Donne antiche, donne libere
di Rita Cugola
La donna dell’Antico Egitto godette di libertà impensabili persino ai nostri giorni.
Protagonista del suo tempo, riuscì a raggiungere vertici supremi a livello sia professionale che personale. Osannata e rispettata in società, era addirittura venerata in casa propria.
In un viaggio a ritroso nel tempo, la riscoperta di valori e privilegi che ci appaiono infinitamente e tristemente distanti…
È opinione diffusa che il passato offra solo modelli di inferiorità sociale e culturale e che pertanto uno studio approfondito in tal senso non possa che accrescere la consapevolezza circa la presunta superiorità moderna. Ebbene, se le donne dell’Antico Egitto potessero tornare a far sentire la propria voce, forse non sarebbero affatto d’accordo.
Nel 1829 – anno del suo unico viaggio nelle terre nilote – Jean-Fransois Champollion ricordava infatti “(…) Quanto la civiltà egizia differisse in modo sostanziale da quella del resto dell’Oriente e si avvicinasse invece alla nostra, perché si può valutare il grado di civiltà dei popoli dalla condizione più meno sopportabile della donna all’interno dell’organizzazione sociale”.
In effetti, libertà e autonomia erano parte integrante del tessuto connettivo che caratterizzava l’intera realtà faraonica ma che colpiva, in particolar modo, allorché veniva considerata dal solo punto di vista femminile. I primi visitatori greci dell’Egitto, come ad esempio il geografo Diodoro Siculo, rimasero non poco sconcertati dalla grande disinvoltura mostrata dalle donne nel loro ambito di convivenza. Limitati da una forma di mentalità alquanto riduttiva, essi non riuscivano a comprendere – e soprattutto ad accettare – l’importanza riconosciuta culturalmente, socialmente e giuridicamente all’altra metà del cielo.
Indubbiamente il ruolo femminile influenzò in maniera notevole la storia d’Egitto, a livello sia politico che sociale. Del resto, la parità tra i sessi incarnava un valore fondamentale che non venne mai intaccato prima dell’ascesa delle dinastie greche al trono faraonico. Fino ad allora le egizie vivevano in condizioni ancora oggi ineguagliabili per milioni di altre donne; tutto ciò che agli occhi contemporanei appare una conquista avrebbe certamente fatto sorridere con indulgenza quelle nostre antiche progenitrici. Non dimentichiamo che la civiltà del Nilo aveva fatto della bellezza (muliebre in particolare) un vero e proprio culto: nulla di più logico, dunque, che per il femminile vigesse la più alta forma di rispetto.
Contrariamente ai pregiudizi moderni, la donna dell’Antico Egitto non divenne mai competitiva con l’uomo in quanto, semplicemente, non era necessario: maschi e femmine erano considerati uguali legalmente e di fatto. Alla donna non era imposta alcuna tutela, agiva in piena autonomia anche nella gestione dei propri beni, era libera nelle proprie scelte di vita e non subiva discriminazioni di sorta. Aveva sempre l’opportunità di affermare il proprio nome e la propria personalità, nonché la propria capacità di essere cosciente e responsabile.
Alcuni frammenti del Papiro Harris (I, 79, 8-9, 13) riportano una dichiarazione del faraone Ramses III concernente il fatto che la donna egizia poteva recarsi ovunque desiderasse senza essere importunata: inutile ricordare quanto ai giorni nostri questo non sia più possibile, a causa del grande processo involutivo in atto.
Il fattore religioso ha certo giocato un ruolo notevole in tal senso: non va dimenticato infatti che, in linea generale, una civiltà viene plasmata su un mito o su un insieme di miti. Quella egizia, nella fattispecie, era totalmente permeata dall’emanazione di Iside, la dea madre, l’onnisciente, colei che deteneva il segreto della vita e della morte e si faceva garante della salvezza dei suoi fedeli (foto 1).
