Alle amiche geniali...
di Stella Larotonda
I libri sono come gli amori: ci catturano, e non ci lasciano andare più. Ci sono autori che ci attirano, ci seducono, ci invitano a restare con loro. E ci raccontano, attraverso le loro storie, pezzi di noi...
Ho appena chiuso l’ultimo libro della quadrilogia di Elena Ferrante, Storia della bambina perduta. Ho riletto più volte l’ultima frase, non potevo credere che fosse quella conclusiva. Nemmeno un punto a capo, qualcosa che evidenziasse che il libro stava volgendo al termine, al suo termine definitivo. E poi quelle pagine bianche dopo la fine che ti fanno credere che manchi ancora un po’ e allora te continui a leggere pensando che hai ancora tempo, che non devi frenare. Mi pento di non aver rallentato, di aver sorvolato sui libri con la rapidità – a volte superficiale – di chi ha fretta di sapere come vanno a finire. Ma le storie di Elena Ferrante ti si aggrappano addosso con un tale peso che, se da un lato hai bisogno di liberartene, dall’altro tremi pensando al momento in cui non saranno più lì a farti compagnia. Mi sento un po’ triste… quella tristezza che si prova quando qualcuno ti dice che partirà, quando si ritorna dalle vacanze, quando sei in macchina, guardi fuori di notte e sopraggiunge l’immotivata malinconia, quando ti ricordi di un amore lontano che ormai non hai più. Ho perso qualcosa? Non dovrei averla trovata? I libri non servono a questo, a dare? Ma io mi sento triste lo stesso. Mi sarebbe piaciuto continuare così per sempre, mettermi a letto dopo una giornata stancante, accendere la mia lampada preferita e ritrovarle lì, quelle due amiche, quelle mie amiche.
Elena Greco (detta Lenù) e Lila Cerullo, da poche settimane, – non è molto che ho preso tra le mani il primo dei quattro libri, L’amica geniale – si sono stabilite in un angolo del mio cervello e lì se ne stanno ancora adesso, mentre mi muovo tra gli automatismi delle azioni quotidiane. Le vedo, avverto i loro sguardi severi che mi esaminano; mi sento parte dei loro litigi, delle loro cose non dette. Mentre scrivo penso a Lenù, alla bambina diligente, quella brava a scuola, buona e paziente, quella che si impegna perché ha deciso che vuole imparare. Una disciplina che la porta a raggiungere livelli sognati da bambina, quando il desiderio più grande era scrivere un libro come Piccole donne. Elena ce la fa, diventa una scrittrice, scrive romanzi di successo, articoli di interesse sociale, e nel suo lavoro riceve apprezzamenti e riconoscimenti. È la ragazza che parte, che se ne va per poi tornare e ripartire di nuovo, quella che tenta di staccarsi per vedere il mondo, conoscerlo e indagarlo con altri occhi. Gli occhi che sono un po’ suoi e un po’ di Lila (l’amica geniale?).
«Qualsiasi cosa succeda, tu continua a studiare».
«Altri due anni: poi prendo la licenza e ho finito».
«No, non finire mai: te li do io i soldi, devi studiare sempre».
Feci un risolino nervoso, poi dissi: «Grazie, ma a un certo punto le scuole finiscono».
«Non per te: tu sei la mia amica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine.
Le parole sono rivolte a Elena, ma l’intuizione che dietro all'amica geniale si nasconda Lila nasce subito. È proprio Elena a presentarci Lila dotata, sin da piccola, di un’intelligenza fuori dal comune, in grado di sfidare tutti, di eccellere in qualunque campo.
Già in prima elementare, era al di là di ogni possibile competizione. Lila faceva a mente calcoli
complicatissimi, nei suoi dettati non c’era nemmeno un errore, parlava sempre in dialetto come noi tutti ma
all’occorrenza sfoderava un italiano da libro, ricorrendo anche a parole come avvezzo, lussureggiante, ben
volentieri. Lila era troppo per chiunque.
L’unica qualità che Lila sembra non avere è la bontà. Lila è cattiva, o così appare nel confronto con Elena. Già da bambina riesce a difendersi dai soprusi del mondo maschilista del Rione, in cui a comandare sono i furbi, i violenti, gli uomini. Eppure Lila a un certo punto si ferma, cade nelle braccia del maschio dominante – comportamento che a me, lettrice e sua ammiratrice, delude così tanto che se potessi smetterei di parlarle per un po’ – mentre ad andare avanti è Elena, spinta da una forza originata non tanto da se stessa, quanto da sé in relazione con la sua amica geniale. I pensieri, le vittorie e le azioni di Elena sono quasi sempre reazioni al rapporto con Lila, conseguenze di un litigio o di una discussione, o di una semplice osservazione uscita dalla bocca della sua amica. Una vita può trascorrere nel tentativo di compiacere o competere con qualcuno che stimiamo a tal punto da averlo interiorizzato, come se l’avessimo mangiato e ora risiedesse legittimamente dentro di noi.
Lila che infonde energia a Elena, che la osserva, che la spinge a progredire. Ma anche Lila che esamina, Lila che giudica, Lila che non parla e che ostacola. Sì, perché l’amicizia - soprattutto tra donne - non è solo amore, supporto, stima e comprensione; spesso si trasforma in un continuo frenare, intralciare, un ricorrente inciampare non solo nei propri errori, ma anche in quelli dell’altra.
