Goffredo Parise, il romanzo di un’ossessione


Siamo tutti libri di sangue; in qualunque punto ci aprano, siamo rossi.

(Clive Barker)

parise”L’odore del sangue” (G. Parise, L’odore del sangue, Rizzoli, Milano, I ed. 1997) è un libro sinestesico e sorprendentemente attuale, in un aggettivo speciale, è noto a tutti, a cominciare dalla confidenza di cui ci mette a parte la compagna di vita degli ultimi anni di Parise, Giosetta Fioroni, testamentaria della cartacea eredità del grande scrittore veneto:

”Nell’estate del ’79 Goffredo rimase a lungo in campagna, a Salgareda in Veneto, e si dedicò alla stesura rapida e segreta di un romanzo, di cui non diceva altro se non che era un libro un po’ speciale”.

(E. Rasy, Goffredo, il sesso, l’amore e la morte, «Panorama», 12 giugno 1997)

Nella primavera dello stesso anno, Parise aveva avuto un infarto quasi mortale, e visse fino al 1986 in dialisi per problemi alle coronarie. Secondo la Fioroni, il romanzo sarebbe stato sigillato e chiuso in un cassetto immediatamente dopo la rapida stesura del 1979, e sarebbe stato riletto dall’autore, senza apportare correzione alcuna, nell’ultimo anno di vita. Sono, in Italia, gli ‘anni di piombo’, anni caotici di violenza, repressioni, attentati eclatanti che hanno la loro acme nell’assassinio di Aldo Moro nel 1978; anni in cui fare politica poteva essere sentito come una scelta necessaria che implicava altre scelte pericolose. I gruppi terroristici dell’estrema sinistra sono simbolo e capro espiatorio di questo periodo sanguinoso della storia italiana: il 7 aprile 1979 ci furono degli arresti di massa di cui fu vittima anche l’intellettuale Antonio Negri, che a distanza di anni riassume in questo modo l’atmosfera politica di allora:

”Oggi sappiamo che i primi atti terroristici sono stati decisi dallo Stato. Il terrorismo di Stato aveva instaurato una strategia della tensione. La produzione di paura rivelava il timore del governo di fronte alle masse… di conseguenza il governo incuteva paura alle masse per impedirne il movimento”.

(A. Negri, Il ritorno - Quasi un’autobiografia (conversazione con Anne Dufourmantelle), Rizzoli, Milano, 2003, p. 9)

Goffredo Parise in questi anni è accusato di disimpegno, termine improprio per colui che voleva analizzare i grandi eventi della storia da vicino, con la forza dell’intelletto ma anche con la più libera ricettività dei sensi, come dimostrano i reportage in Vietnam e nella Cina della Rivoluzione Culturale. Egli è ingorgato a tal punto in questa realtà da percepirne sensazioni apocalittiche, di un disastro imminente, e non ha bisogno di discettazioni ideologiche come Pasolini per poterne descrivere l’anima, che è il sangue. Il purpureo e plasmatico fluire, con il suo odore e il suo carico di morte, è il simbolo portante di tutto questo ”romanzo di un’ ossessione”, come lo definì Cesare Garboli, sia che dilaghi da una ferita di guerra, o che salga al cervello in un impeto morboso di gelosia coniugale, o che sia quello testosteronico degli anni giovanili, della passione, l’amore fisico, il desiderio carnale:

”[…] un odore molto simile a quello dei macelli all’alba, ma infinitamente più dolce e lievemente nauseabondo, anzi, per essere più precisi, esilarante. Mischiato a quell’odore c’era quello di alcool, di etere e ancora altri ma l’odore del sangue, con la sua dolcezza, con il suo zucchero umano, con la sua linfa, dominava su ogni altro e nemmeno i flussi d’aria che entravano violenti nell’abitacolo, riuscivano a portarlo via: stagnava, nella sua dolcezza, e per così dire parlava; si esprimeva, un po’ come potrebbe esprimersi un quadro. Quell’odore era un’opera d’arte e, proprio come l’opera d’arte, quando è veramente tale, esprimeva soprattutto il mistero, l’attesa, il rimando a capire. A capire che cosa? Non lo sapevo”. (ivi, p.5)

Il problema principale non è quanto Parise sia presente nell’opera, bensì quanto quest’opera sia capace di travalicare l’universo artistico per farsi organismo vivente. L’odore del sangue non è solo Parise, ma è Parise in quanto è l’‘uomo’, ed è questo l’unico compromesso possibile tra i suoi innegabili legami con la contingenza, e dunque con il contesto storico e col momentaneo stato esistenziale del suo autore, e l’eternità del fattore umano, cioè la sua capacità di sfuggire alla ieratica morte nella biblioteca universale per vivere come un uomo, fatto di anima e carne, e come un uomo morire. La prima cruda verità, di cui è reso testimone il lettore, è la natura ossessiva dell’odore del sangue, la sua forte valenza psicotica, il suo marcato ruolo di portatore di energia vitale e di vigore, peculiarità proprie della giovinezza che tendiamo a ricercare anche in età adulta avanzata, come semantiche pulsioni di ritrovata gioventù:

“[...] Sì, era chiaro, quello era l’odore della vita, l’odore più profondo essenziale ed unico della vita, ma perché mi attraeva tanto? Perché mi attraeva tanto, quale tipo, qualità di attrazione esercitava su di me? Forse quel tanto di belluino, perfino di antropofagico e vampiresco che, nel profondo più profondo, esiste ancora nell’uomo? Forse. Forse come una metafora, cioè come qualche cosa che allude ad altra o altre cose, per esempio alla brevità della vita, alla sostanza di cui siamo fatti, al fagotto di ossa carne e appunto sangue di cui siamo al tempo stesso contenuto e contenitore? Forse al Dove andiamo, chi siamo, da dove veniamo? a cui appunto allude Paul Gauguin in un suo famoso quadro? Certamente a tutto questo perché in quell’odore, nella dolcezza di quell’odore c’era anche una punta dell’odore di secrezioni, di sperma, cioè di acque e di ittico, una punta di quell’odore di mare che si coglie alle volte quando si ingoia un’ostrica fresca insieme alla sua acqua marina. Ma non più di una punta che bastava a spiegare tutto in una sola, chiara, ma in realtà vaghissima parola: la vita. Ancora, dunque, non capivo”. (ivi, p.6)

Tante domande a se stesso, ma Filippo, psicanalista di mezza età e Narratore in prima persona, non si spiega il perché del suo evocativo attaccamento all’odore del sangue, che diviene il punto centrale delle sue confessioni, in una parola l’enigma, come si evince ancora nel Prologo:

“Continuai per molti anni a non capire fino in fondo il senso di questa emozione che sapevo però si sarebbe potuta afferrare e capire; l’odore del sangue restò lì, nelle zone incerte della mia coscienza come appunto certi sogni che si ricordano solo a mezzo, o certe frasi che appaiono magiche, inspiegabili ma tanto più affascinanti e misteriose proprio per il loro suono e niente più. Poi, un bel giorno, accadde qualche cosa che era, appunto l’odore del sangue”. (ivi, p.7)

L’estasi che lo coglie ai primi sentori di quell’odore – come certi odori che eccitano la sensibilità di Proust – somiglia in qualche modo a quell'excessus mentis (espressione mutuata dal Pascoli, che designa una morte mistica, grazie alla quale Dante si rese protagonista della sua visione ultraterrena), alla separazione dalla realtà cui fa cenno Garboli nella Prefazione al romanzo, riferendosi a quello stato “fuori dal corpo e dal tempo” durante il quale Parise dovette avere scritto il libro, “senza mai alzare lo sguardo dai tasti e quindi lasciando affiorare sulla pagina, simili ai resti di un’ondata, dei segni astrusi e incompleti nei quali è arduo riconoscere il comune alfabeto”. Un romanzo torbido e personale sulla gelosia, come fece notare a pochi giorni dalla sua pubblicazione La Capria: “[…] un libro che Parise deve aver buttato giù di getto per liberarsi dall’incubo che lo ossessionava e che lo ha sempre ossessionato, e pensando, mentre lo scriveva, che comunque questo libro non avrebbe visto mai la luce perché non lo avrebbe mai pubblicato” (R. La Capria, «Corriere della sera», 15 giugno 1997).

L’obiettivo parisiano sarà, dunque, quello di buttare giù uno scartafaccio, in preda a una sorta di esperienza dolorosamente divinatoria, che è all’origine del romanzo, una veggenza che causa incubi e angoscia, perché “bisogna trovarsi a pochi passi dalla morte per lasciare un testamento così sanguinante” (Garboli, ivi). Il plot nasce da una visione, da un sogno che, con il procedere della trama, troverà riscontro e conferma nella realtà: Filippo è uno studioso del profondo, un uomo abituato a sondare certi meandri della psiche attraverso l’affilato bisturi della ragione, un analista che ha deciso di applicare su di sé i mezzi della sua professione in una fase delicata della sua esistenza, che lo vede impotente spettatore del tradimento della moglie, con cui condivide vent’anni di matrimonio nutrito di sessualità romantica, non carnale, si badi bene, quanto piuttosto platonica, in cui – afferma Parise stesso – l’erotismo rinuncia a quella reciproca e selvaggia scoperta animale, alla gioia cruenta e feroce, fatta di antagonismo e conflitto tra maschio e femmina, in cui esplode di regola il sesso, e si esprime in quel modo ammansito e addomesticato che nasce da una reciproca dedizione e da una profonda affettività:

“Ho guardato, anzi visto Silvia per la prima volta quando ho avuto la sensazione che mi tradisse. È questa una reazione diffusa, anzi banale, un po’ meno banale quando ciò accade a un uomo di cinquantacinque anni come me per una donna di cinquanta come Silvia. È vero che Silvia è ancora quello che si dice una bella donna, “ben tenuta”, e anche piena di fascino, è anche vero che si può essere gelosi a tutte le età come dimostrano le cronache ma nel mio caso non si trattò di gelosia, cioè di una passione antica come il mondo, bensì di curiosità, anch’essa una passione terribile ma di pochi e molto moderna. Sono un solitario, un saturnino, come dicono alcuni, e tendo alla fuga, a quella condizione di solitudine selvatica di certi animali. In particolare tendo a fuggire da lei nonostante la ami molto, anzi proprio perché la amo. Lei lo sa e per vent’anni di matrimonio mi ha sempre visto fuggire e anche tradirla: non con la rassegnazione tipica delle mogli sottomesse e sotto sotto interessate, ma, a sua volta, con la trepidazione delle donne innamorate e [così romantiche da] considerare la fuga della persona amata come una sorta di romantica irraggiungibilità, di mistero, dunque di fascino”. (ivi, p.9)

La coppia platonica, nell’immaginario parisiano e secondo quello del Narratore stesso, è inestricabile e simbiotica tanto quanto quella sessuale; per dare forza al suo pensiero lo scrittore ricorre a una similitudine vegetale, attinta al patrimonio dei suoi ricordi di viaggio nel Sud-Est asiatico, in cui lui si fa scultura e la moglie liana: “[…] quella inesorabile simbiosi che in natura si manifesta continuamente e che con gli anni si fa sempre più profonda e inestricabile. Questo pensiero m’era venuto naturale e spontaneo alcuni anni fa visitando da solo le rovine del tempio di Angkor Vat in Cambogia. […] Si trattava di uno stupa, letteralmente fagocitato dalla vegetazione. Gli alberi, le liane, non stavano soltanto attorno alla costruzione [...] ma in mezzo, dentro le sculture, cosi che , come la scultura stessa con stagioni, piogge e la forza potente della natura era finita essa stessa per diventare una liana […]. (ivi, p.24)

Filippo ha già, dal canto suo, compensato l’illanguidito ménage coniugale con una vita alternativa in un paesino lontano da Roma, nel Piave, con la silente compagnia di una ragazza, Paloma; nonostante questo allontanamento fisico, mentalmente quest’uomo resta ancorato all’immagine rassicurante e devota della moglie, totalmente al corrente della seconda vita del marito ma impossibilitata a ribellarsi in virtù dell’amore totalizzante per il marito e in vizio di incapacità di autonomia sentimentale. La relazione, ventennale, si assesta su una apparentemente pacifica routine, fatta di lunghe, quotidiane telefonate che al protagonista abbisognano come l’aria; il telefono, dunque è “il filo che li unisce sentimentalmente e li tiene lontani sessualmente, e fa capire comunque che il loro legame è forte, è una simbiosi” (R. La Capria, Parise. Vedi alla voce gelosia, «Corriere della Sera», 15 giugno 1997). Questo perché la comunicazione telefonica è, in qualche modo, la cartina al tornasole di Filippo per saggiare tutte le sfumature comportamentali di sua moglie, l’esaustivo modo per avere di lei una visione completa e assoluta: come afferma anche Márai ne "Il gabbiano", gli uomini si distinguono l’uno dall’altro per sfumature, appunto, e dalle pause, dalle reticenze, dalle omissioni, dai toni, dai respiri, dai silenzi, egli riesce a capire cosa succede a Silvia, in special modo quando inizia a germogliare quella che lei minimizzando definisce “sbandatina” per il giovane fascista con il culto della forza, della virilità:

“[…] Era un timbro di voce drammatico, appassionato, un timbro di voce che non le avevo mai sentito e, purtroppo, il timbro di voce della donna innamorata, perduta d’amore”. (ivi, p.19)

Nel romanzo, i tratti di Ugo, il giovane amore di Silvia, appartengono certamente ad un cliché. Parise non rappresenta l’altro come un individuo preciso, ma come un insieme di caratteristiche che potevano essere di molti giovani romani dell’epoca. La reticenza e le menzogne a cui ricorre la donna quando deve spiegazioni in proposito vedono la moglie vittima di un processo di autocensura, che la costringe a provare vergogna per il discutibile rapporto con un ragazzo molto più giovane di lei; questa deduzione induce Filippo a credere che quello di Silvia per il giovane non sia dunque amore vero ma plagio, condizione a cui la donna, per indole, si era già sottoposta. Si incentrano qui le macchinazioni mentali di Filippo che fanno di Silvia la vittima del rapporto con Ugo, e insieme della propria indole masochistica e passiva. Queste daranno vita, nel corso di tutto il romanzo, fin quasi al suo tragico finale, a visioni e sogni che vertono sul sesso orale.

La presenza di un terzo istituisce quella struttura triangolare che nella psicanalisi è il fondamento della gelosia. Questa struttura ignora la giovanissima Paloma, il quarto elemento; in realtà, si tratta di un passaggio traumatico da un triangolo ad un altro. Nel primo Filippo è al vertice. È lui a decidere quando stare da Paloma a Piave, e quando tornare a Roma da Silvia. Nel secondo il vertice diventa l’amante di Silvia, Ugo, sicché Filippo, re decaduto, viene posseduto da un sentimento di gelosia che gli induce uno stato narcotico:

“Da quell’istante si impadronì di me una strana passività, quasi narcotica, di cui mi resi conto perfettamente ma come il malato steso sul letto operatorio si rende conto che sta per precipitare in quel sonno artificiale e non naturale che è appunto la narcosi. E in quell’istante, l’ultimo di coscienza, sentii l’odore del sangue umano, quello della sala operatoria, quando si è curvi sopra il paziente già aperto, quell’odore dolce un po’ nauseabondo e un po’ esilarante, ma soprattutto dolce, e dolcemente funebre”. (ivi, p.12)

È da questo punto che ha inizio L’odore del sangue: dalla traballante geometria che ha messo una contro l’altra la generazione matura di Filippo e Silvia e quella giovanile dei loro amanti; dalla prospettiva di uno scontro antropologico che deve stabilire chi sia il maschio dominante, e in cui la donna, nell’ottica maschile, è il trofeo che decreta il vincitore; dall’ottenebramento della ragione di chi si sente abbandonato e spodestato allo stesso tempo, e i cui sensi sovraeccitati percepiscono qualcosa di misterioso che assume la forma «dolcemente funebre» dell’odore del sangue. Inscenare attacchi di illegittima gelosia o rinfacciare a Silvia di aver intrapreso questa relazione discutibile con un giovane di cui potrebbe essere madre, non sortirebbe a Filippo l’effetto sperato, al contrario solleciterebbe la già evidente reticenza e la chiusura di sua moglie; sceglie dunque di seguire i dettami della scienza che rappresenta, con psicologica acribia, per venire a capo della faccenda e, se possibile, tentare di ridimensionarla: “[…] Ma sentivo, sentivo tutto. Si trattava ora di sapere. La conoscenza delle cose reali essendo sempre stata, per me, durante tutta la mia vita, fonte di incredibile serenità. Infatti quale miglior metodo per esorcizzare qualunque cosa se non quella della conoscenza. Una volta conosciuta, e analizzata con la ragione, qualunque cosa oscura diventa chiara. Se non altro si sa cos’è, qualunque mostro sia, e una volta conosciuto cos’è si accetta, si combatte, si annulla”. (ivi, p.20)

Il gioco solleticante a cui Silvia invita Filippo ha il pregio di ridestare in lui, seppur con una data di scadenza breve, quella carica erotica e vitale che lo aveva soggiogato e rapito nel momento della prima conoscenza con la moglie stessa, quando si era invaghito dei suoi tratti somatici e del suo fiero corpo: “Fui naturalmente stordito. Cominciava fin da allora il gioco al massacro. Ma anche di questo nessuno dei due era consapevole ed esso era stabilito soltanto dal destino. Presi la macchina, corsi a Bologna, incontrai Silvia e, come ubriachi, ci chiudemmo per due giorni in albergo a fare l’amore. Mai si era fatto l’amore con quella intensità, quella voracità, quella crudeltà. Io mangiavo, letteralmente mangiavo la carne di Silvia, le sue lunghe cosce, le sue fossette alle caviglie i suoi splendidi piedi, sopratutto le sue meravigliose labbra, gonfie, carnose, contorte da una smorfia ripugnata e ripugnante che era la smorfia di quando l’avevo veramente vista per la prima volta”. (ivi, p.36)

L’insistenza descrittiva sulle labbra è interessante. Queste labbra “contorte da una smorfia ripugnata e ripugnante” ricordano quelle di Leda, protagonista del romanzo di Moravia, L’amore coniugale (L’amore coniugale e altri racconti, Bompiani, Milano, 1965, p. 9). Anche qui Silvio, la voce narrante, indugia sul volto della moglie Leda, spesso contratto da “una smorfia grossa e muta in cui parevano esprimersi paura, angoscia, ritrosia e al tempo stesso una schifata attrazione”, la stessa smorfia che gli rivelerà la sua essenza diabolica alla fine del racconto, quando scoprirà il tradimento della moglie col barbiere. «In entrambi i personaggi, tale piega delle labbra viene a compromettere l’immagine di serenità comunicata sin lì ai propri mariti» afferma Onofri nel suo “I misteri di Parise” («L’Unità», 6 luglio 1997), assurgendo ad elemento di disordine atto a scatenare il desiderio sessuale del soggetto desiderante:“Nel passaggio dall’atteggiamento normale al desiderio, è insito il fondamentale fascino della morte. Ciò che nell’erotismo è in gioco è sempre lo sconvolgimento dell’ordine, della disciplina, dell’organizzazione individuale, di quelle forme sociali, regolari, sulle quali si basano i rapporti da persona a persona. Ancor meno che nella riproduzione, nel contatto sessuale l’organizzazione individuale non è affatto destinata malgrado Sade a essere travolta, negata; essa dev’essere semplicemente turbata, scossa quanto più è possibile. Si tende a uno stato di fusione, ma solo a patto che questa, che significherebbe la morte degli esseri individuali, non possa riuscire ad avere partita vinta.

(G. Bataille, L’erotismo (1957), trad. it. di A. dell’Orto, Mondadori, Milano, 1969, pp. 26-27)

Nonostante tutto, quella è una fiamma momentanea che non può assimilarsi a intimità sessuale più consona al bisogno di riscatto dell’uomo dall’incipiente senilità, bensì a quella dell’affetto di stampo fraterno, o meglio, il sesso da Silvia è sublimato “in dedizione quasi religiosa e sopratutto in sentimento materno” (ivi, p.13), l’esatto contrario di ciò che Filippo vorrebbe da sua moglie, che vede come un’opera d’arte e nel cui abisso intravede la vorace passione, descritta talvolta con entomologica precisione. Infatti, come sostiene Bataille (op.cit., p.27), “l’erotismo dei corpi ha […] qualcosa di pesante, di sinistro”: esso “mantiene la discontinuità” individuale e assume sempre un po’ il senso di un egoismo cinico.

