"Cuore cavo" di Viola Di Grado
di Marina Brunetti
Questo romanzo di Viola Di Grado inizia da una fine, con un titolo che sembra la trasposizione antropologica di ciò che accade nel mondo vegetale a un tubero, la patata, che da malata assume appunto il romantico appellativo di “cuore cavo”, quando muore al suo interno per mancanza di acqua, per siccità.
Il parallelo metaforico con la protagonista del libro, Dorotea Giglio, che si congeda dal mondo per sua stessa mano, sembra inevitabile. Qualcosa, anzi molto, doveva mancare nella sua vita, al punto da indurla al “guasto perfetto senza ritorno”; mancava una finestra, mancava la luce, parafrasando Yates (Undici solitudini); ciò che per il tubero è l’acqua, così per l’essere umano la linfa di ogni tempo è data dall’amore che si è avuto, in cambio di quello dato ma incompreso.
“Nel 2011 è finito il mondo, mi sono uccisa.
Il 23 luglio, alle 15.29, la mia morte è partita da Catania. Epicentro il mio corpo secco disteso, i miei tre cento grammi di cuore umano, i seni piccoli, gli occhi gonfi, l’encefalo tramortito, il polso destro poggiato sul bordo della vasca, l’altro immerso in un triste mojito di bagnoschiuma e sangue”.(ivi, pos.12)
Stordisce i sensi e li rapisce questa scrittura originale che assesta pugni ovunque, per destare dal torpore e dalla noia la gente che non s’accorge del suo addio, che non accomuna neppure il suo ultimo respiro al fiotto del vulcano:“Alzando gli occhi al cielo i catanesi sono stati sorpresi da una pioggia dura e nera. Qualcosa si era fermato, qualcosa non poteva più essere rimediato. Tutti hanno abbassato gli occhi brucianti, nessuno mi ha riconosciuto”. (ivi, pos.34)
Da sempre il cuore è la sineddoche umana per eccellenza, inerme ricettacolo di gioie ma soprattutto di colpi inferti dal destino o dalla semplice apatia affettiva degli altri; è il primo organo a soccombere e annullare le sue proprie funzioni, il rigor mortis lo attacca e lo costringe, ancora una volta, a ripiegarsi su di sé, a ispessire le pareti, per la finale delusione: “Poi è toccato alle palpebre e a tutti i muscoli del mio viso smunto. […] Dodici ore dopo ero interamente rigida. Poi è toccato al resto del pianeta”. (ivi, pos.45)
Fino a quell’afoso attimo di luglio, la vita scorreva nella malsana routine esistenziale, fatta di pochi esami restanti, di un lavoro e di una serie di tarli che avevano iniziato a lavorare molto tempo prima che da morta, uno sfiancante lavoro di evitamento del dolore, di rifiuto affettivo da parte di una madre traumatizzata dalla perdita di una sorella suicida, dall’assenza di un padre, «la paternità non è che un piccolo risultato - direbbe Lalla Romano - mentre la maternità è paradiso e inferno», dall’abbandono di un amore: “Era facile abbinare i brividi ai ricordi. A quelli miei o a quelli che mi aveva contagiato mia madre”. (ivi, pos.55)
L’ansia da abbandono che lavora solerte, l’assenza di un padre che avrà, come sempre accade, ripercussioni nell’attesa continua di un segno: “Dentro la bara soffro come se la solitudine fosse ancora rimediabile. Come se mio padre potesse tornare da un momento all’altro a rimboccarmi la pelle rimasta” (ivi, pos.202); i perché di un gesto sono tanti: la latitanza materna, l’anaffettività, l’incapacità di accudimento, vuoti esistenziali sempre pronti a “trucidare i momenti belli che passavo con Lorenzo”, il quale, nonostante l’adoperarsi iniziale per sopperire medicalmente alle gravi carenze di Dorotea, finisce per soccombere di fronte alle di lei insanabili fragilità: “Lorenzo mi aveva abbandonato in settecento caratteri, la misura massima consentita da un sms prima di sforare nella tariffa doppia, mentre studiavo sul dondolo della villa di zia Clara a Costa Saracena”. (ivi, pos. 67)
La catabasi nella materia-inferno della giovane protagonista, non ha nulla a che vedere con il “gorgo muto” di Pavese, o con l’apoteosi descrittiva di Dante, se non nel fatto che anche la sua anima in pena non faccia che ripercorrere i propri passi, obbligata a scontare un dolore pari ai peccati commessi durante la vita, oppure con quella di Ulisse, che resta sulla soglia del regno dei morti: è un percorso fantasmatico accurato di quanto le accadrà nei tempi del disfacimento fisico, delle tenere prese di coscienza che non avranno alcun riscatto nel futuro, “Non volevo crescere. Volevo rimanere bambina per quando un giorno mio padre sarebbe tornato. Non volevo che quel giorno, aprendo la porta, non mi riconoscesse”, "Dovevo rimanere come un fossile, sepolta nella mia casa polverosa finché il suo ritorno mi avesse riesumata” (ivi, pos.416 e 530), un’analisi entomologica che lei riporterà doviziosamente in ogni sua sfaccettatura, rivelando una cultura sorprendente sul mondo degli insetti, poveri incaricati consolatori nel buio di una bara, se da una parte le faranno compagnia, dall’altra la consumeranno. Non c’è un divario netto tra la vita e la sua fine, non vi è un traumatico passaggio dallo stato sensoriale a quello del silenzio eterno, dei sopiti sensi. Non vi è un alto scalino oltre il quale aspettarsi il vuoto e non è neppure un “lasciare ogni speranza”, la vita sembra quasi continuare, pagina per pagina, in un continuo incedere e spiare coloro che restano, la madre, la zia o il datore di lavoro, o colui di cui si innamora da morta, Alberto: “Signore e signori, la malattia è finita: il cuore si è fermato, e con lui gli altri sintomi. Signore e signori, lasciate accanto alla mia lapide un contributo in fiori pari al vostro cordoglio. Adesso non potete più usarmi o farmi del male: è il turno dei vermi. Né potete calpestarmi: arrivano prima le radici degli alberi. Signore e signori, non andate via: la mia morte, sottoterra, continua, continua, continua”. (ivi, pos.219).
