesca è il labirinto.
Senza di lui, non ne usciamo.
Hermann Hesse, l’autore su cui vorrei soffermarmi in particolare, non solo si avvicinò allo studio dei testi di Freud ma fece pratica delle sue teorie terapeutiche, poiché spesso ricoverato presso il sanatorio a causa dei suoi esaurimenti nervosi. E il Demian, scritto nel 1917 e pubblicato nel 1919, è un esempio lampante del suo approfondimento soprattutto riguardo il sistema dell’inconscio, la teoria degli istinti e l’importanza dei sogni. L’aspetto su cui vorrei puntare l’attenzione, però, riprendendo anche gli studi di Jung, è lo sviluppo e l’analisi di questo pensiero attraverso il personaggio principale del Demian, che a dispetto del titolo, è Emil Sinclair.
Sinclair, riassumendo per sommi capi, è un bambino (e poi giovane adulto) combattuto tra il Mondo della Luce, rappresentato dai valori della famiglia e dell’etica sociale, e il Mondo dell’Oscurità, della perversione sessuale, dell’infamia, del furto e della menzogna. Mondi eternamente opposti ma riuniti nella figura di Abraxas, spunto religioso che, insieme al Marchio di Caino, ricama intorno a Demian e Sinclair (e successivamente anche intorno alla madre di Demian, Eva) un limite che si frappone tra loro e il resto dell’umanità. Ma il vero filo conduttore che percorre tutta la narrazione, è il fatto che Emil sembri combattere contro una spinta sessuale famelica, che lo porta ad una smania continua, alla bisessualità, ad una irrequietezza che troverà sfogo nella pittura, centro focale di questa trattazione:
“Fra tutti i nuovi esercizi coi quali cercavo di esprimere i miei nuovi sentimenti, uno assunse particolare importanza: mi misi a dipingere. [...] Quanto più cercavo di figurarmi il volto della giovane che incontravo spesso per strada, tanto meno arrivavo a buoni risultati. Infine rinunciai e mi misi a dipingere un viso qualunque, seguendo la fantasia e le indicazioni che derivavano spontaneamente dal lavoro iniziato, dal colore, dal pennello. Ne venne fuori un viso sognato, del quale non fui malcontento. Ma tosto ripresi il tentativo, e ogni nuovo foglio parlava un linguaggio più chiaro e si accostava al tipo se non al soggetto. [...] Un giorno, quasi senza volere, tracciai finalmente un viso che mi parve più eloquente dei precedenti. Non era il viso di quella fanciulla e non voleva nemmeno esserlo. Era un’altra cosa, un che di irreale, ma non per questo meno prezioso. Pareva più una testa di ragazzo che di fanciulla, i capelli non erano biondi come quelli della mia bella, ma castani con una sfumatura di rosso, il mento era forte e saldo, le labbra rosse e floride e l’insieme un po’ legnoso come una maschera, ma pieno di vita segreta e impressionante. [...] Quel viso mi diceva qualcosa, era roba mia, esprimeva qualche postulato. E assomigliava a qualcuno, ma non sapevo a chi. [...] E una mattina, destandomi da quei sogni, lo riconobbi. Pareva mi conoscesse come una madre e mi guardasse sempre. Con un gran batticuore contemplai il foglio, quei capelli castani e fitti, le labbra quasi femminili, la fronte alta singolarmente chiara, e sempre più mi accorsi di riconoscere, di ritrovare, di sapere[...] Era il viso di Demian.” (p. 63)
Il disegno, come il sogno, se compreso e analizzato in modo adeguato può diventare un percorso "preferenziale" per l’interpretazione del mondo interiore dell’individuo, dei suoi conflitti, della capacità dello stesso di poter affrontare determinate difficoltà. La differenza sostanziale tra sogno e disegno è che il primo è comprensibile mediante un lavoro riguardante le libere associazioni, mentre il disegno è sondabile solo mediante l’uso che il soggetto fa dello spazio bianco del foglio. Riportando questo assunto al caso di Sinclair, ci accorgiamo che il protagonista non si accontenta solo di riportare su tela la realtà oggettiva ma si autorappresenta, si mescola con i suoi sentimenti e la sua ossessione sessuale per Demian. Sinclair sembra assimilare un concetto di Jung, secondo il quale l’artista moderno esprime le proprie visioni interiori per individuare il fondo spirituale della vita.
“In che modo viene espresso il rapporto tra conscio e inconscio nell’opera degli artisti moderni?”, “Non potrebbero i sogni essere usati per risolvere problemi fondamentali della vita? Io credo che l’apparente dissidio fra sogno e realtà possa risolversi in una specie di realtà assoluta, la surrealtà” (Jung, “L’uomo e i suoi simboli”, pag. 257). Ovviamente, Sinclair è egli stesso una copia su carta di Hesse e di conseguenza una creatura che incarna non solo una realtà interiore individuale, ma una realtà che può essere ricondotta al momento storico in cui Hesse viveva e si sentiva proiettato. Volendo delineare il quadro situazionale con parole autorevoli basterà citare Kandinsky: “[...] tutto a un tratto caddero le mura più formidabili. Tutto si rivelò instabile, incerto, insicuro. Non sarei stato sorpreso se una pietra si fosse disciolta in aria davanti ai miei occhi” e Paul Klee “Quanto più terrificante diventa il mondo tanto più l’arte si fa astratta; un mondo retto dalla pace produce arte realistica”.
L’artista moderno, e lo stesso Sinclair, quindi non si limita a riprodurre ciò che vede ma assimila, interiorizza e riproduce ciò che percepisce, cercando di rendere “concepibile” ciò che invece è pura astrazione, proiettando sulla tela una parte di ciò che ha impressionato la sua psiche.
“A ogni invocazione il volto dipinto si tramutava al chiarore della lampada. Diventava vivido e luminoso, diventava cupo e nero, chiudeva le palpebre smorte sugli occhi spenti, le riapriva lanciando occhiate ardenti, era donna, uomo, fanciulla, era un bambino o un animale, si restringeva in una macchia, ridiventava grande e preciso. Infine, seguendo un forte invito interiore, chiusi gli occhi e guardai l’immagine dentro di me più forte e più potente. Avrei voluto inginocchiarmi, ma era così affondata in me che non potevo più staccarla, come fosse diventata tutta me stesso”.
Sinclair sembra dipingere in uno stato di trance, stato in cui il mondo conosciuto sembra svanire del tutto. Come un pittore votato all’astrattismo riesce a prendere coscienza dei moti interiori, da cui è soggiogato, solo dopo un lungo periodo di vera convivenza con il viso impresso sul foglio. Emil è l’artista, è il paziente e l’analista, colui che crea e che trova il senso di ciò che crea:
“Stetti a guardare quando la luce era già spenta. E a poco a poco mi accorsi che quello non era Beatrice né Demian, ma...io stesso. L’immagine non mi somigliava (capivo che non doveva neanche somigliare) ma era ciò che costituiva la mia vita, era il mio cuore, il mio destino o il mio demone. Sarebbe stato l’aspetto della mia amante, se un giorno ne avessi avuta una”.
Il “travaglio” della creazione artistica affonda le radici nelle prime fasi del vissuto, lì dove il corpo e la scoperta del corpo si uniscono alle sensazioni date dalle cure della madre, all’essere toccati, accarezzati, lì dove si cerca di dar forma al Mondo attraverso le prime relazioni con l’oggetto. L’esperienza estetica è quindi ricollegabile alla figura della madre che trasforma e plasma l’esperienza interna ed esterna del bambino. Con la crescita questo “potenziale trasformativo” viene poi riposto in altri oggetti concreti o concettuali, investiti della capacità di promuovere un profondo cambiamento del Sé.
La creatività è uno dei cardini dello sviluppo umano, poiché permette la connessione tra il proprio mondo immaginativo e quello esterno, in modo da rendere possibile a ciascuno di plasmare il proprio destino, il confine tra realtà e fantasia, recuperando l’illusione che il mondo esterno possa essere domato, che i sentimenti possano prendere forma, gestiti e proiettati al di fuori del loro creatore.
“Tosto ritornò il sogno del portone e dello stemma, della mamma e della donna estranea: e di quest’ultima vidi i lineamenti con tanta lucidità che quella sera stessa incominciai a delinearne il profilo. Quando, pochi giorni dopo, quel disegno fu compiuto in un quarto d’ora di sogno e quasi d’incoscienza, lo attaccai alla parete, vi accostai la lampada e stessi a guardalo come uno spirito col quale dovessi combattere fino a una decisione. Era un volto simile al precedente, somigliante all’amico Demian e in qualche tratto a me stesso. [...] Rivolgevo domande a quella figura, la accusavo, la accarezzavo, la adoravo. La chiamavo mamma, amante, sgualdrina, la chiamavo Abraxas”.
L’immagine acquisisce caratteristiche transizionali, è contemporaneamente percepibile fuori da sé ed intriso del sé. Il ricongiungimento con sensazioni passate ma non sbiadite, il ricordo non conscio del vissuto più arcaico presuppone delle percezioni e degli stati emotivi spesso non esprimibili, o non esauribili, verbalmente. Quindi ciò che viene creato non è mai solo traduzione di un pensiero astratto o rappresentazione, ma è espressione inconscia di un vissuto rielaborato e riformulato attraverso i colori e i movimenti del pennello. Sinclair è in balia dei due Mondi, è in balia degli impulsi naturali che, attraverso gli occhi che gli ha dato la società, sembrano mostruosi. Ama Eva, la ama come una madre e come donna, ama Demian, come sé stesso e come uomo, e non può contrastare una forza così devastante come quello dell’istinto sessuale. Lo stringe, lo soffoca e ne rimane sempre violentemente scosso. Una lotta impari. Sinclair è quel viso sulla tela, Eva è quel viso, lo è Demian. Sono tre in uno, uniti da un destino e da un Marchio.
E Sinclair non se ne libererà.
L’amore molesto, il viaggio interiore di Elena Ferrante
di Pia Elena Caprioli
Nell'incipit de L'amore molesto, il corpo di una donna galleggia nella risacca del litorale di Spaccavento. Inizia così l'indagine retrospettiva della Ferrante nell'immaginario di una ragazzina raggomitolata sulla soglia di tormentosi ricordi che si intrecciano a fantasie infantili lontane nel tempo...
Elena Ferrante, un nome che di sfuggita avevo colto molte volte, un suono familiare eppure completamente sconosciuto, fino a quando, un bel giorno, ho deciso di arricchire la mia libreria con un titolo che ha catturato la mia attenzione suscitando in me, a primo impatto, un insolito senso di smarrimento, misto a una tacita e misteriosa angoscia, come un brutto presentimento.
Si tratta di L’amore molesto, il primo romanzo di E. Ferrante, pubblicato nel 1991, da cui è tratta l’omonima pellicola di Mario Mortone. Questo romanzo ha ottenuto un successo immediato fin da subito, in Italia e nel mondo, nonostante l’identità dell’autrice sia completamente sconosciuta e il suo nome sia in realtà uno pseudonimo. L’amore molesto vince anche il premio Elsa Morante, che l’autrice non va a ritirare personalmente. Non è mai apparsa in televisione, e le rare interviste rilasciate sono state sempre mediate, ad esempio dall’editore. Si sa soltanto che è nata a Napoli e che ha vissuto a lungo all’estero. Di conseguenza, sono state avanzate varie ipotesi, tirando in ballo nomi sia femminili che maschili di autrici o autori conosciuti, o sostenendo addirittura che un gruppo di loro abbia creato una scrittrice fittizia per conferire all’opera una nuova forma. Ad ogni modo, non conoscendo l’identità di Elena Ferrante, non sappiamo nemmeno se si tratti di un uomo o di una donna, quindi bisogna tener presente anche l’importanza del rapporto maschile/femminile: potremmo infatti essere davanti a una scrittura femminile prodotta da mano maschile. Naturalmente, nascondere l’identità dell’autrice costituisce anche un’operazione commerciale, che ha infatti provocato numerosi dibattiti, perché in una società come la nostra, dove si è sempre al centro dell’attenzione e qualsiasi cosa è ormai alla portata di tutti, sembra quasi inaccettabile che una scrittrice così famosa continui a preferire l’anonimato. In una lettera inviata all’editore di questo primo romanzo, l’autrice spiega che preferisce far parlare i suoi libri, perché l’importante è l’opera, non chi l’ha composta. È chiaro qui il riferimento letterario alla tradizione della differenza tra autore e narratore.
“Una volta scritti, non hanno bisogno dei loro autori […] Io amo molto i volumi misteriosi, antichi e moderni, che non hanno un autore preciso, ma che hanno avuto e continuano ad avere un’intensa vita propria”.
Inizio la mia lettura, e dopo il frontespizio mi imbatto nella dedica: “a mia madre”. Il mio sgomento cresce, per culminare nell’incipit del romanzo e mantenersi vivo in ogni pagina:
“Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, nel tratto di mare di fronte alla località che chiamano Spaccavento, a pochi chilometri da Minturno”.
Comincia così il racconto, tutto in prima persona, dell’amore molesto di Delia verso la madre Amalia, mai chiamata mamma nel corso del romanzo, annegata il giorno del compleanno della figlia. Tutto il racconto è ambientato a Napoli, anche se Delia non vive più nella sua città natale, da cui è fuggita rifugiandosi a Roma. La mattina del 23 maggio, dopo tre agghiaccianti e insolite telefonate ricevute il giorno prima dalla madre, che sarebbe dovuta partire per Roma, Delia si trova di fronte al corpo livido e seminudo di Amalia, che indossa solo un reggiseno. Dopo il funerale, Delia decide di trattenersi a Napoli per cercare di ricostruire gli ultimi giorni di vita della donna. Inizia così una lunga indagine che conduce Delia e i suoi lettori attraverso una città cupa e grigia, in una corsa a perdifiato attraverso i luoghi che hanno caratterizzato l’infanzia di Delia e che riaprono in lei ferite mai rimarginate, un viaggio fisico e mentale tra passato e presente. La narrazione procede infatti in un’atmosfera onirica e simbolica, mescolando pensieri, ricordi, incubi e realtà, e portando Delia a rivivere i momenti più tragici della sua difficile infanzia, che ha generato in lei quel male di vivere che la caratterizza. Tutto ciò che ha sempre cercato di seppellire nel punto più profondo di se stessa, costringendo la sua mente a dimenticare senza mai riuscirci del tutto, ritorna con prepotenza e con più forza di prima, nella misura in cui viene rivissuto da una Delia ormai adulta, ma in fondo ancora bambina. Il romanzo si sviluppa infatti in una duplice dimensione: la Delia adulta dovrà tornare alla Delia bambina per capire e riappropriarsi dell’immagine della madre, per crescere e diventare finalmente autonoma.
È dunque il rapporto madre-figlia, burrascoso e complesso, il punto focale del romanzo, e questo non è certamente un caso. Dopo più di vent’anni trascorsi dal dibattito femminista degli anni’70, in cui il ruolo della madre venne messo in crisi perché accusato di collaborare con il sistema patriarcale nel processo di formazione dell’identità delle figlie come nuove procreatrici, questo rapporto torna al centro dell’attenzione. Il processo critico femminista, scaturito dal fatto che le figlie non trovavano nelle madri - figure caste e sacre, di grande autorità ma allo stesso tempo escluse dalla vita pubblica - dei modelli nei quali identificarsi, ha portato successivamente a una riconsiderazione della figura materna e a una nuova idea del rapporto madre-figlia tra gli anni ’80 e ’90, analizzando gli elementi storico-culturali che avevano indotto le madri ad agire così nei decenni precedenti. Già con gli anni ’80 compaiono quindi una serie di romanzi dedicati alla maternità, in cui emerge una nuova idea della figura femminile e del rapporto madre-figlia. Mettere in crisi la figura materna vuol dire far scaturire sia un sentimento di odio che di denigrazione, entrambi elementi che troviamo in questo romanzo. L’affetto di Delia verso la madre è irrisolto e contraddittorio, al limite del desiderio fisico. Delia ama ed odia Amalia con la stessa intensità, restando imprigionata in questa sinistra contraddizione. L’ansia della Delia adulta la riporta all’ansia della Delia bambina, quando si tormentava in attesa del ritorno della madre, in un attaccamento insicuro, per il quale sa che la madre può uscire da casa, ma non è certa che ritornerà. “Se tardava, l’ansia diventava così incontenibile che debordava in tremiti del corpo”. Anche da adulta, Delia non può fare a meno di preoccuparsi ogni volta che la madre tarda il suo arrivo a Roma, e le telefona con ansia, rimproverandola con durezza. La madre viene odiata e poi denigrata, e quando anche viene accettata, non fa mai nulla di giusto, sbaglia sempre. Questi sono gli elementi del femminismo anni ’70, e con queste premesse va letto L’amore molesto.
Il viaggio di Delia attraverso Napoli, sempre confusionaria e caotica, rispecchia dunque il viaggio all’interno di se stessa, attraverso una memoria che pian piano va ricostruendosi. Riemerge un’infanzia fatta di rancori familiari, di menzogne e di traumi. Fondamentalmente, Amalia appare enigmatica e impenetrabile alla Delia bambina a causa del padre che, sospettoso e violento, trasmette alla figlia la gelosia morbosa nei confronti della madre, oggetto di un costante controllo e di un amore molesto da parte di tutti coloro che la circondano, come lo zio Filippo, suo fratello, che invece di proteggerla è complice delle violenze perpetratele dal marito, o come il signor Caserta, distinto amico di famiglia, che continua a inseguirla fino alla vecchiaia, quando l’antico capriccio si è ormai trasformato in un’ossessione. Anello di congiunzione tra queste malsane relazioni è il corpo di Amalia, di cui Delia racconta in qualche modo la storia, dalla giovinezza sino alla vecchiaia. Amalia era bruna e bellissima, curiosa e sorridente, e i capelli le brillavano “come la pelle di una pantera”: queste erano le sue colpe, per le quali veniva ripetutamente colpita dal marito, che le proibiva di ridere in presenza di uomini, di truccarsi, di vestirsi con cura. E così anche Delia la riveste di fantasie viziose, sempre timorosa di essere abbandonata, sospettando l’esistenza di una vita segreta da cui lei è esclusa, di un amante che si appropria di tutte le carezze e di tutto l’amore che spetterebbe a lei. Credo che, inconsciamente, Delia abbia sempre considerato la madre colpevole piuttosto che vittima innocente, per cercare di allontanare il dolore che le provocavano le sue stesse fantasie. Ed è proprio un tradimento inventato da Delia bambina a scatenare il profondo senso di colpa che spinge Delia adulta a comprendere le ragioni del suicidio della madre, che sembra quasi una vendetta giocata su un piano simbolico: suicidandosi, Amalia decide di negare la propria presenza alla figlia, così che ella possa affrontare il suo passato; soltanto in questo modo può esserci una nuova nascita di Delia. Eppure questo senso di colpa non viene compreso dalla protagonista per molti anni, perché non ricorda più nulla a furia di imporsi di dimenticare. Si chiede se la madre l’abbia voluta punire suicidandosi la notte del suo compleanno perché da adulta ha continuato a rifiutarla, decisa a non volerle assomigliare.
“Accadeva dopo che negli anni, per odio, per paura, avevo desiderato di perdere ogni radice in lei, fino alle più profonde: i suoi gesti, le sue inflessioni di voce, il modo di prendere un bicchiere o bere da una tazza, come ci si infila una gonna, come un vestito, l’ordine degli oggetti in cucina, nei cassetti, le modalità dei lavaggi più intimi, i gusti alimentari, le repulsioni, gli entusiasmi, e poi la lingua, la città, i ritmi del respiro. Tutto rifatto per diventare io e staccarmi da lei. […] Nessun essere umano si sarebbe staccato mai da me con l’angoscia con cui io mi ero staccata da mia madre soltanto perché non ero riuscita mai ad attaccarmi a lei definitivamente”.
È l’incontro con suo amico d’infanzia, Antonio Polledro, il figlio di Caserta, a permetterle di ricordare: ha solo cinque anni, quando il vecchio padre di Caserta la molesta nello scantinato polveroso della pasticceria, pronunciando parole oscene. La Delia bambina, che desidera possedere sua madre fino al punto di essere lei, di identificarsi con lei e di emularla, aiutata anche dalla forte somiglianza somatica, proietta le molestie ricevute su Amalia. Assistiamo a una sovrapposizione di immagini: la bambina molestata diventa la madre che tradisce il padre. È una verità alterata perché la Delia bambina è arrabbiata con la madre che la abbandona alle violenze del vecchio. Delia parla del tradimento inventato al padre per quello che percepisce come tradimento della madre nei suoi confronti, ma che allo stesso tempo soddisfa le sue pulsioni infantili incestuose. In questo caso, la bugia di Delia rappresenta l’omicidio simbolico di Amalia, che la bambina percepisce violentemente: la madre viene picchiata a sangue, mentre il padre e lo zio si vendicano su Caserta. Per questo rinuncia a tutto quello che appartiene alla madre, alla sua somiglianza con lei. Proprio durante il tempo trascorso con Polledro capiamo quanto Delia abbia soppresso la propria femminilità e la propria sessualità, contrapponendo una frigidità quasi assoluta a quella sessualità materna che le aveva sottratto, nella sua immaginazione, l’amore a lei spettante.
“Amavo Caserta con l’intensità con cui m’ero immaginata l’amasse mia madre. E lo detestavo, perché la fantasia di quell’amore segreto era talmente vivida e concreta, che sentivo che non avrei mai potuto essere amata allo stesso modo: non da lui ma da lei, da Amalia. Caserta si era preso tutto quello che spettava a me”.
Quando finalmente Delia giunge alla fine del suo viaggio, si immedesima un’ultima volta con Amalia indossando il suo tailleur blu, l’unico in buono stato, che la madre portava prima di suicidarsi. In questo modo riesce a pensare come Amalia, a rivivere i suoi ultimi attimi, i suoi ultimi gesti, accorgendosi di aver vissuto, fino a quel momento, una vita sovrapposta a quella della madre, di non aver mai avuto una propria identità, scoprendo improvvisamente che Amalia in lei c’era sempre stata, nonostante il suo rifiuto, e che non aveva bisogno di rincorrerla: “Io ero Amalia”, conclude Delia.
Questo finale inconsueto e ambiguo, lascia libero il lettore di riflettere sul traguardo raggiunto da Delia. Secondo la mia personale interpretazione, sicuramente la figlia è riuscita a riscattare la madre e a liberarsi dal senso di colpa che la opprimeva; Delia perdona se stessa, cosciente che quella fosse soltanto la bugia di una bambina di cinque anni, influenzata da adulti talmente accecati da amori malati da dare per scontato la veridicità della confessione. Per far questo, ha dovuto in un certo senso perdere la propria identità, sia per ricostruire gli ultimi giorni della madre, sia per ricordare il passato anche attraverso gli occhi di Amalia; allo stesso tempo, è proprio dopo aver introiettato la madre dentro di sé che riesce a riscoprire la propria identità e a liberarsi di lei, abbandonando qualsiasi sovrapposizione. Delia e Amalia diventano due persone distinte, e soltanto allora, consapevole del proprio essere, Delia può accettarne le somiglianze, al punto da modificare con un pennarello la fotografia del proprio documento di identità, disegnando attorno ai suoi lineamenti la pettinatura della madre. Alla fine del romanzo, seduta ad ammirare quello stesso mare che pochi giorni prima le aveva portato via Amalia, Delia è finalmente libera di accettare la propria identità pur mantenendo un legame fisico con la madre, di riscoprirne una certa affinità attraverso una definitiva liberazione.
Doveroso sottolineare la pienezza dello stile potente e unico che caratterizza il narrare della Ferrante, utile a rendere con estrema chiarezza le sensazioni di Delia. La sua scrittura è materia e intensità: ardua e abbastanza artificiosa, non sempre scorre veloce, ma sicuramente si tratta di un effetto voluto, perché rispecchia perfettamente la complessità della vicenda. La pagina è molto densa e ogni oggetto o situazione ha una sua importanza ai fini della narrazione. La penna dell’autrice corre insieme alla protagonista attraverso il caos della vita umana, ad un ritmo che toglie il respiro.
Dopo aver chiuso il libro, con quel misto di soddisfazione e dispiacere con cui si diventa consapevoli di aver vissuto un’altra vita che, come tutte, si è conclusa, ho provato un senso di oppressione e di sfinimento. Era come se io stessa avessi respirato l’aria umida e afosa della città, correndo per quelle strade. Sicuramente è questo l’effetto che l’autrice aveva intenzione di suscitare nel lettore, che attraverso quelle complesse e intense pagine continua a sperare in un finale rivelatore e salvifico. Quando finalmente si giunge alla risoluzione finale, per il lettore è troppo tardi. O almeno, lo è stato per me, che mi sono ritrovata stremata dall’ansia e dalla difficoltà di comprendere invano, su un piano razionale, un intreccio violento e angosciante. Questo romanzo mi ha mandato letteralmente fuori di testa, ma quando finalmente ho capito che nulla poteva essere compreso senza calarsi in un abisso di irrazionalità e sentimenti confusi, tutto mi è apparso sorprendentemente più chiaro. Ho provato un senso di pienezza infinita, e ho capito che è proprio ciò che non si limita ad essere semplice e lineare a rendere la vita così interessante.
Pia Elena Caprioli
Il mondo cauchemardesque dei Sortilegi di Michel de Ghelderode.
di Ilaria Biondi
Michel de Ghelderode è uno dei più importanti esponenti del fantastico belga (quella che lo studioso J.B. Baronian denomina école belge de l’étrange), benché la sua raccolta Sortilèges et autres contes crépusculaires rappresenti la sua unica incursione in questo genere letterario. L’opera, composta tra il 1939 e il 1940 viene pubblicata nel 19411 e riscuote immediatamente un grande successo di pubblico, mentre la critica la trascura a lungo a favore delle opere teatrali ghelderodiane, finché lo scrittore Franz Hellens non afferma che queste rêveries hallucinées rappresentano la parte più significativa della sua produzione. Lo stesso Ghelderode si sente molto legato a queste “storie meravigliose e terribili” e si rammarica di non poter consacrare più tempo alla stesura dei contes, forma narrativa che affonda le sue radici nell’inconscio collettivo e di cui l’uomo ha una necessità primordiale.
Il fantastico di Sortilèges è profondamente ancorato alla tradizione folklorica delle Fiandre gotiche, medievali, con le loro feste e le loro leggende popolate di fate e gnomi, un mondo lontano e perduto al quale lo scrittore viene iniziato fin da piccolo grazie alle storie raccontate dalla madre e che egli cerca di far rivivere in tutta la sua magia. Da questo universo di meraviglia Ghelderode eredita e assorbe in modo particolare la credenza secondo la quale gli oggetti portino impressi i segni di chi li ha creati e posseduti, potendo pertanto agire in modo malefico o benefico a seconda delle forze di cui sono stati investiti, quali muti testimoni del mistero del mondo. Nei dodici racconti di Sortilèges il fantastico si manifesta sovente proprio attraverso oggetti apparentemente inerti, che fanno parte della vita quotidiana e che a un tratto, inaspettatamente, si animano provocando un senso di malessere e inquietudine nel protagonista, come la statua della vergine nera in Nuestra Senora de la Soledad, che inspiegabilmente incrocia lo sguardo stupefatto dell’io narrante e incomincia a parlare in fretta, pur mantenendo le labbra serrate, come se stesse infrangendo un sacro divieto.
Il fantastico (da non confondersi con altre forme di letteratura dell’immaginario come il meraviglioso, il fantasy o la fantascienza) è caratterizzato dall’irruzione di un evento anormale, insolito e impossibile all’interno di un universo familiare, quotidiano, conosciuto e ordinato.
I racconti, narrati tutti in prima persona, si presentano come un enigma da risolvere, in cui il protagonista (e il lettore insieme a lui) si dibatte tra due possibili spiegazioni, una logica e realistica che fa appello al raziocinio e una totalmente irrazionale che contrasta con le conoscenze comunemente acquisite. Il protagonista-narratore, pur avendo una naturale propensione per ciò che è insolito e bizzarro, non accetta di primo acchito la motivazione soprannaturale, esitando a lungo tra essa e quella dettata dalla ragione e dal buonsenso comune, ritornando continuamente sui propri passi, incapace di decidersi, anche se alla fine tende a far prevalere il proprio penchant irrazionale (proprio nella compresenza di due soluzioni possibili, di due probabilità in contraddizione l’una con l’altra e che si annullano reciprocamente risiede il fulcro della narrazione fantastica). Da una parte il lettore è spinto a credere che il protagonista abbia per davvero sperimentato avventure fuori dalla norma come l’intervento di figure demoniache e spettrali, l’incontro con la Morte, il miracolo di statue e manichini di cerca che si animano, l’impossibile balzo indietro nel tempo che lo fa assistere a un’esecuzione capitale. Dall’altra egli tende a dubitare della veridicità di questi strani eventi ascrivendoli ad un’alienazione temporanea dell’io narrante, ad un’alterazione dei suoi sensi dovuta al sogno, alla febbre, all’alcool ma anche all’immersione in un paesaggio inquietante, tenebroso e brumoso, che perde i propri confini netti e favorisce lo spaesamento e lo smarrimento.
Questi racconti, in linea con la struttura canonica della narrazione fantastica, sono improntati a un forte realismo di fondo, ottenuto grazie all’utilizzo di un vocabolario preciso e a descrizioni accurate degli scenari nei quali si muovono i personaggi, espediente narrativo con funzione rassicurante, finalizzato a convincere il lettore a sospendere il proprio scetticismo, a dimenticare la propria incredulità, in modo da farlo scivolare impercettibilmente, quasi senza rendersene conto, dalla dimensione conosciuta della quotidianità a un “altrove” ignoto in cui non valgono le leggi di concatenazione causale. Con raffinata e complessa maestria narrativa lo scrittore insinua già in questo scenario verosimile degli indizi che conducono il lettore, in un crescendo lento ma inesorabile, nel territorio fantastico: piccole crepe, lievi dissonanze che segnalano in modo non troppo scoperto quanto i contorni di quel contesto reale non siano così netti e definiti.
Nel racconto Il giardino malato l’io narrante, che presenta l’avventura come un fatto realmente accaduto nell’anno 1917 e da lui registrato nelle pagine del suo diario personale, raffigura accuratamente la dimora denominata Hôtel de Ruescas, illustrandone struttura e dimensioni, stile architettonico, disposizione interna (mobilio e decorazioni) e spazio esterno. Anche la camera dove alloggia l’io narrante è descritta con precisione, ma i tratti di vetustà, sporcizia, trascuratezza, senso di abbandono alludono indirettamente al carattere inquietante del luogo:
«La mia stanza deve essere stata usata come salotto, poiché è situata a mezzogiorno e riceve la luce da tre alte finestre. La posta doppia si apre sulla scala, che conduce in giardino con gradini smurati. Il soffitto è decorato con angioletti e ghirlande di stucco grigiastro. Le pareti divisorie conservano la vecchia tappezzeria, adorabilmente stinta; il caminetto di stile Luigi XVI, benché traballante e ricoperto da uno spessore di sudiciume, conferisce un tono all’insieme. Il pavimento sembra di ebano. Tutto è completamente fatiscente, ma regge ancora, e se l’interno impone l’idea della decadenza, quella della rovina è assente. Le porte hanno conservato i vetri imprigionati in una quadrettatura che ha perso la doratura. Questi vetri brumosi catturano la luce e spargono nella stanza un chiarore indiretto e spettrale, che guardo incantato. Dimenticavo il lampadario, abbandonato dai vecchi locatari, o piuttosto lo scheletro di un lampadario, radici di bronzo da cui si sfilacciano rade lacrime di cristallo.»2
Lo sforzo di far apparire il più verosimile possibile l’evento strano che di colpo fa irruzione nel quotidiano si estrinseca anche nella pretesa autenticità dei fatti avanzata dal narratore3: scegliendo di raccontare in prima persona, egli si presenta al contempo anche come protagonista, come testimone oculare che ha assistito agli eventi descritti. Spesso il narratore, con chiaro atteggiamento di captatio benevolentiae, segnala apertamente il carattere anomalo dei fatti riportati, cercando di prevenire eventuali dubbi e perplessità del destinatario (senza per questo negarne la veridicità fattuale, anzi indirettamente rimarcandola), come in Il diavolo a Londra:
«Riconosco di dovergli una strana avventura, che riferisco senza falsa vergogna né finta umiltà.»4
In Nuestra Senora de la Soledad il narratore si garantisce la buona fede del lettore tramite una procedura antifrastica: afferma che non gli interessa essere creduto proprio per ottenere l’effetto contrario, perché il suo intento è di far soccombere il lettore, farlo cadere in trappola, far sì che gli si affidi completamente:
«Una volta però assistetti a un miracolo, o un evento del genere, riguardo al quale non è mia intenzione persuadere nessuno.»5
I racconti crepuscolari sono pertanto simultaneamente collocati su due piani, quello della realtà concreta, tangibile, conosciuta e quello difficilmente definibile dell’ignoto e del soprannaturale, e sono strutturati secondo un medesimo schema: l’elemento perturbatore si intrufola nella routine quotidiana e provoca un forte malessere nel protagonista, stato d’animo potenziato dalle caratteristiche del luogo, seducente e inquietante, seducente anzi perché inquietante. Il disagio, il turbamento evolve pian piano verso la paura, che si fa angoscia insopportabile, soprattutto in alcuni racconti dai toni cupi come «Ti hanno impiccato!» il cui protagonista, per un inspiegabile sovrapporsi di piani temporali, rivive il momento cruento dell’impiccagione di un uomo morto molti anni addietro. Il racconto è costellato da termini appartenenti al campo semantico della paura, in un crescendo che va dall’inquietudine all’angoscia, fino a raggiungere il suo acme in un insostenibile orrore:
«Era ancora notte fonda e fuori, nel vapore fitto, s’intravedevano alcuni aloni giallastri e le movenze fantomatiche degli alberi spogli. […] In quel momento ritornai pienamente cosciente; fu allora che l’angoscia mi colpì senza pietà, trafiggendomi il petto. Cercai di gridare, ma avevo la gola chiusa e non fu dalla mia bocca che uscì quel grido irrefrenabile, un grido pietoso, il mio grido, che udii risuonare altrove, nella piazza; un grido così pietoso che mi fece raggelare. Ero testimone di uno spettacolo abietto e terribile! Il carro si era fermato esattamente dov’era la piccola forza, sotto la quale si affrettavano alcune ombre, in un incrociarsi di lanterne palpitanti. Cercai di alzarmi per sfuggire al tormento di quella visione, ma ero paralizzato […].»6
Il paesaggio sinistro e maledetto de Il giardino malato, con la sua vegetazione malefica che invade e inghiotte ogni angolo e cela fra le sue pieghe oscure creature ripugnanti che hanno perduto le sembianze umane e un gatto orribile e demoniaco ribattezzato Tétanos dal protagonista, è in preda alla follia, al disordine selvaggio e alla malattia. Questa natura che ritrova la sua forza originaria e primitiva è minacciosa e misteriosa e trascina il protagonista nel suo delirio e nella sua angoscia:
«La notte che seguì … non posso raccontare come la trascorsi; sarebbe il racconto di un demente. Obiettivamente ci provo. […] Ho chiuso la porta e le finestre che danno sul giardino, perché l’odore sotto il cielo immobile dopo il dramma del pomeriggio, aveva su di me l’effetto di un veleno. Una specie di orticaria mi fa soffrire; mi gratto senza sosta. La mia stanza è illuminata male; ho solo tre candele; vorrei che ne ardessero cento; ma sarebbe sufficiente per dissipare quest’atmosfera da cripta? […] Dapprima, in lontananza, in capo al mondo, un lamento. […] Poi i gemiti sono aumentati, si sono fatti più vicini, senza che potessi capire da dove arrivavano[…] I lamenti provenivano da un luogo più profondo del suolo, più lontano del nostro mondo; venivano dall’inferno. Tétanos agonizzava. Quel maledetto ritornava agonizzante per tormentarci.»7
In altri racconti il soprannaturale viene quasi invocato dal protagonista, come squarcio attraverso il quale sottrarsi a un mondo e a un’esistenza insoddisfacenti, impressi dal segno del grigiore, della noia, della pesantezza, del vuoto cosmico. Così ne Il diavolo a Londra, in cui l’eroe-narratore, che si muove in una città asfittica, sudicia e maleodorante, popolata da creature che sembrano manichini viventi, va alla ricerca dell’anormale, e arriva a formulare il desiderio di incontrare il diavolo, preso da un sentimento ambiguo e contraddittorio, dove il piacere si mescola all’inquietudine:
«I peggiori nemici dell’uomo, dopo l’uomo stesso, sono i microbi; e tra i microbi più nocivi quello della noia resta il più pericoloso, quello contro il quale esistono solo rimedi empirici. […] Vagavo in un cupo e brumoso mattino per non so più quale sordido quartiere di magazzini, una sorta di fetido fondaco e di asfissiante meandro lungo il fangoso Tamigi. Piovigginava. Gli individui che incrociavo avevano facce da banditi o da malati. […] Quel mattino la noia m’impregnava a tal punto, come l’acquerugiola in cui si materializzava, che arrivai ad augurarmi di poter essere testimone di un qualche disastro, come uno spaventoso terremoto della crosta terrestre o un ciclone dalla forza rovinosa. […] «Com’è insopportabile l’eternità se è amministrata da altri che non sia il diavolo!» Bestemmiavo e me ne rendevo conto, ed ero ancora più colpevole, perché non avevo bevuto niente che avesse potuto offuscare la mia lucidità; rimanevano solo un pensiero quelle idee empie, che non preferivo, perché sta scritto che non bisogna tentare il diavolo. Ma mi accorsi d’un tratto del pericolo che sta nell’evocarlo, anche solo col pensiero! In verità in quell’istante preciso cominciò per me un’avventura, che non si sarebbe verificata se non avessi sconsideratamente nominato l’infernale potenza, latente in tutto l’universo.»8
Le strane visioni quando non terrificanti allucinazioni originano sovente da uno stato di rêverie. Quasi tutti i protagonisti dei racconti crepuscolari amano trascorrere gran parte del loro tempo dormendo, immersi nel sogno o in uno stato ambiguo, a metà strada tra il sonno vero e proprio e la veglia, misterioso limbo onirico nel quale l’individuo sperimenta l’incontro e la comunione con le forze soprannaturali e con i propri fantasmi interiori.
