Il mio incontro con Murakami
di Stella Larotonda
Leggere uno scrittore a volte diventa un'esperienza che lascia una traccia particolare in cui la carne e le parole si incontrano. E si intreccia un destino speciale che lega autore e lettore....
Sono anni che ho voglia di cimentarmi nella lettura di Murakami. Mio padre è un appassionato, ho diversi libri a casa sua e potrei iniziare senza alcuna difficoltà, nemmeno economica. Ma c’è qualcosa che mi blocca. In realtà un incontro c’è già stato. Avevo più o meno tredici anni e mi trovavo in quel periodo in cui si legge tutto ciò che capita, pur di leggere qualcosa che hai a portata di mano, che non devi sforzarti di cercare e che qualcun altro – che magari ammiri anche – ha già sfogliato prima di te. È con questo stato mentale che ho affrontato la lettura di On the road, Il Giovane Holden, Il Maestro e Margherita. Libri che ho amato, ma che a ripensarci adesso… cosa ho capito? Cosa mi ricordo? Ho dovuto riaprirli, rileggerli e quindi riscoprirli. Non erano più loro, erano nuovi.
Ho tredici anni, sono nella mia stanza, non so cosa leggere e decido di iniziare a sfogliare le pagine di un libro dal titolo curioso e dalla copertina rossa, un colore invitante. Il libro si chiama Norwegian Wood, l’autore ha un nome orientale mai sentito prima e a me non piace leggere libri ambientati in Oriente. Ho difficoltà a ricordare i nomi, a memorizzarne i volti. Ma inizio e porto a fondo la lettura. Quello che mi resta non è la trama, non è l’intreccio; è un’atmosfera, una sensazione, quasi un odore. E ancora oggi se ripenso a quel libro c’è solo un’immagine che mi torna alla mente: due ragazzi, un uomo e una donna, che passeggiano in silenzio tenendosi per mano. Il resto l’ho scordato.
Per un po’ di anni mi sono dimenticata di quell’autore, l’ho ritrovato poi, tempo dopo, nella libreria della casa dei miei genitori. Ho iniziato a sentirne parlare molto, da tutti. I miei amici ballerini hanno danzato sulle immagini di un suo libro, ma io non volevo saperne. Le cose che avevo sentito sul suo conto mi bastavano a pensare che la lettura di altre opere non mi avrebbe entusiasmato. In fondo, a parte l’atmosfera, a parte l’immagine dei due ragazzi, Norwegian Wood non era entrato nel mio cuore.
Passa qualche anno e nella mia vita accade qualcosa: inizio a correre. Non sempre, non costantemente, ma ogni tanto sì, ogni tanto corro. Non sono una maratoneta, non corro due ore di seguito. Non sono una che corre, io sono interessata alla corsa. E tra i tanti libri trovo un saggio, si chiama L’Arte di correre e l’autore è Murakami Haruki. Inizio a leggere, così, quasi svogliatamente, in uno di quei momenti in cui hai cinque minuti e non sai come riempirli. E inaspettatamente mi accorgo che ho voglia di andare avanti e che quella sarà la lettura che mi accompagnerà per i prossimi due giorni. Mi appassiono all’autore, alla sua vita. Sono colpita da alcuni episodi; il lavoro di barista, il fatto che abbia cominciato a scrivere a trentatré anni e che quell’inizio coincida con la sua attività di corridore. Murakami corre per scrivere: la disciplina, la perseveranza e la costanza, necessarie nella corsa, lo aiutano a mantenere una stabilità nella scrittura.
“Correre per scrivere”, mi piace. L’arte della corsa come l’arte della scrittura, entrambe si compiono in solitudine, l’uomo a contatto con se stesso, coi propri pensieri, col raggiungimento dei propri obiettivi. Mi appassiono allo scrittore – o al corridore – e, al termine del saggio, decido che è il momento per tornare a noi, a me e Murakami.
Da cosa inizio? Kafka sulla spiaggia, il titolo mi affascina. È ancora estate, posso leggerlo al mare, quel titolo è coerente.