Non vi è differenza tra Silvia e Filippo, in questa ricerca di fuga dalla senilità, mentre ricorrono a rapporti che sublimino ancora quel sangue che fatica a scorrere, se non quella della presa di coscienza e del disincanto di lui:

“Sapevo, per esperienza, che, lungi dall’esprimere vitalità, il rapporto tra due persone con venti, trent’anni di differenza, era il primo atto della senilità, cioè del rimpianto per la vitalità. E che la vitalità che noi vediamo o crediamo di vedere nel nostro giovane partner non è la nostra, bensì la sua. È lui che richiede, che agisce, che usa il sesso in modo al tempo stesso innocente e inconscio, noi in realtà non siamo altro che gente che guarda e, guardando, crediamo di agire, cioè di vivere. In realtà invecchiamo e molto più rapidamente cercando disperatamente di allontanare quel pensiero fisso e definitivo che la natura, sempre così misericordiosa, provvede ad allontanare appunto con l’illusione”.(ivi, p.114)

Cinismo e freddezza scientifica sono due caratteristiche portanti della capacità descrittiva di Parise, in particolar modo quando tratta del sesso e della funzionalità del sesso di Silvia; attitudine che ritroviamo, nel romanzo, anche quando tratta del suo rapporto con la madre. Sia Filippo che Parise sono orfani di padre, non essendo stati riconosciuti ed avendo vissuto con la sola madre fino a dieci anni. Quando la madre si sposa, entrambi instaurano con il patrigno un ottimo rapporto a discapito di quello con la genitrice, dalla quale progressivamente si staccano:

“Con mia madre mi pareva di non aver più niente da dire e infatti non avevo più niente da dire né lei aveva più niente da dire a me avendo lei concluso le sue funzioni naturali e protettive di madre e io quelle di figlio da essere protetto”. (ivi, p.125)

Tale assenza di comunicazione pare comunque riconducibile al naturale esaurirsi delle “funzioni naturali e protettive” di madre, nonostante Filippo ammetta di averla amata immensamente, dall’infanzia alla prima giovinezza, e di esserne stato ricambiato, fino al tempo della separazione per lavoro avvenuta quando aveva diciott’anni, perché “le persone si amano finché si hanno sotto gli occhi; qualunque sia il rapporto affettivo tra due persone, se cessa la continuità, e la presenza, cessa anche l’affetto” (ivi, p.128). Pur condividendo o meno quest’ultimo pensiero parisiano, occorre ricordare che a volte la “sindrome da nido vuoto” che accomuna parecchie madri, viene tacitata e ammansita ricorrendo all’accumulo di memorie infantili appartenenti al figlio; nel caso della madre di Filippo, il divario affettivo tra lei e il protagonista ultracinquantenne, che va a trovarla per un ipocrita dovere, è talmente incolmabile che viene soppiantato dalla presenza di un bambolotto che incarna Filippo stesso nell’infanzia, un mediatore-rivale che conferma e aggrava il distacco da colei che l’ha generato: “Mia madre aveva veramente perso il suo bambino, perché io ero cresciuto e maturato e non avevo piu bisogno di lei. Ma lei era rimasta ferma, nel suo sentimento di maternità, a quegli anni, agli anni dell’infanzia, e su quelli, con il tempo, gli anni e le occasioni, aveva costruito un piccolo museo , come io fossi veramente morto”.(ivi, p.129)

Come Silvia aveva finito per amare un giovane, cosi la stessa madre di Filippo continuava ad amare un ragazzo, quello che lui era e che lei considerava ormai morto: “Come si usa dire, non ero affatto rientrato nel ventre di mia madre, come desideravo in quei giorni, ma, al contrario, crudelmente ne ero stato respinto, sostituito dai bambolotti. Il mio dolore e il mio terrore dunque aumentarono”. (ivi, p.130)

Goffredo Parise era un pessimista, ma un pessimista innamorato della vita, quella smorfia amara che lo connotava altro non era che un sentirsi tradito dall’esistenza stessa e mi preme ricordarlo attraverso le parole illuminate di Andrea Zanzotto: “Tutta l’opera narrativa di Parise vive nella meravigliosa e terribile diplopia, nello sguardo che trapassa la realtà e in essa rientra quasi attraverso l’allucinazione, ardendo di un amore «incontentabile» per la vita, per il suo donarsi e sottrarsi continui che lasciano, rispetto a questa immensa capacità di amare, un margine ineliminabile di frustrazione”.

(A. Zanzotto, «Introduzione», in G. Parise, Opere, a cura di B. Callegher e M. Portello, Milano, Mondadori, 2006, vol. I, p. XXXII-XXXIII)


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