Amori che restano, malgrado noi
di Fausta Genziana Le Piane
Marguerite Duras sa raccontare le tensioni dei sentimenti, sempre caratterizzate dai contrasti, dalle contrapposizioni, dai giochi di ombre e luci. L'amore diventa esplorazione che si incide dentro, senza essere mai graffiata dal tempo...
"Gli occhi blu e i capelli neri dell’amore"
Non storia di un amore, più d’uno in realtà nel romanzo, ma storia dell’amore tout court. La scrittura di Marguerite Duras in Occhi blu, capelli neri, Feltrinelli, 2001, oscilla come sempre tra contrari: gioia/angoscia, luce/buio, interno/esterno, parola/silenzio, sonno/veglia, giorno/notte, chiuso/aperto, dimenticare/ricordare, fuggire/offrire, sorridere/piangere, inizio/fine.
Non indugia la scrittrice nella descrizione degli ambienti, sì, c’è il mare, una sera di fine estate di eccezionale bellezza, l’hotel des Roches, molto probabilmente in Normandia, una stanza, la stanza dell’amore, quello che tormenta, lacera, insegue: “Una sorta di sala di ricevimento, arredata in modo austero con mobili inglesi, comodi, molto lussuosi, in mogano scuro. Vi sarebbero sedie, tavoli, alcune poltrone. Sui tavoli, lampade, diverse copie dello stesso libro, portacenere, sigarette, bicchieri, caraffe d’acqua. Su ogni tavolo, un bouquet di due o tre rose. Sarebbe come un luogo abbandonato da poco, funebre.
A poco a poco, si diffonderebbe un odore, all’inizio sarebbe stato quello descritto qui, d’incenso e di rosa, poi sarebbe diventato quello, inodoro, della polvere di sabbia. Perché molto tempo dovrebbe sembrare essere trascorso dalla prima diffusione dell’odore.
La descrizione dell’ambiente, dell’odore sessuale, quella dei mobili, del mogano scuro, dovrebbe essere letta dagli attori con lo stesso tono usato per raccontare la storia. Anche se, a seconda dei diversi teatri in cui il dramma sarebbe rappresentato, gli elementi di questo sfondo non coincidessero con l’esposizione che qui ne è fatta, essa resterebbe immutata. In questo caso, spetterebbe agli attori fa sì che l’odore, i costumi, i colori si adeguino allo scritto, al valore delle parole, alla loro forma.
Si tratterebbe sempre di un luogo funebre, della polvere di sabbia, del mogano scuro (pp. 21-22).
Ecco un’altra caratteristica della scrittura di Marguerite Duras: la storia nella storia, la storia vista e vissuta nel presente, raccontata in prima persona e poi osservata dall’esterno con la telecamera e narrata in terza persona. La storia vissuta e la storia riferita. La storia vissuta tutta nell’attimo, nell’istante.
Nella stanza vuota, che dà sul mare e sulla spiaggia, non vi sono sedie, al centro, solo lenzuola bianche direttamente sul pavimento, la donna - una donna - dorme, oppure rimane sveglia, e l’uomo - un uomo - è seduto accanto e la guarda. Un lampadario dalla luce gialla come un faro illumina i volti.
La donna è descritta fisicamente, ma sommariamente, poiché è tutta nella voce, nelle parole e nello sguardo: “E’ giovane, porta scarpe da tennis bianche. Si vede il suo corpo lungo e flessuoso, il candore della sua pelle in quell’estate di sole, i capelli neri. Il volto non lo si potrebbe vedere che controluce, da una finestra che desse sul mare. Porta degli short bianchi. Intorno ai fianchi, una fascia di seta nera, mollemente annodata. Fra i capelli, un nastro azzurro cupo dovrebbe far presentire il blu degli occhi che non si può vedere. Lui è il giovane straniero (…)” (p. 12). Anche l’uomo è alto, sottile, elegante (…) Come lei, deve aver fatto sport a scuola, quand’era molto giovane (…) Era vestito di bianco (p. 25).
Nessuno dei due chiede all’altro il nome né il cognome, non si domandano nulla, accettano l’incontro senza sapere il perché. Nascono le emozioni. Come nel film “Ultimo tango a Parigi” del 1972 di Bernardo Bertolucci i protagonisti si esplorano e si interrogano l’un l’altro nel ritmo di incontri stabiliti, scanditi dallo scadere del tempo. E come per l’uomo e la donna del film ci sarà un futuro per i personaggi del libro? Hanno aspettative? Sanno già cosa ricorderanno, è la scrittura a dare il senso.
Entrambi portano con sé fantasmi di amori precedenti che l’uno vorrebbe ritrovare nell’altro ed è anche per questo che hanno la sensazione di essersi già conosciuti. Lui, lei nient’altro che la coppia che si cerca, si studia, si dilania, s’incontra, si lascia nell’eterno gioco dell’amore. Perché quegli occhi blu e quei capelli neri si sono già incontrati…: ”lei aveva visto – insieme a quella differenza di destinazione fra quel volto e il tutto dell’universo – l’uguaglianza della sorte che era loro riservata, e cioè che erano travolti insieme e annientati allo stesso modo dal moto del tempo, e questo fino alla ricostituzione della trama liscia dell’universo” (p. 122).
Guardare senza vedere, guardare attraverso la seta nera, il fazzoletto, che copre gli occhi o il volto significa ascoltare il suono delle parole, seguirne il flusso, e lasciare andare la fantasia: guardare con gli occhi chiusi, guardare senza sguardo, coprirsi con le lenzuola e scoprirsi accresce il mistero innescato dallo sguardo nascosto. Mistero e potere: ”Attraverso lo sguardo lo prende, lo tiene chiuso in lei fino a sentire male” (p. 94).
L’intero libro è dominato dal leitmotiv del pianto al quale entrambi i protagonisti si abbandonano per sostituire la parola, insufficiente ad esprimere talvolta la disperazione, lo struggimento mortale vissuto: proprio come quest’ultimo, le lacrime muoiono evaporando, dopo aver testimoniato: “…l’emozione che si prova a volte nel riconoscere ciò che non si conosce ancora, all’impaccio in cui ci si trova nel non poter esprimere questo impaccio a causa della sproporzione delle parole, della loro povertà davanti all’enormità del dolore (p. 133)”. I singhiozzi rivelano i protagonisti a se stessi: “Lui scopre che in vita sua, fino a quel momento, non ha pianto abbastanza. E’ stato necessario che s’incontrassero perché questo fosse possibile” (p. 99). Simbolo del dolore e dell’intercessione tra il cielo e la terra, la lacrima è spesso paragonata alla perla o a gocce d’ambra: quelle delle figlie del sole, che, alla morte del fratello Fetonte, si trasformarono in gocce d’ambra. Presso gli Aztechi, le lacrime dei bambini condotti al sacrificio per chiamare la pioggia simboleggiavano già le gocce d’acqua.
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