– E così il denaro sei riuscito a trovarlo? – chiede il ragazzo chiamato Corvo. Il modo di parlare è il solito, un po’ strascicato. Come di uno che si è appena svegliato dopo una lunga dormita e ha i muscoli della bocca ancora intorpiditi. Ma il suo è solo un atteggiamento: in realtà è perfettamente sveglio. Come sempre. Io annuisco.
L’inizio mi cattura. Adoro quando un libro si apre con una conversazione avviata, giri la prima pagina e ti ritrovi testimone di un dialogo di cui non sai nulla. Sei disorientato, spiazzato, ma privilegiato. Ti rendi conto di essere ospite gradito, ma sai che devi ricorrere a tutta la tua sensibilità per non essere invadente. Occhi curiosi e discreti, ben aperti, occhi che si aprono e chiudono tentando di catturare, di visualizzare. Chi è il ragazzo dal nome affascinante? E con chi sta parlando? Avverti un piccolo tremore che somiglia quasi alla felicità e ti chiedi come tu possa ogni volta dimenticarti di quella sensazione di benessere che provi all’inizio di una storia, e provi pena e poca comprensione per chi non sa che farne di un libro tra le mani. Da subito capisci che questa volta sarà diverso, che quello che resterà non sarà solo un’immagine, che sei davanti a una storia. Sei sdraiata sulla spiaggia e pensi: “Avrei voglia di sognare. È un po’ che non sogno. È un po’ che non ricordo quello che sogno”.
Il regalo della settimana: eccolo lì il tuo sogno. Il tuo corpo è fermo, il respiro regolare, c’è silenzio intorno a te, ma sei sveglia, gli occhi sono aperti, un po’ stanchi ma aperti.
E allora cosa sono tutte quelle immagini che arrivano nella mente? Quei personaggi sfocati che danzano davanti ai tuoi occhi? Quell’atmosfera che se ti chiedessero di dipingere useresti un colore chiaro, quasi grigio, quasi ghiaccio? Quasi. Perché, nonostante i dettagli, niente in questo libro è definito, non lo sono i personaggi, non lo sono i confini. Nemmeno i nomi.
– Tamura Kafka, – ripete Sakura. – Che strano nome. Però facile da ricordare.
Annuisco. Non è semplice diventare un’altra persona. Ma cambiare nome è un gioco da ragazzi.
Tamura Kafka ha 15 anni, è scappato di casa per sfuggire all'agghiacciante profezia scagliata dal padre: “Ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre e tua sorella”. Il suo amore per i libri lo ha portato a scegliere come proprio rifugio e luogo di salvataggio una biblioteca. È qui che conosce Oshima, un bibliotecario androgino, di una sensibilità fuori dal comune, guida fisica e spirituale di Kafka.
– A causa del tipo di persona che sono, ho subìto discriminazioni in varie circostanze, - dice Oshima. – Che cosa significhi essere discriminato, e quanto profondamente si resti feriti, sono cose che solo chi le ha subite può capire. Ogni dolore è unico, e anche le cicatrici hanno una forma diversa per ciascuno. Perciò nel combattere la discriminazione e l’ingiustizia, credo di non essere secondo a nessuno. Ma se c’è una cosa che mi indegna ancora di più, sono le persone prive di immaginazione. Quelle che T. S. Eliot chiamava “gli uomini vuoti”. Persone insensibili che coprono questa loro mancanza di immaginazione, questo loto vuoto, con un ammasso di segatura, e senza rendersene minimamente conto, se ne vanno in giro per il mondo a tentare di imporre a tutti i costi questa loro ottusità agli altri, mettendo in fila parole vuote e senza senso.
Nella biblioteca c’è anche la Signora Saeki, una donna misteriosa resa immobile da una storia d’amore dalla tragica conclusione, sottomessa a un tempo che scorre solo all’esterno. Il suo tempo interiore è quello dei quindici anni, un passato eterno che sopravvive solamente in una dimensione tra il sogno e la realtà. Nel corpo della Signora Saeki sono racchiuse le pulsioni sessuali di Kafka adolescente, il cui desiderio inconfessabile coincide con quello da cui sta scappando: uccidere suo padre per giacere con sua madre. Una madre che lo ha abbandonato quando era un bambino e che potrebbe corrispondere, come età e aspetto, alla figura della Signora Saeki.
– Buongiorno, – disse il vecchio.
Il gatto sollevò appena la testa, e a voce bassa, di malavoglia ricambiò il saluto. Era un grosso gatto maschio nero, anziano.
– È una bella giornata, non è vero?
– Hmm, – fece il gatto.
– Non si vede nemmeno una nuvola.
– Pensa che questo tempo non durerà?
– Verso sera si dovrebbe guastare. Si sente nell’aria, – disse il gatto nero, allungando lentamente una zampa. Poi socchiuse gli occhi e osservò di nuovo l’uomo in viso.
Nakata è un vecchietto, da bambino è stato vittima di un misterioso incidente che lo ha reso incosciente per giorni e lo ha privato della sua intelligenza. Adesso è un po’ stupido, non sa né leggere né scrivere, si rivolge a se stesso in terza persona, ma ha un dono: sa parlare la lingua dei gatti.
Nakata e Tamura non si incontrano, ma il loro viaggio percorre le stesse tappe.
Le frasi sono brevi, vanno dritte al punto. Ai dialoghi, utilizzati come spunto per riflessioni profonde sulla condizione umana, seguono azioni descritte in modo chiaro e dettagliato. È lo stile che mi colpisce: il paradosso che alla trasparenza della forma non corrisponda un contenuto altrettanto limpido. Nella dimensione in cui scorre la storia non c’è possibilità di definizione, tutto potrebbe accadere e infatti tutto accade. Ma tutto si ricompone, torna ad essere chiaro, come la sua forma.
I personaggi sorvolano sulla storia, come fossero nuvole. Ognuno col suo viaggio, ognuno col suo destino. Li vedo sfocati, poco definiti, proprio come fossi in un sogno, dove si ha la libertà di essere se stessi e anche qualcos’altro, di essere contemporaneamente in luoghi diversi, così come Tamura, che dopo essere svenuto, si sveglia con le mani macchiate di sangue. La stessa notte muore suo padre e teme di essere stato lui ad ucciderlo. Nella realtà, delimitata da rigidi canoni spazio temporali, non sarebbe possibile, perché Tamura si trova in un altro luogo ed è incosciente. Ma nella dimensione del sogno, della metafora, della paura, dell’ossessione – o dell’inconscio – tutto si fa plausibile.
Mi ricordo dei miei sogni sfocati, delle volte in cui qualcuno è morto nei miei sogni, dei miei desideri inconsci, di tutte le volte che non sono stata in grado di stabilire il confine tra sogno e realtà e ne ho provato terrore. Penso che ci è voluto coraggio a uscire da quell’intricato viaggio adolescenziale, che è stato necessario fare i conti con il dolore, con la perdita e l’abbandono, proprio come Tamura.
Il mio pensiero va a Tamura, ai suoi 15 anni, a me e ai miei 15 anni. In fondo, Tamura è un adolescente qualunque e se la penna che narra fosse quella di un uomo qualunque, ci racconterebbe di un ragazzo alle prese con i problemi adolescenziali: l’amore, il dolore, la ribellione verso i genitori, l’amicizia e la scoperta della sessualità. Ma la penna non è quella di uomo qualunque, e io, dopo tanti anni di resistenza, finalmente l’ho capito.
“Il tempo grava su di te con il suo peso, come un antico sogno dai tanti significati. Tu continui a spostarti, tentando di venirne fuori. Non ce la farai, a fuggire dal tempo, nemmeno arrivando ai confini del mondo. Ma anche se il tuo sforzo è destinato a fallire, devi spingerti fin laggiù. Perché ci sono cose che non si possono fare senza arrivare ai confini del mondo”.
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