La Di Grado affronta temi interessanti racchiudendoli in frasi, come quello del significato del dolore: “Avevo capito che il dolore è una matrioska: non finisce si nasconde solo dentro nuovi dolori e ogni nuovo dolore li contiene tutti” (ivi, pos.521) e della morte: ”Ecco cos’è la morte: una matrioska di stanze vuote. Peccato, proprio adesso che l’amore sarebbe stato davvero eterno” (ivi, pos.1205). L’intento della scrittrice, tramite Dorotea che le fa da portavoce, è quello di abbattere la barriera tra vita e morte, “questo noioso tabù occidentale, non risparmiando alla (sua) analisi nessuna fase dell’esistenza. Vita e morte non come evento, ma come processo, da mosca a mosca”. (V. Merlini, Intervista a Viola Di Grado, «Panorama» 1 marzo 2013) Un’acribica documentazione della decomposizione che può, per qualcuno, divenire elemento perturbante durante la lettura e questo anche perché, “culturalmente, tutti noi poniamo una barriera tra la vita e la morte: il disfacimento fisico inevitabile, un altro dei nostri tabù, si trova a una fase intermedia, quindi ambigua e che mette in discussione questo muro presentando la morte per quello che è davvero: non un evento ma un processo” (ibidem).
Non esiste una vera fine, sostiene la Di Grado, quando rappresenta Dorotea da morta come un fenomeno geologico universale: “Il mio sangue alla base dell’Etna, sotterraneo, arginato dalla roccia. Il mio sangue che spinge da sotto gli steli e le radici delle querce. Raggrumato dentro ogni pianta, prosciugato nella bocca aperta di ogni petunia rossa. Inspirare, adesso, è vento” (ivi, pos.1245); gli atomi si riciclano in altri esseri umani, tutto si trasforma, lasciando campo aperto a tutta una serie di interrogativi inerenti la metempsicosi: “Equivalgo a tutto il resto, come accade a chi non è più nulla. Sono una libera associazione, una figura vuota, un album da colorare. Ma anche se sono uno sguardo volatile fuori dal mio scheletro, posso tornare dentro la mia gabbia toracica quando voglio. Posso stringere il metacarpo e le falangi come quando tenersi per mano era consolante. Posso fare tutte queste cose perché io e il mio scheletro ci amiamo: siamo in una specie di relazione aperta, e io sono gelosa di tutti gli insetti, del vento e della pioggia, dei batteri anaerobi”. (ivi, pos.617). Per questa ragione e per tutto il corso del libro la giovane continua a vivere le sue giornate, a vedere da invisibile, a interagire con persone defunte, a lavorare, ad amare ma, nonostante questo, l’inaccettazione da parte della società è ugualmente avvertita, da viva come da morta:
“Il mio nome sparì presto dalle bocche di tutti , e quando usciva aveva l’alito di alcol e di sonno disturbato. Il mio nome non c’è più nei pensieri di Lorenzo ma lì è sparito già da tempo, ora pero è sparito anche dalla sua rubrica telefonica. Quando il mio nome viene pronunciato, io non rispondo: il silenzio è il mio centralino, risponde per me. Il mio nome è una casa abbandonata” (ivi, pos.767)
L’unico peccato della giovane è quello di non sentirsi accettata, prima ancora che dalla società, da se stessa: “Era una liberazione, essere finalmente fuori di me: da viva passavo troppo tempo dentro di me, segregata nel freddo monolocale del mio cervello, con tutte le finestre rotte e le serrature da oleare. Soffocavo nell’aria viziata della mia infanzia, coinquilina di tutte le me del passato senza avere le chiavi di casa” (ivi, pos.978). Credo sia questa la frase chiave di questo coraggioso e magnifico romanzo, indelebile gesso bianco su lavagna nero inferno che, una volta di più, ci sussurra una lezione che andava ripetendosi anche un grande del passato:
“Devo perdonarmi per il mio bene. Non si può sempre nutrire una serpe in seno, né alzarsi ogni notte a seminare spine nel giardino della propria anima” (Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde).