Se questo è il sesso debole


Nelle fabbriche ancora oggi le donne lavorano, proprio come ieri. L'alienazione, la ripetitività dei gesti, le atmosfere raccontate in prima persona. Cronaca di un quotidiano disagio che diventa però anche forza, osservazione, riflessione.

 

...cos'è, cos'è che fa andare la filanda
è chiara la faccenda son quelle come me...
(Milva, La filanda)




se questo è il sesso deboleNell'impianto assumono solo donne, sveglie e precise.
Ci sono i tempi da rispettare. Questa lavorazione è da 10 minuti, questa è da 20, questa massimo 30. I minuti corrono e la corsa contro il tempo riparte a cadenza regolare. Ad ognuna di noi vengono forniti dei documenti su cui vanno riportati gli orari di inizio e di fine. Le ragazze più esperte ti fanno vedere come lavorare per impiegare meno tempo, ma le loro mani corrono veloci e tu quasi non fai in tempo a vedere cosa fanno. Loro, con le loro mani esperte, riescono anche a sorridere mentre lavorano. Tu no. Stai seria e cerchi di non perdere neanche un secondo... anche se poi, alla fine, sei fuori di 10 minuti.
10 minuti, il tempo della pausa. Ogni 2 ore 10 minuti in cui continui a correre per uscire a fumare, per bere un po' d'acqua, per andare in bagno. Impossibile fare tutto. Scegli le urgenze, le priorità, e poi corri. Per uscire bisogna passare attraverso il metal detector. Le scarpe antinfortunistiche suonano, quindi bisogna toglierle e rimetterle tra una porta e l'altra. E quindi corri, corri fuori per 10 minuti, che ormai sono 8, anche senza scarpe.

Le ragazze più anziane dopo qualche giorno che ti vedono cominciano a darti i consigli di sopravvivenza: “non allacciarle le scarpe”, “timbra prima la fine pausa, tanto segna i quarti, e poi esci”.
Ma  i consigli iniziano solo dopo, dopo che hai superato i primi giorni di prova, dopo che anche loro si convincono che non sei carne da macello, ma una persona che dovrà sopportare insieme a loro turni estenuanti di 12 ore.

Ritorni alla tua postazione da cui non ti sposterai per le prossime 2 ore. Stai lì da sola, le altre ti sono davanti, dietro e di lato, ma non si può parlare. Penso alla scuola, penso che nessun professore riesce ad ottenere così tanto silenzio ed attenzione neanche per 1 ora... qui ci riescono per 12. Ogni tanto qualcuna arrischia una battuta, rapida, veloce, per non essere bloccata prima dalla voce del supervisore che urla “silenzio”.

 

Per la prima volta ho scoperto il senso più profondo del termine alienazione. Me lo ripeto e cerco di distillarlo per poterlo comunicare forse, un giorno, ai miei studenti. Ripenso, ad esempio, al saggio di Fusaro Bentornato Marx: «Marx afferma che, nelle fabbriche, l'operaio è vittima di un'alienazione che si estrinseca in quattro modalità differenti: a) l'operaio si rapporta con il prodotto del suo lavoro come con un oggetto estraneo e ostile; b) l'operaio non considera il suo lavoro una parte reale della sua vita, ma fa di tutto per evitarlo; c) l'essenza specifica dell'uomo, vale a dire la sua natura comunitaria, gli viene sottratta nel lavoro; d) l'uomo si sente estraniato nei confronti dei sui simili». Poche ore davanti a quel tavolo di lavoro e le quattro lettere dell'elenco non sono più formule da imparare a memoria, ma sensazioni forti che si vivono dentro e fuori la pelle, tutte, contemporaneamente. Nel fare questa riflessione la mia mente si libera.

 

Mi sento un po' colpevole nei confronti delle altre, che nelle loro solitudini, forse, non hanno le risorse per, come direbbe Hegel, giungere all'Aufhebung, alla sintesi che permette di superare il momento della negazione pur conservandola. Un superamento che avviene nello spirito anche se non nella pratica.

 

Il mio corpo e tutta me stessa sono ancora lì, le mie mani continuano a correre, la mia mente deve continuare a vigilarle per evitare gli errori, e penso che in fondo Marx avesse ragione nel criticare l'idealismo tedesco applicato al mondo della fabbrica. Se lo spirito non ha avuto modo di svilupparsi, come può apparire e manifestarsi nel momento dell'alienazione? Regalo un sorriso a tutti gli sguardi che incontro, mi sembra l'unica strada per restituire umanità. Mi vengono restituiti, raggianti. Non è la stanchezza che distrugge ma l'alienazione. Sorridere è umano, rende liberi.
Man mano che le ore passano i volti si fanno sempre più stanchi, ma nei 10 minuti di pausa  la maggior parte sorride, ride, scherza, sdrammatizza. I 10 minuti, il tempo di una sigaretta. Mi torna in mente un altro saggio di Fusaro, Essere senza tempo, in cui scrive che nella misura in cui “il tempo stringe”, diventa indispensabile ridurre al minimo gli intervalli di tempo libero, accorciando il più possibile anche le pause dedicate al fumo: in particolare, nella storia del fumo questa fretta si manifesta nella semplificazione e nell’abbreviazione dei procedimenti usati per fumare e nella sequenza dei diversi strumenti, che vanno dalla pipa al sigaro, e da questo alla sigaretta. La sigaretta si trasforma in una nuova e uniforme unità di tempo. Il “tempo di una sigaretta”.

Ed è nei momenti di pausa, o poco prima di attaccare il lavoro, che scopri piccoli pezzetti di vita dietro quei volti: le famiglie, i figli, le case, i cani, i gatti. Ognuna di loro è un universo. Un universo confusionario, complicato, spesso privo di uomini, che quando ci sono sembrano essere più un problema che una risorsa. Donne separate con figli da crescere nelle 12 ore fuori dal lavoro. Donne sposate che nelle 12 ore fuori dovranno risistemare la casa per il marito, preparargli i pasti, lavare i piatti. Eppure sorridono. Altre hanno rinunciato agli uomini e si amano tra donne. Vivono tranquillamente la loro sessualità e nessuna mostra segni di disagio. Mi domando: se fossimo in un luogo di lavoro maschile, come reagirebbero gli uomini alla presenza di omosessuali? E chissà perché mi convinco che sarebbe diverso.

Torno dopo più di un mese nello stesso impianto. Molte delle ragazze infrangono il tabù del silenzio per darmi il bentornata, per dirmi che gli sono mancata, per sorridermi. Mi sento umana e più che umana.


Simona Taborro

Simona Taborro - autore.

Chi sono? È sempre difficile descriversi, ogni volta che ci si prova si scopre di essere sempre altro rispetto a quanto si è affermato. Ogni affermazione porta con sé la propria negazione per riaffermare nuovamente che sono viva, in divenire.

Il motore di questa fuga da me, dal sé fermo immobile, nel mio caso è la curiosità. Una curiosità che mi porta ad essere temeraria, insolente, indolente verso ogni confine. Ogni confine: disciplinare, geografico, morale, per me è sempre una porta, una soglia nella quale affacciarsi per vedere cosa ci sia dall'altra parte...

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