Avrei potuto accompagnarla
di Alessandra Marrone
Girò la testa verso il lato sinistro del letto e le sue labbra stanche incrociarono le mie, in un tenero bacio familiare. Fu l’ultima volta che gli fui vicina.
Avevamo scoperto la malattia due anni prima, la VES altissima delle analisi aveva allarmato il medico di famiglia, che gli aveva prescritto una serie di esami più approfonditi.
Prima di allora, era stato dal medico un paio di volte in vent’anni; ora, ahimé, aveva iniziato a frequentarlo più spesso anche se, come al solito, delegava sempre mia madre.
Nevicava, quel 9 di gennaio a Chieti; mia madre, incurante del tempo, prese l’autobus dalla stazione di Pescara e si recò all’ospedale per ritirare le risposte della biopsia.
Cancro. Cancro alla prostata, già diffuso nelle ossa.
Uscì fuori, il freddo era pungente. Nevicava, ma lei non se ne accorse, si sedette sulle scale esterne del pronto soccorso e si accese una sigaretta. Si mise ad osservare il fumo davanti ai suoi occhi. Il cervello era come fuori dal corpo, in quel momento sarebbe potuto crollare il mondo, lei di nulla si sarebbe accorta.
Gettò la cicca per strada, pestandola con un piede per spegnerla e a testa bassa, referto in mano, si recò alla fermata dell’autobus. Lì, con i pensieri affondati nella neve, restò in silenzio ad aspettare, curva sotto il peso del dolore e della paura, in attesa di una parola che si facesse strada nella mente, trascorrendo così, i minuti più brutti della sua vita.
Ero al lavoro. Avrei potuto accompagnarla, ma non lo feci. Però pensai a lei tutta la mattina.
Avevo lasciato che una donna, ormai sessantenne, andasse da sola con quel tempo da lupi e con quei pensieri. Non capii che in quel momento aveva bisogno di me, come non capii tante altre cose.
Chiusi gli occhi e girai la chiave nella serratura, la casa era sempre uguale – cosa sarebbe dovuto accadere, nel frattempo? –, spalancai la porta, il corridoio nella solita penombra era vuoto, mio padre in sala, pacificamente seduto sulla poltrona a guardare la televisione. Le braccia conserte, come sempre.
Indossava la sua abituale giacca da casa; era tranquillo, quasi rassegnato, come da quando erano iniziati i primi dolori.
Meno male – pensai.
Ciao pa’ – dissi – Ciao! – rispose lui con la sua solita serietà.
Appesi il cappotto all’entrata e diedi un’occhiata alla tv, in realtà prendevo tempo, non me la sentivo di affrontare mia madre.
Mi diressi in cucina velocemente, e rapidamente iniziai a mangiare il piatto di pasta caldo sul tavolo, senza alzare la testa.
Arrivò silenziosa, fece finta di rimettere a posto piatti e bicchieri; alla fine le domandai. Chiuse la porta per non farsi sentire e mi raccontò.
La guardavo parlare, quando ha paura ed è nervosa si passa il pollice e l’indice tra le sopracciglia e il naso in continuazione, dall’alto verso il basso e viceversa.
È incredibile la tranquillità che mi trasmette con quel gesto.
Il cielo era scuro e impacchettato dalle nuvole, non aiutava. Lo guardai alzando gli occhi dalla finestra. Guardo sempre il cielo, mi aiuta a pensare.
La cucina si affaccia su un cortile così piccolo che soffoca i sogni e l’unico modo per scappare dal cemento e dal grigiore è quello di alzare gli occhi in alto, alla ricerca di un infinito.
Mi ascolti? – disse. Sì, mamma. La sua voce mi riportò a terra, iniziammo a parlare del da farsi, divenni sempre più nervosa e in un paio di occasioni la aggredii, com’ero solita fare, smise di parlare e abbassò gli occhi, stetti zitta anch’io.
Bisogna dirlo alle tue sorelle e a tuo fratello - disse e andò via in camera da letto.
Dopo un po’ arrivò mio padre a chiamarla e tutti e due si allungarono sul letto, per il riposino pomeridiano.
Erano entrambi in pensione da circa tre anni, avevano lavorato tanto e ora si godevano il meritato riposo, andavano spesso a fare la spesa insieme. Non era mai successo prima, perché avevamo un negozio di alimentari.
Lei aveva anche imparato a fare le torte, ne faceva però di un tipo solo: il ciambellone al caffè, ma per noi che non eravamo abituati a nulla, era buonissimo; lo divoravamo io e papà, lui mi guardava mentre lo addentavo, sorrideva e diceva: «Uhm, la signora Marro’ s’è imparata a fa’ i dolci alla vecchiaia!». Ridevamo, e lei rideva sotto i baffi, orgogliosa.
Era un bel periodo quello, io avevo trovato un lavoro e loro, loro potevano godersi un po’ di tranquillità.
Avevamo una casa ad Alanno, un paesino di collina della val Pescara.
Mia nonna, la mamma di mio padre, era originaria di lì, così, qualche anno prima del pensionamento, papà ebbe l’occasione di comperare un pezzo di terra da quelle parti e costruirvi una casetta.
La costruzione occupò gran parte del suo tempo e delle sue forze; avvenne per gradi, in base ai soldi a disposizione, ma questo l’ha resa ancora più desiderabile; aveva una bella vista sulla Majella, la montagna-madre di noi abruzzesi; spesso, quando ero più ragazza, mi incantavo a guardarla nei pomeriggi, godendo dei tramonti fatati che regalava.
La casa, a tre piani, era diventata col tempo il rifugio estivo dei miei genitori; d’inverno invece, decisamente fredda, era meno frequentata, di tanto in tanto una visitina, giusto per accertarsi che tutto fosse a posto.
In estate, intorno a Ferragosto, ci riunivamo tutti lì, grandi pranzi, grandi risate, i bambini correvano in bici sotto il solleone e ogni tanto cadevano rovinosamente sulla ghiaia, e giù pianti e mamme che correvano a rassicurare i propri figli, «dai, che non è successo nulla, solo un po’ di sangue …».
Un’allegra brigata che amava trascorrere delle giornate indimenticabili insieme. Indimenticabili sono stati infatti tutti i Ferragosti e i Natali trascorsi insieme, li ricordo ancora perfettamente.
Dove sei?
Qui in camera, sto guardando la tv.
Papà è uscito.
Sì, l’ho sentito – risposi.
Adesso telefono alle tue sorelle, per dargli la notizia.
Ok, che bella notizia! – pensai.
Il pomeriggio vide mia mamma continuamente al telefono, tra le mie sorelle e mio fratello. Volevo andare fuori, respirare un po’; l’aria in casa era pesante, forse mio padre era uscito, pure con quel freddo, perché aveva capito tutto e non aveva voglia di vivere quei momenti. Sarebbero stati sufficienti quelli a venire!
Mentre mia madre parlava al telefono io, come un leone in gabbia, andavo su e giù per la casa, le tempie mi battevano forte, e alla fine delle telefonate ero stremata.
Per quella sera decidemmo di fare finta di nulla, ma bisognava organizzarsi per dirglielo, in modo che si lasciasse curare.
Andai a letto, ma ovviamente quella notte non dormii, era la prima volta nella mia vita che i pensieri non mi facevano prendere sonno.
«L’avevo capito! Ho sentito mentre in ospedale dicevano: «È pieno».
Restò in silenzio, deglutì più volte, ma mantenne un’espressione apparentemente serena. Queste parole mi rimbombano ancora nella mente. Perché io? Perché proprio io, che ero la più piccola, avevo dovuto dire a mio padre una cosa del genere? Mi aveva accompagnato Concetta, la sorella più grande, ma alla fine la frase: “Papà hai il cancro” l’ho dovuta pronunciare io!
Mi sono sentita come un boia che con la scure uccide il condannato. E il condannato eri tu, papà; tu, che con la tua intelligenza avevi già capito tutto da tempo, tu che accettasti la cosa, come hai accettato tante sconfitte in vita tua. Questa sarebbe stata l’ultima.
Fu il giorno più brutto della mia vita e, forse, della vita di tutti noi. Era un sabato pomeriggio, ero in sala, mentre gli altri sostavano lungo il corridoio ad origliare. La giornata era grigia, le nuvole nere, cariche di pioggia, le avevo viste nello spicchio di cielo che la finestra della stanza permette di intravvedere, tutto questo mentre prendevo il coraggio per dirti quello che ti dissi.
A poco a poco nel salone arrivarono anche gli altri e cominciammo a parlare delle cure possibili. Tu, com’era prevedibile, eri rimasto infastidito da quella pacifica invasione della tua famiglia, ma dopo un po’ ti eri arreso alle nostre proposte di aiuto: ci amavi, anche se sapevi già che sarebbe stato tutto inutile.
Il piano prevedeva una serie di incontri con dottori specializzati in oncologia, urologia, e non so più che altro.
Ognuno di noi diceva il nome di un dottore che un amico, un conoscente gli aveva citato come 'guaritore'; ognuno stava facendo una gran confusione. Annaspavamo nelle menti come cani in mezzo all’acqua, per tirar fuori un aiuto, una conclusione.
Tu stavi zitto, le braccia conserte. Abbassai la testa, “non è possibile, non è possibile, maledizione – pensai – è come se il sogno di vederti morire che avevo fatto qualche anno prima quando, poco più che sedicenne, ti avevo odiato per la tua rigidità, per la tua coerenza – proprio come oggi mi detesta mio figlio – si fosse avverato”.
Alzai la testa e i nostri occhi si incrociarono; i tuoi da “pesce lesso”, come ti dicevo sempre e i miei così profondi. In un secondo, mi facesti capire che tutto questo agitarsi non ti interessava affatto.
Non so come rimanemmo d’accordo sul da farsi, ma a un certo punto, fratelli e sorelle tornarono a casa loro, e rimanemmo soli io, tu e la mamma.
Cenammo, una minestrina. Io e mamma cercammo di riprendere il discorso ma tu non volevi saperne, «domani ne parliamo, ora voglio sentire il telegiornale».
Noi, zitte, facemmo finta di niente e continuammo a guardare la tv.
Ma l’indomani non ne parlammo, e neanche il giorno dopo e neppure il successivo.
Non ne parlammo mai.