Diventare. Era un verbo che mi aveva sempre ossessionata, ma me ne accorsi per la prima volta solo in
quella circostanza. Io volevo diventare, anche se non avevo mai saputo cosa. Ed ero diventata, questo è
certo, ma senza un oggetto, senza una vera passione, senza un’ambizione determinata. Ero voluta diventare
qualcosa – ecco il punto – solo perché temevo che Lila diventasse chissà chi e io restassi indietro. Il mio
diventare era diventare dentro la sua scia. Dovevo ricominciare a diventare, ma per me, da adulta, fuori di
lei.
Ogni esperienza di Elena è attraversata dall’ossessionante “fantasma” di Lila che negli anni manterrà il potere di entrare violentemente nella sua vita privata di donna adulta ormai lontana, ormai realizzata. E io che me ne sto lì a seguire le loro avventure, non so mai per chi parteggiare. Mi ritrovo ad amare e odiare nello stesso tempo, prima una e poi l'altra; sono divisa tra queste due affascinanti bambinedonnemadrinonne che se dovessi disegnarle traccerei gli occhi a fessura di Lila, la bocca e la pelle di Elena, tutto in una persona sola.
Una volta ho letto una frase: “è attraverso lo sguardo delle altre donne che noi donne possiamo crescere”, o qualcosa di simile. Mi ricordo che pensai subito a mia madre, a mia sorella, alle mie amiche. Donne con cui ho avuto conflitti forti, le cui rigide opinioni, gli sguardi severi e le posizioni a volte inflessibili hanno influenzato le mie esperienze al punto da averle manipolate, o cancellate. Ma sono cresciuta, e tuttora cresco e, nonostante il desiderio incosciente di liberarmi della loro autorità, so che ne ho bisogno, che smetterei di progredire se mi trovassi sola, senza le mie donne.
Il mondo indagato da Elena Ferrante è tutto al femminile, quello maschile c’è, ma è spiato attraverso gli occhi di due bambine, poi donne, poi madri. Il rapporto tra madre e figlia è centrale in tutti e tre i libri; Elena e sua madre zoppicante, donna severa, violenta e sguaiata; Elena e le sue figlie (che odia e ama, che abbandona e ritrova, rivelando a se stessa che si può essere madri, pur non volendo rinunciare a essere donne); Lila e la sua bambina perduta, la piccola Imma, lei sì che era destinata a diventare geniale. Le immagini che descrivono il legame tra Lenù e la sua mamma autoritaria e anaffettiva sono cariche di verità, commuovono e si fanno spazio nel petto e nello stomaco con un'intensità che solo una donna – al di là di qualsiasi congettura sul sesso della misteriosa scrittrice – può trasmettere: la ricerca costante di un’approvazione negata, le carezze che infastidiscono, le urla ancestrali lanciate addosso, il silenzio, il rancore e il rimprovero, ma la perenne e durevole presenza.
Quando mi abbracciava prima che me ne andassi, sembrava che lo facesse per scivolarmi dentro e restarci
come una volta io ero stata dentro di lei.
I romanzi di Elena Ferrante tracciano quasi sessant’anni di storia, toccando avvenimenti realmente accaduti: le contestazioni degli anni ‘70, il movimento femminista, il mondo operaio, il sequestro di Aldo Moro, il terremoto del 1980 … Ogni esperienza storica entra nella vita delle due protagoniste, sconvolgendola. La scrittura di Elena Ferrante ha la qualità di guidarci tra i fatti della trama e della Storia senza divagazioni o abbellimenti stilistici. Il fine è comunicare: non c’è spazio per distrazioni sulla forma, ed è anche per questo che riusciamo ad aderire così profondamente alle emozioni dei personaggi narrati. Ricordo perfettamente il momento in cui, leggendo il secondo libro della quadirilogia, ho realizzato (ero in treno, leggevo e – come accade sempre quando un libro ti trascina con sé – non mi accorgevo della persona al mio fianco che chiacchierava del più e del meno, della voce che annunciava le fermate, del telefono che mi squillava nella tasca del cappotto): questi personaggi sono veri e da adesso in poi mi commuoverò con loro, io mi preoccuperò per loro.
Dedico queste riflessioni alle amicizie eterne, al nervosismo e l’inquietudine che può causare solo chi ti conosce davvero, dal principio. A tratti empatizzo con Elena, in altri momenti mi sento vicina a Lila; ho chiuso il libro, ma le due donne viaggiano nella mia mente e nei miei ricordi di quasi donna, di quasi adolescente, di quasi bambina. Quasi, perché un periodo definito, quando siamo noi a viverlo, non è mai così definito. Mi viene voglia di chiamare la mia amica geniale e parlare un po' con lei, chiederle come sta, raccontare un po’ di quello che mi succede, fingendo di non conoscere i suoi pensieri, ascoltando i suoi giudizi, simulando attenzione, mostrando di non sapere cosa muove le sue critiche. No, non lo faccio. Il pensiero mi rende nervosa, oggi il confronto non mi va. Preferisco non guardarmi allo specchio. Per ora.
Più articoli di questo autore