Così confessa beatamente il protagonista de Il giardino malato:
«1 agosto. Sogno molto. Non ho forse coltivato l’arte di dormire, vegliando in piedi e con gli occhi aperti, in modo da non vivere quasi mai nella realtà?»9
Sovente l’eroe passa continuamente, e impercettibilmente, da uno stato all’altro perciò è difficile stabilire se egli sia sveglio e stia realmente vivendo ciò che racconta oppure se dorme e se si tratti pertanto solo di illusioni, di chimere partorite dalla sua febbrile immaginazione. Questo annullamento dei confini tra sonno e veglia suscita dubbi e incertezze nel lettore, che ignora in quale dimensione si stia muovendo, sperimentando quella sensazione di disorientamento e perplessità che è propria della narrazione fantastica.
Contrariamente alla più classica tradizione del racconto fantastico (erede del romanzo gotico o romanzo nero) che eleva la notte al momento più favorevole per l’emergere del soprannaturale, quando le forze della ragione si addormentano e le creature e le cose rivelano il loro volto oscuro e temibile, i dodici racconti allucinati di Sortilegi, in linea con tanta produzione belga, si muovono in questo enigmatico entre-deux crepuscolare (come sottolinea esplicitamente anche il sottotitolo della raccolta10), momento di sospensione, soglia equivoca di passaggio dalla luce alle tenebre in cui tutto può succedere, pertugio grazie al quale l’insolito fa breccia nell’esistenza del protagonista e l’incredibile prende inspiegabilmente forma.
Il paesaggio di Sortilegi è caratterizzato da questo costante chiaroscuro, condizione propizia allo sprofondare del protagonista nei meandri onirici, in completa solitudine. Seppur inquietante e angoscioso, questo scenario è quello che si attaglia perfettamente al suo modo di essere. Esso provoca angoscia in lui o forse è, al contempo, riflesso e proiezione dei suoi mostri interiori. Un universo angoscioso, opprimente e soffocante, dominato dal grigiore della nebbia e dell’acquerugiola e vittima di un lento, ma inesorabile processo di decomposizione e distruzione. I luoghi sono degradati, vetusti, maleodoranti e il soffio della morte aleggia ovunque, come in Crepuscolo:
«Pioveva dall’alba. La mia stanza, non più chiara di una catacomba, puzzava per l’umidità come una cripta, dove stavo ad ammuffire, guardando lacrimare i vetri, con la sensazione di gonfiarmi a poco a poco, per via dell’acqua che assorbivo attraverso i pori. Quella pioggia sembrava essere eterna. L’odore che regnava intorno a me era quello dei vecchi cantieri, e l’odore che emanava il mio corpo, perché anch’esso puzzava, era quello che si portano dietro i vagabondi sotto i loro stracci.»11
O ancora in Nebbia:
«È stato lo scorso dicembre, nell’ora equivoca in cui il mio borgo s’illumina di tutte le sue luci, prima che il breve giorno finisca. Il suolo riluceva e i passanti scivolavano via come su uno specchio unticcio, sdoppiati dalla loro ombra […]. Appena raggiunsi la piazza del comune, in cui sfocia la strada, mi trovai immerso nella nebbia, senza che l’avessi vista arrivare. […] Chi cammina nella nebbia ha spesso l’impressione di vagare in sogno, ed è quello che dovevano provare i funamboleschi passanti che incrociavo. Quanto a me, avevo piuttosto l’impressione di avanzare nell’acqua o per lo meno su un terreno che si stava sciogliendo.»12
Un universo in cui anche il sole, quando c’è, non illumina, non porta sollievo, non mitiga la paura, rende anzi più soffocante, oppressiva e irrespirabile l’atmosfera. Il calore insopportabile che grava sul giardino e sull’Hôtel de Ruescas non fa altro che aggravare gli odori purulenti del luogo, accelerare la putrefazione delle creature che si celano nei punti più bui e nascosti del giardino e aggravare la sensazione di angoscia che attanaglia il protagonista:
«15 agosto. Il caldo tropicale non smette d’infierire. La vegetazione fuma dalla mattina alla sera; a mezzogiorno sembra colare, come una lava verdastra, e l’odore di magma, che sprigiona la terra, cresce d’intensità. È come la narcosi. Il mio olfatto è così debole che non sento più niente? Questo trionfo estivo mi relega in uno stato di permanente nostalgia e mi fa sentire di piombo; la luce eccessiva mi avviluppa, come un sudario, e la poca ombra delle stanze, dove entro solo per noia, non mi è di nessun aiuto. Non mi sono mai sentito più vicino al vuoto, al niente che il giardino malato offre al mio sguardo.»13
La stessa prostrazione avvince il protagonista in Lo scrivano, che ama trascorrere le sue giornate in un luogo claustrale chiamato il Beghinaggio, in silente compagnia di una statua di cera che riproduce un antico scrivano di nome Pilatus. Questo luogo bizzarro esercita il suo ambiguo fascino su di lui ancor più nelle giornate di primavera diventando un rifugio quieto e consolante, dove sfuggire alla morsa invadente del sole:
«Venne maggio e il mondo fu improvvisamente invaso da una luce così viva da restare accecati. Quella rinascita mi valse, come sempre al risveglio della linfa, furtive vertigini e una sorta di malessere simile al mal di mare e che poteva chiamarsi mal di cielo. È in quello stato di spossatezza che resi a Pilatus una visita che credetti l’ultima per parecchio tempo, deciso ad attendere dentro casa, in completo riposo, che la stagione si temperasse. Ricordo quella visita, in un crepuscolo malva così intenso che la natura pareva magnetica e e le cose raggianti. Colmo di stanchezza per quel primo sole sferzante, avevo trascorso la giornata a rimuginare i ricordi della mia infanzia senza gioia […].»14
Questi racconti amari e tragici, in cui si respira una malinconia nostalgica, una crudeltà sbeffeggiante, un’inquietudine allucinata, in cui ci si muove in uno spazio solitario, popolato di figure fuggevoli e inconsistenti e di creature spettrali ai limiti del mostruoso, del deforme, del grottesco, un enfer sur terre vittima dell’umidità purulenta, del calore soffocante e dell’insopportabile luce accecante, ispirati da una crisi esistenziale profonda e dolorosa che Ghelderode attraversa in quegli anni e che corrisponde alla sua rinuncia ufficiale al teatro, trascinano il lettore in un clima d’angoscia morbosa che esercita su di lui un profondo incantamento. Un paesaggio d’ombra, nebuloso, inquietante e agonizzante, funebre e sepolcrale che sa splendere però come rara pietra preziosa e che incarna forse il punto più alto e luminoso della sua arte.
1 La raccolta viene ristampata nel 1947, ma con una modifica importante: il racconto Eliah le peintre viene espunto e sostituito da un altro racconto, L’odeur du sapin.
