Sul tetto del mondo
di Irene Trevisan
Fino a che punto è disposto a spingersi un uomo assetato di avventura, adrenalina, desiderio di superare i propri limiti? Aria sottile è un magnifico e abbagliante dipinto del sottile equilibrio che esiste tra desiderio sfrenato di conquista e attaccamento viscerale alla vita; un invito a riflettere su come ogni minima decisione, valutazione, imprudenza possano far pendere l’ago della bilancia dalla parte della vita o della morte. “Mentre salivo lungo il filo della cresta sommitale aspirando ossigeno nei polmoni malconci, assaporavo uno strano e ingiustificato senso di calma. Il mondo oltre la maschera di gomma era stupendamente vivido, ma non sembrava del tutto reale, come se mi proiettassero davanti agli occhiali un film a rallentatore. Mi sentivo stordito, distaccato, del tutto isolato dagli stimoli esterni. Dovevo rammentare di continuo a me stesso che ai lati c’erano oltre duemila e cento metri di vuoto, che lì tutto era a rischio, che ogni passo falso lo avrei pagato con la vita.” Una visione tanto ansiogena quanto obiettiva, determinata da un’attenta e puntigliosa analisi dei fatti avvenuti sul Monte Everest nel maggio del 1996.
“Jon, ti andrebbe di andare sull’Everest?”
Questo fu l’inizio di una straordinaria e terrificante avventura vissuta dal giornalista e alpinista americano Jon Krakauer. La rivista Outside, per la quale lavorava, gli stava chiedendo di prendere parte ad una spedizione organizzata per scrivere un reportage sulla commercializzazione delle scalate dell’Everest e sul deturpamento del paesaggio ad alta quota.
Elettrizzato e allo stesso tempo spaventato dalla possibilità di realizzare questo sogno nel cassetto, potenzialmente letale ma inspiegabilmente magnetico, che lo avrebbe trasformato profondamente, alla fine Jon prese la sua decisione e in men che non si dica si ritrovò su un volo diretto in Nepal, dove fece la conoscenza del variopinto gruppo accompagnato dalle guide dell’agenzia neozelandese Adventure Consultants e da numerosi sherpa.
Caos, risciò, prostitute, odori pungenti delle strade di Kathmandu, poi la pace delle verdeggianti alture coltivate, recinti di yak, gelidi corsi d’acqua e affascinanti monumenti religiosi costruiti con pietre lungo il sentiero che si inerpicava verso l’ambita meta. Arrivo al campo base, un agglomerato di tende adagiate su un tratto pianeggiante e sassoso. Il lungo acclimatamento e le escursioni fino al Campo Uno e poi al Campo Due, con un assaggio del ghiaccio, degli ostacoli e dell’aria sempre più rarefatta che avrebbero dovuto affrontare per raggiungere la meta. “Lassù l’altitudine si manifestò come una forza maligna, che mi infliggeva un malessere simile ai postumi di una violenta sbornia di vino rosso.”
“Il vento sollevava enormi onde turbinanti di neve farinosa che scorrevano giù per la montagna come frangenti, incollando ai miei abiti uno strato di brina. Sugli occhiali si formò un guscio di ghiaccio che mi appannava la vista. Cominciavo a perdere la sensibilità nei piedi e mi sentivo le dita delle mani legnose.”
“Il crinale era spazzato da un vento alla velocità di venti nodi, che sollevava un turbine di nevischio in alto sopra la parete Kangshung, ma, sopra, il cielo era di un azzurro così intenso da ferire gli occhi.”
“Il ritrovamento del primo cadavere mi aveva lasciato fortemente scosso per alcune ore, mentre lo shock dell’impatto col secondo svanì quasi subito. Pochi degli scalatori che salivano faticosamente avevano dedicato a entrambi più di uno sguardo casuale. Era come se sulla montagna regnasse il tacito accordo di far finta che quei resti essiccati non fossero reali; come se nessuno di noi osasse riconoscere qual era la vera posta in gioco, lassù.”
Freddo, caldo, fame, nausea, stanchezza, energia, stupore, disgusto, dolore, noia, eccitazione, nostalgia di casa, trepidazione, fratellanza, confronto e prevaricazione: un’altalena incessante di sensazioni ed emozioni contrastanti accompagna questo percorso, un percorso di formazione e di crescita personale, un po’ alla Siddharta, carico di riflessioni sulla vera essenza della realtà, un cammino lento e faticoso, passo dopo passo, uno scarpone davanti all’altro per infinite volte. Una sorta di pellegrinaggio sul cammino di Santiago di Compostela. Campo Tre, Campo Quattro: ci siamo quasi. Uno sguardo alle spalle: quanta strada percorsa, quanto ghiaccio calpestato, quanta bellezza nel cuore, “… una bellezza gelida ed eterea che si accentuò man mano che salivamo”. E adesso l’ultimo tratto, il più faticoso, il più pericoloso, quello decisivo che determinerà il successo o il fallimento, la fama o l’ignominia, la reputazione e l’idea che gli altri hanno di noi e che noi abbiamo di noi stessi. Sì, noi, perché noi siamo lì con Jon, siamo Jon, gli occhi investiti dall’incomparabile riflesso del sole sulla neve, nelle orecchie lo scricchiolare delle suole sul ghiaccio e le poche e stentate parole dei compagni di scalata, il male lancinante ai piedi, ai polmoni, ovunque. Un solo obiettivo nella mente: raggiungere la vetta. Ed ecco che la straordinaria determinazione ci spinge sempre più su e piano piano spegne tutte le sensazioni corporee e, ahimè, anche la razionalità. Alcuni, i più fortunati e abili, tra cui Jon, raggiunsero la meta. Tutto si svolse in rapida successione: solo pochi minuti si concedettero per ammirare lo spettacolo che avevano davanti, “a cavalcioni del tetto del mondo”, con la mente talmente offuscata da non poter goderne appieno, come si erano immaginati. “Si ritiene che la conquista della vetta dell’Everest dovrebbe far scattare un’ondata di intensa esultanza; dopo tutto, ero appena riuscito a raggiungere, contro ogni speranza, un obiettivo che sognavo fin da bambino. Ma la vetta, in realtà, era solo il punto centrale del viaggio: ogni tentazione di congratularmi con me stesso fu spenta dalla crescente apprensione per la lunga e rischiosa discesa che mi attendeva.” Sopraggiunse una tempesta: i “vincitori”, arrivati in cima, intrapresero la via del ritorno, altri saggi pagarono il prezzo della delusione e iniziarono la discesa senza aver coronato il loro sogno, mentre alcuni audaci accecati dall’ossessione della conquista proseguirono la scalata e perirono.
Chi sono i veri vincitori? Qual è il vero obiettivo? viene da chiedersi. Proseguire imperterriti verso l’alto a qualsiasi costo, rischiando di fare la fine di Icaro, sfidare la natura come fece il capitano Achab con Moby Dick, oppure fermarsi a riflettere su cosa conta davvero per noi e accettarne le conseguenze? E ancora, riusciamo a comprendere le ragioni di chi decise di rischiare e per questo morì, riusciamo a immedesimarci nei loro pensieri e a scrutare nella loro mente o condanniamo senza appello una simile condotta? Krakauer spiega chiaramente la sua motivazione: “Avevo sempre saputo che l’alpinismo era una sfida ad alto rischio. Accettavo il fatto che il pericolo fosse una componente essenziale del gioco: senza di esso, arrampicare sarebbe stato ben poco diverso da cento altri modi di passare il tempo. Quello che mi titillava era proprio sfiorare di proposito l’enigma della mortalità, lanciare un’occhiata oltre la frontiera proibita. Arrampicare era un’attività meravigliosa, ne ero fermamente convinto, non a dispetto dei rischi impliciti, ma proprio per quelli.” Vorrei riportare una testimonianza della controparte, di chi non osa o non vuole intraprendere un’avventura simile, ma le persone prudenti in genere non sono famose, non passano alla storia, quindi credo che ognuno di noi (sempre che non abbiate scalato l’Everest…!) possa guardarsi dentro e riflettere sul proprio modo di vivere e sui propri principi. Siamo felici di come stiamo vivendo i nostri anni? Li stiamo vivendo, o solo trascorrendo? In altre parole, ci sentiamo vivi, anche senza compiere gesti estremi? Cos’è che ci fa sentire davvero vivi? Trovare una risposta a queste domande non è semplicissimo, ma credo che dovremmo almeno provarci, per non sprecare il tempo che ci viene concesso e fare tesoro di questo splendido dono che ci è stato offerto: la vita.
In De brevitate vitae, Seneca scrive: “Ci è stata data un vita abbastanza lunga e per il compimento di cose grandissime, se venisse spesa tutta bene; ma quando si perde tra il lusso e la trascuratezza, quando non la si spende per nessuna cosa utile, quando infine ci costringe la necessità suprema, ci accorgiamo che è già passata essa che non capivano che stesse passando.” Questa non vuole essere una paternale, ma un invito a ragionare su queste “cose grandissime”: non a caso Seneca sceglie di declinare la parola res, una parola che abbraccia un’ineguagliabile vastità di significati, dai più astratti ai più concreti, estremamente variabile a seconda del contesto. Sta a noi quindi interpretare questa parola e attribuirle il significato che riteniamo giusto per noi.