“Bevete cacao van Houten!”: frammenti di morte e bellezza
di Donatella Conte
La prima cosa che si pensa quando si osserva la copertina di un libro è l’immagine, oppure, per i maniaci delle lettere, il titolo. Così, quando ho individuato il volume “Bevete cacao van Houten!” sugli scaffali delle libreria universitaria, mi sono detta: ‘che razza di titolo è?’ Può sembrare un topos, una banalità, una riduzione del valore letterario dell’opera ma la cosa evidente era che quel libro era riuscito a rimanere impresso nella mia memoria, come una scheggia, come un melico dolore legato alla persona che amiamo. E tutto ciò grazie alla dissacratoria forza del titolo. Leggere questi quattordici racconti dallo stile fulmineo, tellurico, virgineo e ribelle, è stata la scelta libraria più sensata che io potessi compiere. Dall’analisi del titolo è iniziata la mia esperienza di lettura di Vorpsi, scrittrice nata a Tirana ed emigrata in Italia all’età di 22 anni. Oggi è considerata una dei 35 scrittori europei migliori, come riportato dall’antologia Best European Fiction. Ma non perdiamoci, torniamo al punto principale:
Ornela Vorpsi: Un’artista, un’anima rivoluzionaria e romantica al tempo stesso, legata alle tradizioni della propria terra, l’Albania, avida di novità, mai stanca di gridare il suo disappunto al mondo. Tutto questo si evince nei racconti di Cacao Van Houten. Ma non perdiamoci di vista, torniamo al dilemma titolo. La giovane Ornela rimane colpita all’età di sedici anni da una raccolta del poeta russo Vladimir Majakovskij, “La nuvola in calzoni”. Una raccolta di poesie che reca un aneddoto di rilievo: quello sulla storia di un uomo condannato a morte che sceglie di mercanteggiare gli ultimi minuti della propria esistenza,” vendendo” il momento estremo della terribile esecuzione, con una promessa: lui avrebbe declamato lo slogan del Cacao Houten e in cambio la sua famiglia avrebbe ricevuto come compenso una somma di denaro necessaria a vivere dignitosamente per almeno due anni. Ma qual è il nesso, il cavillo che intreccia questa scelta dello scrittore in riferimento ai racconti, di argomento eterogeneo e versatile? Basta sfogliare le pagine del libro e scegliere un racconto, uno a caso e tutto sarà chiaro: la chiave del nesso sta nella disperazione, in una vena estrema di solitudine, di eccesso d’amore, d’asfissia relazionale, di rapporti spesso malsani e di egoistica presenza.
Ma chi sono i personaggi? Sono tutti (o quasi) nati in al Albania, spesso materialisti e sciocchi, altri invece quasi rudimentali, semplici e gretti. Ci sono personaggi giovani, molto giovani. Quasi tutti hanno lasciato la terra d’origine per cercare lavoro, una vita diversa, la libertà, la certezza di diventare qualcuno. Così si sceglie di partire verso la terra delle speranze deluse, l’Italia, come Teuta, che Mauro ha sedotto e illuso, facendole credere che c’era un posticino per lei nella sua vita in una bella casa a Roma, in Via dei Gracchi. Peccato che quella casa, quella strada, quel numero civico non esistono. Quelle di Ornela non sono solo anime di emigranti: sono anime in pena, colme di speranza e vanagloria.
Ma c’è un altro elemento a turbare la giovinezza nei testi, come una nube tossica che uccide il brio della vita. E’ la morte. I giovani nel libro sono pazzi, come Arti, belli ma vuoti, tossicodipendenti, gente spiantata e infelice. Giovani esistenze che barcollano come nel buio di un paese che non può offrire che incertezza e disillusione; hanno perso tutto e devono reinventare un futuro che non esiste, se non in orizzonti vaghi ma fascinosi. Non c’è possibilità di vivere (se non in modi tormentati o estremi), in questo universo narrativo, per chi è giovane. E come dice Gazi: “A me non può succedere niente! Guardami bene, sono una roccia! E poi, a ventott’anni, cosa può capitarti di male?”. Gazi scompare nel nulla poco dopo, le sue parole sembrano sancire la certezza che la vita muove sull’evidente forza di una sentenza ingiusta: tutti possono morire, anche i giovani. La morte non fa sconti a nessuno.
Morte e bellezza sono legate indissolubilmente, avviluppate quasi in un’unione tragica e sensuale, perché di erotiche allusioni, o riferimenti velati al mondo dell’eros, della passione smodata, ne troviamo, eccome ma nascosti quasi sotto un sensuale velo di Maya. D’altronde, è la scrittura vorpsiana ad esserlo, sensuale. Uno stile fluido ma anche sferzante, seduce ma senza volgarità. Tornando ai temi dell’opera, anche quando ci si innamora, lo si fa troppo, con morbosità e gelosa attrazione verso l’altro. Come la ragazza di ‘Lui e i miei capelli biondi’. Lei si tinge i capelli, vuole diventare biondo platino, ma per quale motivo? Per nascondere la propria inferiorità dinnanzi all’oggetto del suo eccessivo, tutto mondano, amore. Come se solo chi è bello, fisicamente, voluttuosamente bello, possa amare in quel modo performante: un amore del genere può tutto anche uccidere. I personaggi vorpsiani amano infatti come sulla Terra si può fare, con tutto il loro corpo e l’anima, di seguito, rimane ingabbiata da questo attaccamento ai sentimenti ‘tutto-terra’. Non che non ci sia anima in questo libro, anzi! E’ un eccesso di animosità, tutte le emozioni sono estremizzate. Questo perché la ragazza dai capelli biondi, per esempio, si sente diversa e vuole essere altro, non vuole somigliare agli europei, tutti monotonamente castani. Vorrebbe alienare la propria diversità, ma è esattamente in quella sua presunta inferiorità che si specchia, riconoscendosi. In breve, è consapevole che quel biondo è un solo un artificio, una maschera per sentirsi più bella, accettata dall’uomo che ama.
Ornela Vorpsi ha scelto delle persone spoglie, che bramano rivestirsi di oggetti spesso superflui ma attraenti, effimere consolazioni ad un passato di soprusi o privazioni. Mi fa venire in mente, questa lotta tra sobrietà e sofisticatezza, tra un mondo quasi incontaminato come l’Albania ed il paese in cui le pochette vengono scelte perché di Vuitton, la lotta tra i felici pochi e gli infelici molti di Elsa Morante. Conta più essere o apparire? Meglio l’essenziale o il ricercato? Vorpsi a modo proprio cerca di rispondere. Emblematico, e con questa citazione concludo, l’Epilogo di Bevete cacao Van Houten: Quel dettaglio delle scarpe gialle, con lieve sapore kitsch si presenta sulla pagina, quasi le avessimo sotto i nostri occhi, perturbante ospite:
“Guardai le scarpe gialle, strettamente annodate attorno alle caviglie dell’uomo, e osservai con estrema attenzione le suole di gomma, di un beige traslucido, che sembravano due ramponi insensibili e possenti ancorati al suolo. L’insensibilità di queste scarpe, ecco cosa mi gettò in un terrore senza nome.”
Quel giallo di terrore è semplicemente lo shock di un osservatore che non è abituato ad assistere a tanta vanità, tanto colore, tanta preponderanza, come se le scarpe fossero “troppo” evidenti, quasi personificate, mentre, come riconosce l’autrice del libro, in Albania le scarpe erano utili ad un solo scopo, non erano né belle né eccentriche, mai. Il terrore di Ornela la spinge a porre questo racconto come conclusivo della raccolta, elemento sintetizzante di un percorso di andirivieni tra bellezza, vanità, esteriorità da una parte e integrità, semplicità dall’altra. E Ornela fa esattamente questo con i suoi racconti: ci introduce nell’inferno delle superficialità per poi riportarci verso l’alto, verso la luce, a toccare l’essenza delle cose.