Hannah Arent “Vita activa”: politica come partecipazione


 

ArentIn un’ epoca in cui la  nozione  di politica  perde del suo valore intrinseco, il libro di Hannah Arent  allieva di Husserl, Heiddeger e Jasper “Vita Activa”, rappresenta un’importante  ripresa  di un concetto sano di  fare politica, mai  come oggi rappresenta un pensiero attuale rievocare “l’agorà greca” come punto di sutura di un confronto del dibattito politico. Harent pone l’attenzione sulla sua mitologia sociale, contrapponendo all’inevitabilità dello stato macchina, una concezione dell’agire politico nella sua forma pura, e cioè come suprema attività umana di compartecipazione. Attività che mai fu squisitamente colta come nella polis greca a cui Arent si riallaccia  per riscoprirla come un deterrente per una libertà che diventa reale, unicamente come libertà, dove il discorso filosofico si sveste di un concetto statico di esperienza, per porre un fondamento di esistenza e di comunità tale da designare le basi del vivere bene eu zen, nella formula magistralmente espressa da Aristotele. Hannah Arent nelle sue dinamiche di pensiero sviluppa una concatenazione di visioni tra loro sovrapponibili che spezzano una monotonia, lanciando una provocazione alla condizione umana cerca una diversa definizione dell’identità dell’ essere umano (chi è l’uomo) e la trova nella rivoluzione dell’agire. La più importante di queste premesse è l’uomo nella sua pluralità. L’azione è la sola capace di mettere in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, l’azione fonda e conserva gli organismi politici crea le condizioni per il ricordo cioè la storia. Il valore  intrinseco dell’azione politica è la risultante necessaria per tenere gli uomini uniti in  modo ordinato da qui ordinamento giuridico, dettami di leggi,  norme di regolamento . Con la scomparsa della Polis greca l’antica città stato, il termine vita activa perde il suo significato politico, il fare diventa complemento della tecnica ed il pensare trova ad avere come unico  oggetto il mondo  interiore e la sfera dell’agire viene sottomessa a quella del fare inteso  come produzione dell’utilità,il risultato finale e la spoliticizzazione dell’agire ed il trasferimento del gioco del politico nelle mani di pochi privilegiando l’economico come valore aggiunto e  rilanciando ad un sistema del progresso l’ identità nuova ciò che in chiave tradizionale era lo stato e il potere di  organo supremo che  ne  scaturiva lascia il posto alla pura amministrazione , a quello stato di affari che Marx predicava come la fine dello stato. Dall’altro canto la società si aspetta da ciascuno dei suoi membri un comportamento che tenda a normalizzare imponendo regole  che tendono ad omologare svariate condotte ,via via spegnendo l’azione spontanea o l’impresa eccezionale . Nella polis vigeva lo spirito agonistico,  distinguersi dagli altri, mostrare con gesta ed imprese  fuori dal comune di essere il migliore, perché alla sfera pubblica era riservata il valore degli uomini, desiderosi di condividere la responsabilità della giustizia, della difesa e dell’amministrazione degli affari pubblici, perché il corpo politico rendeva possibile la realizzazione di  un’opportunità. Agire è  dunque la parola chiave del suo percorso che nella cultura greca prima di Platone aveva un sublime primato, subordinato al pensiero nel successivo periodo, svalutato dalla contemplazione nel cristianesimo, soppiantato dalla conoscenza obbiettiva nell’epoca moderna fino a terminare nel trionfo del lavoro nell’epoca attuale, un trionfo guardato con sdegno, sdegno giustificato dall’impotenza dell’effettiva realizzazione.

I Greci distinguevano la vita attiva fatta di lavoro, creazione artistica e azione politica, dalla vita contemplativa. Nella prima l’uomo plasmava le cose al fine di renderle utili, durevoli, di conquistarsi quella immortalità dell’operare che poteva renderlo presente ai mortali anche dopo la morte. Nella vita contemplativa l’uomo era messo di fronte all’eternità del divino, che lo portava all’ascesi e al misticismo. Aristotele distinse tre modi di vita (bioi) che gli uomini potrebbero scegliere in libertà, cioè in piena indipendenza dalle necessità della vita e dalle relazioni da esse originate. Il prerequisito di questa libertà escludeva tutti i modi di vita dediti alla conservazione della vita stessa non solo il lavoro, che definiva l’esistenza dello schiavo, del tutto condizionato dalla necessità di sopravvivere e dal dominio del padrone, ma anche l’operare del libero artigiano e l’attività acquisitiva del mercante. In breve osserva Arent esso escludeva chiunque, involontariamente o volontariamente, per tutta la vita o temporaneamente, avesse perduto la libera facoltà di disporre dei suoi movimenti e delle sue attività. Questi tre modi di vita  invece, avevano la caratteristica comune di conoscere il “bello”, cioè le cose né necessarie né meramente utili: la vita dei piaceri corporei in cui il bello, come si offre, viene consumato; la vita dedicata alla polis, in cui l’eccellere produce belle imprese; e la vita del filosofo dedita all’indagine e alla contemplazione delle cose eterne, la cui immortale bellezza non può essere prodotta dall’intervento produttivo dell’uomo, né mutata dal fatto che egli li consumi. La differenza che si delineò tra l’accezione aristotelica e quella medievale del termine “Vita Activa”  risiede nel fatto che la  bios politikos si incentrava solo sul regno degli affari umani, insistendo sull’azione, la praxis, necessaria per istituirlo e mantenerlo in vita, né il lavoro, né l’opera avevano la forza tale da costituire un modo di vivere autonomo e autenticamente umano tenendo in qualche misura l’uomo schiavo delle necessità. La vita politica sfuggiva a questa dinamica perché nella concezione greca della polis essa si concretizzava in una forma di organizzazione dettata dalla libera scelta, non era di certo una forma di azione necessaria per tenere gli uomini uniti in modo ordinato. Con la scomparsa dell’antica città stato, il termine Vita activa perde il suo significato specificamente politico per indicare ogni genere di partecipazione attiva alle cose di questo mondo. L’azione veniva ora annoverata tra le necessità della vita terrena, cosi la sola contemplazione bios theoretikos tradotto come vita contemplativa, poteva essere ritenuto un modo di vivere veramente libero. Anche se il termine vita contemplativa sembra avere una valenza pressoché cristiana non è propriamente così infatti già in Platone ritroviamo questa visione, dove l’intera riorganizzazione utopistica della vita della Polis non solo è diretta dall’intuizione superiore del filosofo, ma non ha altro scopo che rendere possibile il modo di vita del filosofo stesso. All’antica libertà delle necessità della vita e dalle costrizioni degli altri, il filosofo aggiunge la libertà e il ritiro dalla vita pubblica(Schole). Il termine medievale Vita activa comprendente tutte le attività umane e definito dalla assoluta quiete contemplativa, viene vista anche  strettamente collegato alla askholia greca, inquietudine, con cui Aristotele designava ogni attività, piuttosto che bios politikos. Questo perché ogni genere di attività perfino i processi di puro pensiero devono culminare nell’assoluta quiete contemplativa per fare frutti, perché devono cessare davanti alla verità, sia essa la verità dell’essere o la verità cristiana di Dio che ha il potere di rivelarsi solo in una completa serenità. Il primato della contemplazione sopra l’attività si fonda sulla convinzione che nessuna opera prodotta dalle mani dell’uomo possa eguagliare in bellezza e verità il Kosmos fisico, che ruota nell’eternità immutabile tradizionalmente precisa Arent il termine vita activa riceve il suo significato dalla vita contemplativa il cristianesimo con la sua fede in una vita futura le cui gioie si annunciano nell’estasi della contemplazione, conferì una sanzione religiosa alla degradazione della vita activa a funzione secondaria, dipendente; ma la determinazione di questo ordine coincise con l’effettiva scoperta della contemplazione(teoria) come facoltà umana che si verificò nella scuola socratica e che da allora in poi ha governato il pensiero metafisico e politico durante tutta la nostra tradizione..”Con l’età moderna, la vita attiva e quella contemplativa perdevano la loro ragion d’essere. Il theoréin passava dal filosofo allo scienziato o meglio ai suoi strumenti, diventando così la più astratta delle attività pratiche. Il fare diventava un complemento della tecnica e il pensare si trovava ad avere, come suo unico oggetto, il mondo interiore per il tramite dell’introspezione. Una tale trasformazione influì anche sulla sfera sociale: la sfera dell’agire fu sottomessa a quella del fare e dell'utilità. Il risultato fu la “spoliticizzazione” del fare e il trasferimento del “gioco politico” nelle mani di pochi. La Arendt critica la società moderna perché ha privilegiato l’economico ed ha dimenticato il vero significato dell’agire. Ogni azione è un inizio. Quando un essere umano nasce è una singolarità assoluta, che apre un imprevisto nel mondo. E’ agendo che noi ci mostriamo. Nell’azione c’è anche rischio perché le conseguenze di ogni azione sono senza limiti e non dipendono da noi. Iniziare qualcosa è politico, perché è visto e rilanciato dagli altri. Presuppone dunque una pluralità di esseri umani in rapporto tra loro. Però non è sufficiente agire perché ci sia una vera e propria azione significativa. Occorre che quella azione venga raccontata. Bisogna che ci sia qualcuno che faccia conoscere quella azione a chi non era presente e la tramandi alle generazioni future. E solo così il tempo che viviamo non è semplicemente quello biologico della vita e della morte, ma ha un passato e un futuro significativi.   Alla radice della convinzione moderna c’è la statistica, la scienza sociale per eccellenza,le leggi della statistica sono valide solo quando si applicano alle leggi dei grandi numeri,il senso si ritrova in un aumento della popolazione e in una perdita delle deviazioni. Il comportamento uniforme che si presta alla  determinazione statistica e quindi alla corretta previsione scientifica, non può essere spiegata con l’ipotesi liberale di una naturale armonia di  interessi, ma come una finzione comunista che  consiste nel riconoscimento di un unico interesse della società, è una mano invisibile che guida il comportamento contrastante degli uomini e produce armonia dei loro interessi, ma ciò è impossibile. Vivere insieme nel mondo significa includere la sfera privata in un contesto di pluralità, laddove la sfera pubblica ci mette in relazione ed ha la capacità di  riunirci così come di separarci, ispirandosi ad un  concetto sano di valorizzazione del proprio talento, non dovrebbe l’amministrazione pubblica incarnare un ruolo determinante dei bisogni da soddisfare qualcosa che può essere  usata e consumata, ma qualcosa che perdura, un punto di riferimento per ogni esigenza. La fine del  mondo comune è destinata a  prodursi, quando esso viene visto sotto un unico aspetto e può mostrarsi in una sola prospettiva,  perché scaturisce una paralisi, che sfocia in  una crisi di identità con la classe politica con l’involucro di stato, si  acuisce il divario tra politica e cittadino e si manifesta con l’ astensione alle urne ed incapacità di rappresentanza…

 

Francesca Di Nola- giornalista e saggista


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