Esercizi di stile: Il Grande Ski-lift


 

Con il suo talento linguistico e narrativo, Raymond Queneau ci ha insegnato a giocare con le parole, mostrandoci le infinite possibilità espressive che poggiano, per esempio, su un solo, semplice racconto. Uno stimolo a misurarci con il linguaggio e partire per le nostre personalissime esplorazioni...

 

Uno dei libri che tutti dovrebbero leggere è "Esercizi di stile" ("Exercices de style"), scritto da Raymond Queneau, pubblicato per la prima volta nel 1947 e successivamente aggiornato nel 1969. In Italia, invece, è uscito solo nel 1983 con traduzione di Umberto Eco e testo originale a fronte, dopo aver intuito, come afferma lui stesso nell’introduzione, che la cosa fondamentale era decidere cosa significasse, per un libro del genere, essere fedeli e la risposta era: capire le regole del gioco che Queneau si era poste e quindi giocare la stessa partita con un’altra lingua. Ma perché è tuttora un must? Il motivo è presto detto: questa opera d’arte racconta la stessa storia in ben novantanove modi diversi.

La storia è semplice: il narratore nota sull’autobus un giovane, dal collo lungo e dal cappello curiosamente decorato con una specie di treccia al posto del nastro. Il giovane ha un battibecco con un altro passeggero, poi va a sedersi in un posto che si è liberato. Più tardi, il narratore incontra nuovamente il ragazzo, ora in compagnia di un amico, il quale gli consiglia di fare aggiungere un bottone al soprabito. Questo banale episodio di vita quotidiana viene raccontato novantanove volte, e ogni volta in modo diverso, mettendo in gioco tutte le figure retoriche, i generi letterari (dall’epico al drammatico, dal racconto gotico alla lirica giapponese), giocando con il lessico, frantumando la sintassi. Il risultato: novantanove versioni dello stesso racconto (secondo una tecnica ben nota ai musicisti, la variazione) all’insegna dell’umorismo, della fantasia e del virtuosismo linguistico.

Sulla falsariga di Queneau, tuttavia armata di notevole umiltà, mi sono cimentata nelle versioni “arcaico-retorica”, “inamidato-ampollosa” e "british-sincopato style” dell’incipit del romanzo “Il Grande Ski-lift”, di Anton Soliman (Robin Edizioni IT, 2001), edizione curata da Francesca Pacini.

 

 

 

 

IL GRANDE SKI-LIFT (TESTO ORIGINALE DI ANTON SOLIMAN)

 

“IL PUNTO DI EMERSIONE”

Un piazzale enorme, senza costruzioni a parte una baracca di legno che doveva essere la biglietteria e un altro edificio incompleto, senza finestre. Alcuni ferri arrugginiti sbucavano dal solaio, intorno ai manufatti mucchi di neve marcia, appesantiti da una pioggia sottile. Arginati a stento dalla montagna densi banchi di nebbia scendevano attraverso le punte degli alberi di una foresta di conifere che si sviluppava a perdita d'occhio lungo la valle.

Oscar Zerbi scese dall’auto infilandosi un cappuccio di lana per ripararsi dal freddo, poi si girò lentamente su sé stesso alla ricerca di qualche valligiano a cui chiedere informazioni ma il luogo era deserto. Dalla baracca di legno uscivano i cavi di acciaio che sostenevano le cabine della funivia. Seguì con lo sguardo i piloni dell'impianto che come una fila di giganti pietrificati dall’inverno salivano ripidi sulla montagna, sfumando dopo qualche centinaio di metri ingoiati dalla nebbia.

Ricordò quanto gli era stato riferito sul Grande Ski-lift. Forse l’intera faccenda era stata un equivoco. In realtà si trovava in un posto abbandonato e quell’impianto sarebbe presumibilmente servito a trasportare il legname che si tagliava nei boschi in quota durante l’estate. L’informazione sul Grande Ski-lift gli era stata fornita da un amico che passava per una persona attendibile, appassionata di montagna. Gli aveva parlato del Grande Ski-lift in toni esaltanti: centinaia di chilometri di piste lungo catene montagnose seppellite dalla neve, laghi ghiacciati, foreste, paesaggi alpini incontaminati… Aveva evocato un mondo sublime in cui Oskar avrebbe potuto trascorrere le vacanze in assoluta libertà. E in cui si aspettava di dimenticare molte cose.

Aveva forse sbagliato itinerario? Eppure era stato ben indirizzato sulla strada da percorrere, sui segnali da seguire che aveva puntualmente rilevato lungo il percorso. Aveva ubbidito a tutte le istruzioni in modo da escludere possibili errori. Poteva anche pensare a informazioni deformate ma ritenne che, in questa circostanza particolare, non potersi trattare di un semplice disguido.

 

IL GRANDE SKI-LIFT: VERSIONE ARCAICO-RETORICA

 

Un’area di smisurata ampiezza, priva di opere murarie, non fosse che per un ligneo casotto d’atavica funzione cedolare, accompagnava un altrettanto imperfetto fabbricato, quest’ultimo orbo di esteriori affacci. Un imprecisato numero di metalli grigio-argento alla mercé, oramai, della patina ossidante, faceva bella mostra di sé dall’abbaino, la coltre bianca ormai corrotta avvolgeva le artigianali creazioni, aggravate da atmosferico, esile rovescio. Malamente contenuti dal massiccio montuoso, fitti ammassi di natural vapore s’adagiavano attraverso le arboree estremità, appartenenti a una comunità vegetale di aghifoglie, estendendosi fin dove l’occhio umano può vedere.

Oskar Zerbi s’accomiatò dalla vettura calzando in tutta fretta un copricapo di ovino crine per schermare il forte gelo, roteando con il corpo a destra e a manca, onde cogliere presenza di un autoctono soggetto da cui elemosinare ragguagli utili allo scopo, ma codesto spazio appariva non toccato da umana specie. Dal suddetto ligneo casotto sortivano cime di ferrosa lega, utili a sorreggere il gravame dei parvi teleferici abitacoli. L’occhio assecondava i sostegni verticali dell’abnorme struttura e codesti, come una ciclopica teoria dal gelo irrigidita, ascendevano malagevoli diretti al gran massiccio, digradando dopo molteplici distanze, fagocitati da una densa bruma. Rimembrò, in quell’istante, quanto dello Ski-lift gli era stato tramandato. Si fece strada il dubbio che la questione intera fosse stato un malinteso. Alla luce dei fatti, era chiaro che fosse un luogo abbandonato e che quell’immane catafalco fosse utile al traino di alberi recisi in altura nell’assolata stagione. Il ragguaglio proveniva da bocca di fidato confidente, sostenitore caloroso dei massicci montuosi.

Costui gli riferì dello Ski-lift con vigore inebriante: estesissime radure di sciistici percorsi delimitati da montani gruppi, giganti giacenti sotto spesse coltri nevose, enormi pozze gelate, selve, panorami alpestri non toccati da specie antropomorfa. Vagheggiante, immaginaria Arcadia di incantevole universo in cui Oskar avrebbe finalmente adagiato le stanche membra di svago bisognose. E nel quale aspirava ad obliare una moltitudine di fatti. Aveva forse preso un granchio nel tragitto? Eppure era stato ottimamente aggiornato sul percorso da seguire, sugli indizi da sorvegliare e che aveva, come previsto, riscontrato cammin facendo. Aveva ottemperato ad ogni regola impartita, così da scongiurare eventuali abbagli. Facile supporre che gli indizi dati fossero alterati, ma reputò che, in questo dato accadimento, non potesse essere opera di puro malinteso.

 

IL GRANDE SKI-LIFT: VERSIONE BRITISH-SINCOPATO STYLE


Cortile vasto, spuntava giusto un chiosco, artritico e legnoso. Il resto era deserto, a parte un edificio orbo, non finito. Cosa esce dal solaio? Ferraglia invecchiata male e poi la neve – o quel che ne restava – falcidiata com’era da una pioggerella che noi di Londra conosciamo bene…

La montagna goffa, inutilmente spesa a frenare vivaci banchi nebbiosi, impegnati com’erano a flirtare con punte di boschi sconfinati. Oskar Zerbi: piede sinistro fuori auto e mano destra già in saccoccia a cercare di corsa il berretto. Piroetta danzante e infreddolita ad avvistare qualche anima, mendicando informazioni. Nulla da fare, giusto l’eco lo avrebbe degnato di attenzione.

Un chiosco pensionato, un passato da dispensatore di allegri biglietti, un presente da pietoso camuffatore di cavi e piloni, giganti buoni proiettati verso un nebbioso futuro, anche loro. Memoria che confligge col reale: dove sono capitato? Questo luogo desolato forse aveva un suo perché: ascensore en plein air per le cataste di legna in estate.

Eppure. Ricordava bene il bagliore nello sguardo dell’amico: «Non crederai ai tuoi occhi: lunghe piste, vasti laghi, incomparabili paesaggi». Chiudendo gli occhi, assaporava il lauto e onirico banchetto che avrebbe saziato la fame di libertà e gli avrebbe dato il dono dell’oblio. Acquolina dall’amaro retrogusto: sbagliato strada, segnali trascurati, informazioni mutaformi? No, in questo caso no. E allora cosa?

 

IL GRANDE SKI-LIFT: VERSIONE OXFORD INAMIDATO-AMPOLLOSO STYLE

 

Trovo assai arduo descrivere, signori, l’ambascia che provai allorché una sola delle mie estremità fu costretta ad affondare in quella sorta di molle pianura, lasciata all’ignavia di uno sparuto gruppo di incivili alpigiani. Ero già con un occhio al cielo per lo stupore, se non fosse che l’altro notò, mon Dieu, con un moto di disgusto, un ricovero di forma squadrata, forse un vittoriano – ma cosa dico? – lungi da me voler fare ingiuriose associazioni coi miei avi … Mi azzarderei ad avanzare l’ipotesi che fosse un improvvisato quanto empirico strumento per erogare biglietti, come se ci fosse stato qualcosa che ne legittimasse, lì, l’intento …

Dovunque spaziasse il mio limpido e lucido sguardo, nulla che facesse presagire la recente presenza di qualcuno, eccezion fatta per una struttura impudicamente lasciata a se stessa e, forse, equivoco rifugio di malintenzionati. La ripugnanza giunse al culmine allorché la vista andò a posarsi su imputriditi cumuli di neve, orribilmente sfatti da acquerugiola costante; trattenni a stento il mio usitato aplomb, lo ammetto, lasciandomi avvolgere dalla più cupa mestizia.

Dimenticai, pardon, per lo sgomento, di citare, dal succitato, la fuoriuscita di alcuni cavi ferrosi, ricettacolo prolifico di tetano, qualora qualche sprovveduto avesse avuto la malaugurata tentazione di toccarli a mani nude. La mia vista era offuscata dalla bruma che mi costrinse a ripulire – sacrilegio – le lenti degli occhiali con i guanti di camoscio; a quel punto notai che la suddetta tentava inutilmente di forzare il colosso montagnoso, perdendo di vigore man mano che s’inoltrava nelle densità della fitta foresta.

Solo e pensoso, avviluppato nel circostanziale disagio, notai la presenza di un giovane di belle speranze ormai infrante, tale Oskar Zerbi, anch’egli attento a scendere da una povera auto ormai compromessa, nel medesimo tempo preoccupato di proteggere dal freddo una testa che, se avesse funzionato a dovere, non lo avrebbe portato qui, mi perdonino l’ardire. Era smarrito, lo sguardo prima furtivo a cogliere qualsivoglia presenza e poi catatonico, di chi sospetta che non avrà facile ricovero. Lo notai soffermarsi sulla violenta presenza di importanti piloni che andavano a formare una catena cementizia, mischiandosi poi con la molesta nebbia di cui sopra.

Mentalmente visualizzava il memorandum relativo a quel deprecabile scenario: l’ipotesi più accreditata era che quel, diciamo, “fantasmagorico luogo” fosse solo una verbale creatura nata dalla megalomane mente di un suo amico, reo di aver magnificato il tutto come un paradiso abitato da laghi sinuosi, enormi foreste, impareggiabili vedute. Orbene, nulla di tutto ciò: lo scenario si commentava da sé ed era puro turpiloquio. Il povero Oskar aveva tutta l’aria di chi era stato omaggiato, mesi prima, di un’udienza a corte, per venir poi liquidato poco prima dall’ultimo dei servi di Sua Maestà, per impegni inderogabili. Il suo volto tradiva delusione, smarrimento.

Orbene, e la vacanza alpestre? Cosa ne sarebbe stato degli spritz capaci di stornare dalla mente i brutti pensieri e di pacificare il suo spirito ribelle? Lo vidi riattivare i suoi ricordi: aveva ligiamente dato seguito ai consigli, percorrendo le strade descrittegli con doviziosa cura, senza omettere attenzione alcuna.

Concluse, dunque, che non si fosse trattato di puro “qui pro quo”.


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53 anni, nata a Lecco, una Laurea in Lingue e Letterature Straniere, compra molti più libri...Read more >>
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