Non chiedere perché
di Anna Buono
Ci sono storie, eventi, che ci colpiscono nel profondo. Come quelli accaduti in Bosnia, ai bambini di un piccolo orfanotrofio. Eppure nasce, sempre, una speranza...
D’istinto ci sono la rabbia e l’orrore, che una notizia simile porta con sé.
La rabbia assume il volto di chi deve lottare per realizzare un sogno, l’orrore, invece, ha il volto del colpevole, quello che meno di chiunque altro dovrebbe esserlo. Chi, dove, come, quando … non hanno che un’importanza relativa, la vera essenza delle cose sta tutta lì, nel loro perché. Inafferrabile, inammissibile, inconcepibile perché.
Gli esperti parlano di un gesto disumano, non giustificabile, ma ciò nonostante dicono che delle ragioni alla base di esso bisogna pur individuarle, perché soltanto così si potranno prevenire simili atrocità. E allora si fanno largo il cedimento nervoso, un raptus di follia, la frustrazione esistenziale, lo sdoppiamento della personalità, la depressione post-parto, la disperazione dovuta alle difficoltà economiche o alla crisi con il proprio compagno o la propria compagna, con la conseguente volontà di punirlo(a), il senso di inadeguatezza nel garantire al proprio figlio un futuro sereno, la volontà di preservarlo dai mali della vita.
“Per vedere bene la malattia occorre guardare da vicino …” ma io non sono un’esperta, sono ignorante in materia (una figlia ignorante!) e per un attimo voglio restare tale. Per un attimo mi rifiuto di pensare che davvero succede che le mani che stringono in una morsa fatale il collo di un bambino o che impugnano un coltello contro di lui, sono quelle stesse mani che dovrebbero in realtà proteggerlo. Per un po’ scelgo semplicemente di “non chiedere perché”.
Indosso allora anch’io un giubbotto antiproiettile, assieme a Marco De Luca, ma non per difendermi dai colpi di un cecchino appostato dietro una persiana o su di una collina, ma per difendermi dalla tristezza e proteggere la speranza. Ė il 3 luglio 1992: insieme a Marco sono salita a bordo del G-222 dell’Aeronautica Militare Italiana, abbiamo decollato dall’aeroporto di Ancona-Falconara con destinazione Sarajevo, in Bosnia. Qui Marco ha accettato di recarsi, assieme a Luciano, come inviato per la televisione italiana, per raccontare, in novanta secondi al telegiornale, la guerra fratricida e sanguinosa che non risparmia nessuno, né anziani, né donne e nemmeno bambini, ma che regalerà a Marco (che a casa non ha più Bianca ad aspettarlo) un nuovo, inaspettato, insospettabile amore. Novanta secondi non bastano. Non bastano a Marco per raccontare l’orrore che i suoi occhi vedono, non bastano a descrivere quell’inferno in cui si muore per aver desiderato cogliere delle ciliegie, dove una donna recupera da un cassetto un rossetto dimenticato da chissà quanto tempo e ne è felice perché per un attimo è riuscita a recuperare null’altro che un pezzo di normalità. Un inferno in cui nonostante tutto musulmani, ebrei e cristiano-ortodossi si ritrovano in una cattedrale cattolica di domenica mattina a sentire l’omelia dell’arcivescovo Vinko Puljić, semplicemente perché sentono che è uno di loro.
Qui le granate esplodono, esplodono ovunque, anche sugli orfanotrofi e i bambini:
“… Quando i bombardamenti si interrompevano, … correvano a cercare le rose lasciate dalle granate sull’asfalto e facevano a gara a chi indovinava per primo da quale periferia erano state lanciate”.
Marco giunge nei pressi di Ljubica Ivezíc, fa il giro dell’orfanotrofio. Luciano lo accompagna e riprende tutto con la sua inseparabile telecamera, anche “lo sfogo della direttrice: il che di fatto sostituiva l’intervista che avevano pensato di farle”. I più piccoli sono in una stanza in fondo al corridoio.
“… Appena aprirono la porta furono investiti da un tanfo dolciastro e acido, un misto di sudore, urina, batteri in decomposizione e borotalco. Nella stanza in penombra c’erano otto culle. In ogni culla c’erano almeno tre bambini, Luciano iniziò a filmare: Marco si girò a guardare. Nella prima culla, la sola bimba bruna di tutto il nido. Era bellissima. Capelli neri molto corti, un ovale perfetto, grandi occhi scuri e ciglia lunghe. … Era tanto che non prendeva un bambino in braccio. Per ciò che lo riguardava, aveva rinviato così tanto il momento che gli sembrava che per lui fosse definitivamente tramontata la possibilità di avere un figlio e ormai non ci pensava più. La prese in braccio. La fece sedere sull’avambraccio, tenendola per le gambe, di modo che non cadesse all’indietro, con attenzione e impaccio la spostò appena un po’ dal suo corpo: venti, trenta centimetri, quel tanto che bastava per ottenere un’inquadratura autonoma. Fu in quel momento che la bambina allungò il braccio. Forse fu un gesto istintivo, forse lo fece perché si sentì in equilibrio precario. O forse fu qualcos’altro. Ma quel braccio gli si infilò piano dietro il collo e sembrò tirarlo a sé, come se volesse abbracciarlo. Quel braccio intorno al collo lo aveva turbato. Provava disagio, un’inquietudine nuova, si trovava in una situazione inedita per lui. Era in un luogo di abbandono e di dolore, un orfanotrofio è il paese degli affetti negati, la regione dell’amore perduto. Ma la bambina, appena adagiata nel lettino, cominciò a piangere. Un pianto strano, senza lacrime, come un lamento emesso a bocca chiusa, strizzando gli occhi. In realtà non piangeva. Protestava. Riallungò le braccia e la sollevò di nuovo. Questo bastò a farla calmare. La protesta si interruppe subito. E, ancora una volta, il braccio della bambina gli finì dietro il collo. Malina gli regalò il primo sorriso della giornata, lui si avviò verso l’uscita quasi camminando a ritroso. Non era la sua bambina, eppure gli sembrava di abbandonarla, di lasciarla al suo destino, come se lei, sorridendogli, gli avesse consegnato una richiesta che lui adesso stava disattendendo”.
O forse no. Ormai chissà per quale strano motivo, chissà perché, lui capisce quale sia la cosa giusta da fare, dopo molto tempo. Inizia così la sua battaglia per ottenere l’affido della bambina. Una battaglia difficile la sua perché Malina è destinata a partire assieme ad altri bambini per la Germania, dove sarà affidata ad una famiglia accreditata o ad una struttura statale estera, difficile perché difficile è già di per sé la situazione di Malina che ufficialmente non è stata ancora dichiarata orfana, ma risulta in stato di abbandono. Difficile perché lui non è una famiglia accreditata, non è un’istituzione estera, non è un deputato, ma solo un giornalista single con un matrimonio fallito alle spalle. Ma lui sa che non ne vuole un altro di bambino, come gli suggerisce la direttrice dell’orfanotrofio, lui non ha “paternità represse da soddisfare”: Malina lo ha colpito, anche se lui non sa come spiegarlo ed è lei che lui vuole portare con sé in Italia, fuori da quell’inferno in cui era piombata la città, “… capace perfino di sottrarre le lacrime ai bambini”.
Ma non è facile: Marco da solo non può farcela, ha bisogno di aiuto, dell’aiuto del suo amico Edin. Lui e sua moglie Anisa gli chiedono di riflettere, “… di ascoltare la ragione e non solo il cuore …”, ma Marco non si arrende: la sua determinazione e l’aiuto di Edin prima, della dottoressa Maria Teresa Giovannelli poi, gli permettono di avere la meglio sulla burocrazia, sul tempo e sui cecchini che non si concedono, né concedono una tregua.
Durante la sua battaglia maturano in lui nuove sensazioni che non riesce a spiegarsi. “… Gli sembrava tutto così strano. Stava dormendo con una bambina, anzi, con la sua bambina al fianco. Ora che era lì e ne avvertiva il respiro e l’odore, capì cosa volevano dire Anisa e Edin quando gli parlavano di responsabilità. … lei gli si affidava. La sua vita, da quella sera, dipendeva da lui. Sarebbe stato all’altezza? Ci sarebbe riuscito? Possedeva la stessa fiducia in se stesso che Malina sembrava riporre in lui? Le domande si affiancavano l’una all’altra come uccelli su fili. Prese lentamente la bambina e se la appoggiò sul petto. Lei sospirò e girò la faccia, appoggiando l’altra guancia al suo petto. In quello stesso istante Marco seppe che ce l’avrebbe fatta”.
E alla fine Marco ce la fa, forse semplicemente perché si è sentito genitore dentro, e ha fatto una scelta, una duplice scelta d’amore. Non un figlio che potesse assomigliargli nei tratti del viso, che potesse ricordargli com’era lui da piccolo, ma semplicemente Malina, poiché, dopo averla incontrata:
“… Lui si portava dentro da giorni la sorpresa di un braccio dietro il collo e di un sorriso così intenso e inatteso che faceva ancora male solo a pensarci”.
Alla fine, seppur vista dall’altra parte, rileggere questa storia, vera, ha fatto bene anche a me. Perché noi figli siamo così: non chiediamo ai nostri genitori di metterci al mondo (o, nel caso di Marco, di prenderci in affido), ma quando entriamo a far parte delle loro vite desideriamo le loro attenzioni, il loro affetto, il loro appoggio, vorremmo che da sempre loro avessero desiderato rivedere sotto una luce diversa il loro mondo, proprio quello in cui, prima del nostro arrivo, ogni cosa aveva il suo ordine preciso, il suo tempo, il suo spazio perché:“… Un figlio è un progetto che non finisce mai, un cantiere sempre aperto, come scrivere un libro senza mai chiudere i capitoli, perché c’è sempre qualcosa da raccontare, un paragrafo da aggiungere. …”. Alla fine, quando smetto il giubbotto antiproiettile, mi sento ancora protetta da quello, invisibile, che indosso tutti i giorni e che, da un anno e più a questa parte, è fatto per metà di ricordi, irrinunciabili, incancellabili. E mi sento fortunata perché so di essere un dono, una scelta, un impegno. Per la vita, oltre la vita.
Parola di figlia.
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