2 Le citazioni sono tratte dalla seguente edizione: Michel de Ghelderode, Sortilegi. Racconti (a cura di M. Raccanello), Rimini, Panozzo, 2001. La citazione di cui sopra è alle pagg. 37-38.
3 Elementi “testimoniali” come il succitato diario personale de Il giardino malato nel quale vengono rigorosamente annotati i fatti esperiti servono ad incrementare il presunto grado di veridicità e affidabilità delle parole del narratore.
4 Sortilegi, op. cit, p. 19.
5 Sortilegi, op. cit., p. 120.
6 Ibid., pp. 153-154.
7 Ibid., Pp. 62-63
8 Sortilegi, pp. 19-20.
9 Ibid., p. 48.
10 Ci riferiamo qui al titolo originale (Sortilèges et autres contes crépusculaires) e non già alla traduzione italiana, nella quale il riferimento alla dimensione crepuscolare non figura (Sortilegi. Racconti).
11 Sortilegi, op. cit., p. 133.
12 Ibid., 124-125.
13 Ibid., p. 54.
14 Ibid., p. 11.
Il Dottor Živago: esistenza individuale e collettiva
di Giusy Aliperti
“Io non amo la gente perfetta, quelli che non sono caduti, non hanno inciampato. La loro è una virtù spenta, di poco valore. A loro non si è svelata la bellezza della vita.”
Un romanzo storico come Il dottor Živago va assaporato. È uno di quei libri che vanno letti con la coscienza di star leggendo qualcosa di importante, qualcosa di unico, una testimonianza di qualcosa che noi, oggi, non possiamo neanche immaginare.
Nel turbinio della vita sopraggiunge la morte: fin dalla sua prima pagina il Dottor Zivago presenta la dicotomia che tiene in vita il romanzo, l’alternarsi vicendevole di un’esistenza sempre segnata da opposte vicissitudini. L’affannoso amore per la vita del suo protagonista, Juri Andrevic Zivago, che impariamo a conoscere e ad amare lentamente, si scontra perennemente con l’afflato della morte che imperversa nel romanzo, scuotendo i personaggi costretti a reinventarsi pur di sopravvivere. L’incedere luttuoso del protagonista apre l’opera:
“Andavano e sempre camminando cantavano eterna memoria, e a ogni pausa era come se lo scalpiccio, i cavalli, le folate di vento seguitassero quel canto”.1
La scomparsa della madre di Zivago dà il la a una storia di amore e guerra, raccontata e dilatata in venti anni; da scenario lo specchio di un paese, la Russia, che si confronta con i demoni interni, la Rivoluzione, ed esterni, la Grande Guerra.
Sembra semplice riassumere il Dottor Zivago, ma non lo è. L’opera si avvale di una complessa struttura personaggesca e con incredibile profondità e verosimiglianza cala i personaggi nel vortice della storia, mostrando magistralmente come storia individuale e storia collettiva siano in fondo un tutt’uno e come, senza necessità di scomodare psicologi ed economisti, le esistenze si intersechino dipendendo le une dall’altra, all’alba di un grande sfondo, senza le quali non sarebbero state quel che sono diventate. Il coro di voci che compone il romanzo parte da lontano: segue un giovanissimo Juri e una giovanissima Lara in vite che sono apparentemente parallele, ma che la storia farà diverse volte incrociare, sfiorare per poi legare fino al tragico e finale dissolvimento.
L’avventura del giovane medico contiene elementi contrastanti: per un verso è possibile notare una sorta di acquiescenza di Zivago nei confronti dell’esistenza, un pacifismo spesso confondibile con l’inettitudine (anche il matrimonio con Tonia sarà effettivamente combinato e non scelto), dall’altra si evincono invece rimasugli di una mente sempre viva e protesa alla conoscenza. Una conoscenza in questo caso dualistica. Di un dualismo che il lettore intenderà sempre in maniera ottimistica e mai al contrario: ambizione di Jura è conoscere lo scibile umano, l’arte come la medicina, la letteratura come la scienza. Emblematico è il passo presente nella parte seconda del libro in cui viene citato Faust, che assurge a simbolo e ad esempio dell’eterna condizione dell’uomo proteso verso il tutto, ma costretto a dover ammettere di non poter conoscere ogni cosa:
“Come vorrei, accanto al lavoro, alla fatica campestre o alla pratica medica, produrre qualcosa che resti, qualcosa d’importante, opera d’arte o scienza che sia! Ogni uomo nasce Faust per comprendere tutto, tutto provare, tutto esprimere. Perché Faust fosse scienziato ci fu bisogno degli errori dei predecessori e dei contemporanei. Nella scienza ogni passo avanti si fa in base alla legge della repulsione, abbattendo gli errori dominanti e le false teorie.”2
La quiete fisica funge da contraltare al suo animo sempre ben disposto verso qualsiasi forma vivente. Unica scossa dal proprio esasperante pacifismo è la conoscenza di Lara: la incontra per caso negli anni e uno strano torpore lo risveglia, ogni volta, dalla propria quiete. In quell’incedere progressivo e vitale del sentimento, si fa strada a poco a poco l’amore di Jura, fino a diventare assoluto e necessario. In maniera diversa si dispiega invece l’esistenza di Lara: angelica per forme e modus vivendi, è costretta a scendere a compromessi con la vita fin da subito. Diventa amante dell’avvocato Komarovskij, sposa il giovane Antipov senza confessargli la verità sul suo passato, convincendolo anzi a cambiare paese.
La sua esistenza sembra portare scompiglio ovunque si trovi, in opposizione a quella del giovane Jura che regala serenità a chi lo circonda.
Il primo incontro tra i due si verifica dinanzi ad un tetro evento:
“Jura si guardava in giro e vedeva le stesse cose che poco prima avevano colpito lo sguardo di Lara. […] Una candela ardeva sul tavolo, una candela ardeva…” sussurrò Jura fra sé. Era il nascere di qualcosa di confuso, di ancora informe. Forse il seguito sarebbe venuto da sé, senza sforzo. Ma non venne.”3
Jura e Lara sono sempre portati ad allontanarsi; la giovane donna lascerà la città per Juratin arrecando un’inconsapevole infelicità nel giovane marito Antipov, “non era lui che Lara amava, lo capiva, ma solo la propria nobile missione verso di lui, la personificazione del suo sacrificio.”4 Da questo momento i fatti narrati si immergeranno maggiormente nella storia del Novecento. Ed è nella storia, nei suoi avvenimenti probanti del secolo nuovo che i due protagonisti si rincontreranno. La Prima Guerra Mondiale prepotentemente accompagnerà e guiderà Lara e Jura nel loro scontro e nella nascita del loro amore: “Il vento muoveva le pagine delle lettere e dei giornali. Si udirono dei passi leggeri. Jurij Andrevic sollevò gli occhi. Era entrata Lara.” 5
Impossibile non riconoscere nel protagonista Zivago un alter-ego di Boris Pasternak. E se alter-ego può apparire un’iperbole, allora è possibile affermare di riconoscere in Zivago una serie di matrici di pensiero appartenenti a Pasternak; come non notare la continua ribellione, il continuo sarcasmo nei confronti delle idiosincrasie interne al comunismo e al suo agire?
“Voi siete sin d’ora invitato alla mia fucilazione”, sono le parole che Pasternak utilizza quando consegna il manoscritto a Sergio D’Angelo, consulente della casa editrice Feltrinelli per l’Unione Sovietica. L’opera è ideologicamente inaccettabile per gli standard russi. Lascia trapelare le lotte interne che si tenevano nel partito comunista, espone mediaticamente agli occhi del mondo un cambiamento poco limpido rispetto a ciò che appariva. Il Kgb segue e spia per anni Pasternak, ma – emblematica della storia che accompagnò lo scrittore – è la sorte che gli toccò quando vinse il Nobel: osteggiato nel suo Paese, non poté ritirarlo e morì due anni dopo in solitudine. 6
E’ quindi impossibile non riconoscere all’interno del romanzo i continui rimandi, il continuo allontanarsi dell’autore/protagonista al modus operandi comunista:
“Questo nuovo era la guerra, col suo sangue e i suoi orrori, la sua barbarie e la vita randagia che imponeva. Erano le esperienze maturate e la saggezza di vita che la guerra insegnava. Erano le città lontane dove la guerra lo aveva sbattuto e gli uomini con i quali l’aveva fatto incontrare. Era la rivoluzione, non già la rivoluzione idealizzata nelle università, maniera 1905, ma l’attuale rivoluzione, nata dalla guerra, sanguinosa, la rivoluzione dei soldati, che se ne infischiava di ogni altra cosa, diretta dai soli esperti di quella furia degli elementi, i bolscevichi.”7
“Finché l’ordine delle cose aveva permesso ai privilegiati di fare stranezze e capricci a spese dei non privilegiati, come era stato facile prendere per originalità e per segno di carattere la stravaganza e il diritto all’ozio di cui la minoranza godeva, sicura della pazienza della maggioranza!”8
“Tutti hanno la mania di verificare se stessi sulla prassi, e gli uomini di governo, invece, per mantenere la leggenda della propria infallibilità, fanno di tutto per voltare le spalle alla verità. La politica non mi dice nulla. Non mi piacciono gli uomini indifferenti alla verità.”9
Altre due sono caratteristiche evidenti nel romanzo: il richiamo all’evangelismo di Tolstoj e la corrispondenza esatta tra mondo fisico e mondo interiore. Il lungo e perenne inverno dell’opera è lo stesso inverno che spegne e contrae l’animo dei personaggi.
Fin dalle prime pagine, lo zio del giovane Jura, NikolaJ Nikolajévich Védéniapin, ex sacerdote, scrittore e filosofo, si fa promotore di un cristianesimo vicino agli uomini, lontano dai tumulti dei preti, capace di avvicinare tutti gli esseri umani per pietas ed egualitarismo. Nobile è la storia e la vita che sceglie di tendere a Dio. Non a caso Pasternak aveva amato Tolstoj e nei suoi anni giovanili gli aveva dedicato pensieri e riflessioni. L’opera è nutrita di sensibilità cristiana per l’accettazione della propria sorte e nel rifiuto della guerra come forma di violenza necessaria per arrivare ai propri scopi.
“C’era la pomposa, morta eternità dei monumenti di bronzo e delle colonne marmoree. Solo dopo Cristo, i secoli e le generazioni hanno potuto respirare liberamente. Solo dopo di lui, è cominciata la vita nella posterità e l’uomo non muore più per la strada, ma in casa sua, nella storia, nel pieno di un’attività consacrata a vincere la morte, dedito lui stesso a questa impresa.”10
Dio che si fa uomo, il panismo che diventa panismo cristiano: Dio in tutte le cose del creato e non solo nell’alto dei cieli.
“Ed ecco che in quell’orgia pacchiana d’oro e di marmi, venne lui, leggero e vestito di luce, ostentatamente umano, volutamente provinciale, galileo, e da quel momento i popoli e gli dei cessarono d’esistere e cominciò l’uomo, l’uomo falegname, l’uomo agricoltore, l’uomo pastore tra un gregge di pecore al tramonto, l’uomo il cui non nome non suonava minimamente fiero, l’uomo celebrato con riconoscenza da tutte le ninne nanne materne e da tutte le gallerie di pittura del mondo.”11
Il Dottor Zivago fu l’unica opera di grande successo di Boris Pasternak (le altre si inseriscono nelle correnti letterarie “modaiole” del secolo): pubblicata per la prima volta in Italia, ha avuto un seguito di portata mondiale. È stato negli anni tradotto in più di venti lingue. L’opera, nel suo apporto finale, si avvale di composizioni poetiche composte dall’autore che, nel romanzo, saranno invece frutto della vena letteraria di Jura, composte nel corso degli anni. Il romanzo non manca – pur non rinnegando lo statuto insindacabile di capolavoro – di mostrare anche una certa vena di romanzesco. Romanzo e romanzesco si tengono insieme con un equilibrio magistrale; il romanzesco (basti pensare al finale dell’opera, la figlia di Lara e Juri, lavandaia durante la Seconda Guerra Mondiale che racconta la propria sorte a Gordon e Dudorov, amici di vecchia data del defunto padre) non intacca il romanzo (il verosimile che non necessita di connessioni e trame sentimentali troppo ardite da feuilleton) che si avvale di una struttura magniloquente, di una scrittura sempre salda e di una sinfonica componente immaginifica. Lo scenario pungente della Russia innevata accompagna, oltre che i personaggi, anche i lettori, è lo specchio di animi sempre oscillanti, sempre pensierosi, di desideri e sofferenze. Paesaggi ed animi sono perpendicolari. Nel suo significato più imminente e profondo, Il Dottor Zivago mostra senza censure l’inutilità e il paradosso di un movimento e di una rivoluzione che furono incapaci, nel quotidiano, di arrecare giovamento – inteso come levigare le sofferenze e distendere la gioia – ad un popolo che si ritrovò poi oppresso dai suoi stessi santi:
“Si accorsero allora che solo la vita simile alla vita di chi ci circonda, la vita che si immerge nella vita senza lasciar segno è vera vita, che la felicità isolata non è felicità”12.
1 B. Pasternak, Il Dottor Zivago, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 9
2 Ivi, p. 233
3 Ivi, p.70
4 Ivi, p. 91
5 Ivi, p.105
6 La storia è raccontata da Paolo Mancosu in Zivago nella tempesta e segue l’intricata vicenda di pubblicazione del romanzo
7 B. Pasternak, Il Dottor Zivago, cit. p.133
8 Ivi, p. 142
9 Ivi, p. 213
10 Ivi, p. 15
11 Ivi, p. 41
12 Ivi, p. 143
La provincia e i suoi peccatori
di Alberto Piccini
Tre storie di corna in una cattolicissima cittadina veneta, Treviso, dove ognuno pensa ai fatti degli altri e dove i tradimenti sono la regola sottintesa, anche se il divorzio non c'è ancora e probabilmente non servirebbe a niente.
Una vittoria a Cannes per l’Italia dal primo giorno c’è stata: il restauro di un film che ha 50 anni sulle spalle ed una Palma d’Oro ex aequo con “Un uomo una donna”, film che ebbe molto più grande eco, e che forse apre più dibattiti oggi che al tempo della sua presentazione. “Signore e signori” di Pietro Germi, ha negli anni ricevuto gli stessi onori della rivalutazione dovuti al suo regista. Un film inusuale per la sua scansione basata su tre episodi che vedono agire i medesimi personaggi, visti come un insieme provinciale e borghese, cui parentele, studi in comune e frequentazioni (in primis quella della chiesa) fanno da collante. Tre episodi che non hanno titolo e dei quali il primo risulta essere quello di maggiore importanza, per l’opera di presentazione e di designazione dell’ambiente e delle figure. L’allegria che traspare dai personaggi – meno falsa di quello che una commedia borghese potrebbe far supporre – viene dalla consapevolezza di vivere un’epoca decisamente più doviziosa e in certo modo più spregiudicata delle precedenti.
Ride e accenna un’aria d’opera infatti, il medico di fama che si prepara ad una serata di sabato, compiaciuto della molto più giovane moglie e dei simboli del suo successo. A confermare la sua gioia serotina, l’arrivo di un amico già noto come instancabile seduttore che, a testa bassa, ne richiede i servigi di medico, per un’incresciosa situazione di impotenza. Le promesse di visite, analisi, ispezioni, sono recitate tra risate e pacche sulle spalle del depresso amico, ma rimandate ad altri giorni, la serata e la notte devono essere onorate. Via via che le autovetture degli invitati si approssimano al luogo dell’invito, la buona società di questa cittadina veneta (la riconoscibilissima Treviso) si delinea nei suoi vizi, virtù e legami segreti. Toni, il playboy colpito dall’improvvisa sciagura virile, ha per moglie una patronessa che detta legge tra chiese e istituti caritativi; due signore maritate si disputano i favori di un indolente scapolo, contando sull’ignavia dei consorti, un tardo impiegato di banca vive una vita coniugale da succube. Tali schermaglie, ben sostenute da montagne di pettegolezzi e maldicenze nemmeno travisati, divengono il vero piatto forte della cena in piedi dove tutti sono riuniti, compreso Scarabello, uno strano celibe logorroico e importuno che si è autoinvitato per la disperazione dei presenti. Il calderone della polenta, cibo tradizionale da secoli per le genti euganee, fa quasi “tendenza” nel salone signorile della villa, dove esiste anche un juke box a disposizione e svariati divani, oltre i quali le coppie clandestine si coricano, immediatamente avvistate. Durante il ballo si verificano tentativi piuttosto scoperti di seduzione, sventati dalla vigilanza di mariti accorti o semplicemente dalle moleste chiacchiere di Scarabello.
Il tono di Germi, pure registrando tante note grossolane, non si getta nella satira corrosiva né si fa sprezzante: l’andamento che mantiene è quello dell’opera buffa, della risata appena repressa. E neppure degenera la festa, malgrado qualche intrusione di amanti in cerca di una minima intimità nelle camere degli anziani padroni di casa. Sul tardi, quando la compagnia si spezza e solo i più audaci decidono di organizzare una scorribanda verso il mare (imitazione di una scena della “Dolce Vita”, che già Germi aveva utilizzato per termine di paragone per i sognanti spettatori paesani), altri ripiegano verso casa. Tra loro la moglie dell’illustre professor Castellan, il clinico, che volentieri l’affida all’ormai notoriamente innocuo Toni.
La chiusura di serata è molto sottotono: un nightclub vuoto di clienti, una scenata incresciosa fra le due contendenti della serata e le infinite concioni dell’ottuso Scarabello, che diviene suo malgrado il deus ex machina della vicenda. Dal suo torrente infinito di chiacchiere, emerge una storiella che in altro contesto sarebbe solo banale: un’avventura in un alberghetto equivoco, con due squillo e Toni come compagno di bagordi, dieci giorni prima. La corsa disperata verso la città, verso il talamo forse violato è drammatica, con ciclisti ubriachi sulla sede stradale e rischi di schianto a non finire. Infine, Toni sta facendo compagnia alla bella signora Castellan, ma il suo muso depresso e disfatto la dice lunga sulla malattia che lo affligge. Ancora di più dice però il disordine della sua persona, con un paio di bretelle ancora sganciate e si rischia di assistere, lontano dalle abituali locations di Germi, ad un delitto d’onore. Poiché l’opinione pubblica è tutto e lo scandalo è dietro l’angolo, non resterà al furente professore che fingere, accompagnando a casa il noioso Scarabello, cantando lo stesso pezzo d’opera accennato in apertura di serata.
Il secondo episodio – che presenta numerosi riscontri con “Atti impuri” di Goffredo Parise, riguardo a vicenda ed ambienti – ha invece esordio in una cornice diurna, in un consesso di professionisti e commercianti che possono perdere qualche mezzora della mattinata ai tavolini di un caffè, al solito ammirando le belle donne di passaggio e deridendo amici e nemici. E si parte dall’oggetto di alcune loro risate, il ragioniere Visigato, già incontrato insieme alla torva moglie nel precedente episodio. Il ragioniere, un Gastone Moschin goffo e balbettante, lo si vede fare la spola tra la filiale bancaria e un caffè, dove si perde nel suo amore muto per la bellissima cassiera, interpretata da Virna Lisi. Al di fuori del microcosmo della banca e del caffè (entrambi gli ambienti li si vede frequentare da monsignori ossequiati), per il mite impiegato c’è il suo inferno domestico, di un deprimente interno piccolo borghese, popolato dalla moglie sciatta e astiosa e da due figli che transitano veloci senza neppure salutare. Le schermaglie con la giovane cassiera sono più dolenti che buffe e quasi è deluso il patetico corteggiatore del suo successo, che viene presto. E presto viene l’occasione di vivere una giornata di intimità, con la scusa di un raduno alpino, per il quale il buon ragioniere si agghinda calzando il cappello con la penna, in un rigurgito di virilità. Gli alberghetti compiacenti sembrano far parte della topografia provinciale e vi si serve la chiave del paradiso di una stanza discreta con l’ultimo bicchiere: senonché è proprio la licenza per gli alcolici che provoca la sosta di un camion di ex alpini che, riconosciuto il vecio, lo trascinano in una kermesse di bevute, al canto funereo della Vojussa e proprio pare che “la meglio gioventù” del già deluso fedifrago vada “sottoterra” come nell’inno. La domenica è però destinata a cambiare il corso di più vite: al ritorno la ringhiosa moglie sbandiera una lettera anonima, addirittura in rima, che denuncia l’amore proibito. Tanto basta perché il mite e represso Visigato, ancora ebbro dei tanti brindisi, scateni la collera dei timidi, devastando casa e malmenando la donna.
Fatto ciò, irrompe sulla piazza principale e agli amici riuniti ai tavolini, bene edotti della vicenda, confessa la propria decisione di mettersi con la bella Milena. La virata di bordo del ragioniere sconvolge l’intera città: i soliti bene informati formano il coro greco della tragicommedia e commentano la Spider acquistata tempestivamente a suon di cambiali, l’improvvisa protervia verso concittadini e colleghi, le reazioni isteriche e masochistiche della moglie che giunge a regalare abiti e biancheria del fedifrago (in primis il cappello alpino simbolo del tradimento).
Mentre i due amanti vivono le varie tappe della clandestinità, residenza in squallide camere ammobiliate, colazioni e pranzi di cappuccini, richiami delle autorità, progetti di fuga all'estero, la città fa il vuoto attorno. Gli amici si defilano senza neppure troppe scuse, la famiglia, ben supportata da tonache di alto livello, ha agio di interrompere i canali vitali dei due irregolari, intervenendo sulla direzione della banca e mettendo in piazza il passato della giovane. Quando viene convinta a lasciare la città per destinazione ignota, al disgraziato ragioniere non resta che tentare un gesto estremo, gettandosi dal Palazzo che domina la piazza dei Signori, ma dando anche il tempo ai vigili del fuoco di approntare un provvidenziale telone. E un altrettanto provvidenziale ricovero in una clinica per malattie nervose penserà a restituirgli dignità e salute, cassando il suo innamoramento come la conseguenza di un vizio mentale passeggero.
La terza storia è nuovamente corale ed ha un filo conduttore che è donna, anche se in una parte pressoché muta. In un affollato giorno di mercato, la giovanissima campagnola transita armata di un tubo di gomma arrotolato “a spallarm”, come notano gli attenti signori dai negozi o dai bar e che forse il regista ha voluto assumere a simbolo fallico di una vitalità vischiosa e come si vedrà pronta a propalarsi per ogni dove. Ammira golosa le vetrine, si fa notare appunto da un commerciante che le impone quasi di provare un paio di scarpe, naturalmente nel retro bottega, dal quale riemergono reciprocamente soddisfatti. Un giro di telefonate partito appunto dal negozio avverte l’intero “giro” della presenza di una ragazza tanto bella e disponibile. Durante la giornata intera, visiterà ben ripagata una mezza dozzina di letti borghesi e ripartirà sull’ultima corriera serale. Tuttavia, nei giorni seguenti, il grosso contadino che le si indovina padre, batte il centro alla ricerca di qualcosa che gli sfugge e che deve sapere. Neutralizzato dall’ultimo “cliente” della sfacciata figlia (il professor Castellan, interpretato da Gigi Ballista), si ubriaca e dà spettacolo di se, finendo per essere bloccato dai carabinieri, ai quali racconta confusamente i fatti, sottolineando come la ragazza non abbia che 15 anni.
L’indagine non è facile quanto scontata e la linea di difesa omertosa dei responsabili crolla in un attimo. Rinviati a giudizio i “probi cittadini” devono cercare una via d’uscita possibile e quanto più dignitosa. Entra in scena, come nel precedente episodio, la stimata patronessa a sua volta moglie di uno dei colpevoli, che mette in chiaro come solo sborsando “schei” si possa chiudere l'increscioso incidente. La trattativa, condotta tra l’intransigente signora e il violento padre della “vittima”, ha luogo in una stalla, in un giorno di estiva calura, tra cumuli di paglia e oche che schiamazzano. Tanto l’uno che l’altra “tirano” sul prezzo, il primo ghiotto di “milion” e la seconda pronta a ritirare la borsa. Ma il vero accordo lo si raggiunge (per una cifra più mite di quella stanziata in partenza) grazie all’improvvisa infatuazione del greve contadino che consuma nella polvere e nel chiasso del luogo un rapporto sessuale con la rigida signora, in fondo contenta di risparmiare denaro. Degno finale di pochade, si potrebbe dire, anche se il vero epilogo ha luogo nella bellissima piazza trevigiana, dove i riti di aperitivi domenicali e cabaret di dolci all’uscita della Messa, si incrociano tra le occhiate furbesche degli aspiranti fedifraghi. Unica anima candida, il ragionier Visigato si premunirà di tappi di cera per le orecchie, sognando il suo perduto amore.
Prima di chiedersi quale senso abbia rivedere oggi, dopo un mezzo secolo, questo gradevole e pungente film, ci si dovrebbe porre la domanda sulla ragione che ha spinto Germi a girare la pellicola al tempo. Il regista veniva da due altri film apparentemente dissimili in tutto da questo, ovvero “Divorzio all’italiana” e “Sedotta e abbandonata”. Lontani geograficamente e culturalmente si potrebbe dire, dai personaggi dissimili per le stesse ragioni e destinati ad agire in maniere molto differenti. In realtà il motivo di fondo è il medesimo: c’è un’Italia che vorrebbe cambiare, ma rimanda l’operazione in quanto resta ancora cementata ai suoi riti, alle sue gerarchie e soprattutto a una serie di tabù che si è quasi felici nel rispettare. I personaggi siculi dei due precedenti film, ponevano l’onore in ogni discorso, cadendo invariabilmente nel ridicolo e spesso perdendo di vista l’autentico significato della parola; il dileggio per chi perdesse tale virtù era degradante e definitivo; non escludevano ricorsi alla violenza, dal paio di schiaffi alla figlia disobbediente fino al caricatore svuotato in faccia al rivale. Nel Veneto di quest’altra opera, la rispettabilità è ugualmente sacra, non disgiunta dalla posizione sociale e dalla disponibilità economica, nonché dalla necessità di praticare una vita almeno un poco brillante e rispettare i precetti religiosi. Il desiderio di evasione sessuale, di realizzare fantasie soprattutto maschili (Germi è regista che non scarta dal suo genere e in alcuni punti della carriera mostrerà anche ombre di misoginia) cozza contro la morale scolpita dalla società e come si palesa un focolaio di devianza, a scattare sono anticorpi a migliaia, che agiscono tanto nelle famigerate lettere anonime quanto nella messa in moto di poteri supremi.
Nella Sicilia dei due film sopra citati, la catarsi si misura con la prematura morte della baronessa Cefalù vittima sacrificale dei calcoli del marito o di don Ascalone, martire per la propria famiglia, la pietra tombale che chiude “Signori e signore” è fatta di denaro malvolentieri pagato e di un’altra domenica piena di donne eleganti, di chiacchiere e di ipocrisie. L’Italia cambierà domani, ma forse non in meglio e rivedere le opere di Germi può ancora darci qualcosa.
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