Contrariamente alla figura dell’Eva giudaico cristiana, tendente a suggerire una certa “inferiorità spirituale” della donna, Iside, in quanto incarnazione di perfezione assoluta, proiettava un riflesso positivo sulla figura femminile, che veniva sottratta a prerogative negative di corruzione e di conoscenza diventando a sua volta simbolo di colei che aveva saputo superare le peggiori prove giungendo al segreto della resurrezione.
La grande dea assurse così a modello supremo per donne di ogni classe sociale, che di lei percepivano l’innata abilità di varcare barriere insormontabili per mezzo di una fede incrollabile e di una grande forza morale.
In questi ultimi termini è certamente impossibile negare alle donne dell’epoca faraonica una destrezza non comune anche in seno alle molteplici difficoltà della vita quotidiana: la completa indipendenza di cui beneficiavano comportava infatti oneri niente affatto trascurabili sul piano della responsabilità individuale.
Tanto per cominciare, nessuna donna poteva essere indotta al matrimonio con un uomo a lei non gradito. Un padre non aveva il diritto di imporre pretendenti alla figlia (la sola in grado di prendere decisioni) e nessuna legge imponeva convivenze forzate. Colei che avesse optato per il nubilato, quindi, non sarebbe stata ritenuta irresponsabile per la gestione autonoma esercitata sui propri beni, di qualsiasi entità fossero. Alla verginità femminile non era attribuita grande importanza, dal momento che per entrambi i sessi le esperienze prematrimoniali erano non solo consentite ma anche auspicate, in vista di un eventuale matrimonio in cui la fedeltà reciproca avrebbe dovuto essere pressoché assoluta, così come l’assenza di violenze fisiche o psicologiche all’interno del nucleo familiare (e, del resto, la severità delle punizioni inflitte a chiunque si fosse reso colpevole di maltrattamenti contribuiva largamente a scoraggiare questa pratica oggi invece sempre più diffusa, a ulteriore dimostrazione del degrado morale incombente). Il rispetto era ritenuto basilare per la durata di un rapporto di coppia
L’unione matrimoniale non era in realtà sancita da alcun rito legale o religioso: il fatto stesso di convivere sotto lo stesso tetto bastava affinché due persone fossero considerate sposate a tutti gli effetti (foto2 -3). Talvolta i futuri sposi ricorrevano a contratti temporanei di matrimonio, intesi come forma di collaudo sentimentale: ma dopo sette anni di convivenza effettiva dovevano assolutamente definire il loro legame per fissare i diritti della sposa e degli eventuali figli nati nel frattempo. Il matrimonio era suggellato da una semplice formula: “Tu sei mio marito”, “Tu sei mia moglie”: a questo punto, l’uomo si incaricava di garantire il benessere della consorte in caso di divorzio.
Generalmente – e nonostante la carenza di leggi specializzate in materia – le unioni erano durature e soddisfacenti per entrambi i coniugi, anche se naturalmente non mancavano i divorzi. Le cause di rottura di un legame andavano attribuite ai disaccordi, al disamore per il partner e il conseguente desiderio di iniziare un nuovo rapporto amoroso, ai conflitti di interesse e, in primo luogo, all’adulterio. In caso di separazione consensuale, l’uomo e la donna venivano convocati da un apposito tribunale per esporre le rispettive ragioni e chi decideva di abbandonare il tetto coniugale era poi tenuto a corrispondere all’altro un debito risarcimento materiale. La burocrazia divorzista egizia non contemplava l’accusa infondata di adulterio, formulata dai mariti per puro spirito di vendetta. Se ciò fosse avvenuto, la donna avrebbe giurato davanti al coniuge e ad alcuni testimoni di non essere incorsa in avventure extraconiugali. A questo punto sarebbe stata scagionata da qualsiasi sospetto, poiché nell’Antico Egitto il giuramento impegnava l’intera persona e, se falso, ne avrebbe comportato la condanna definitiva del tribunale ultraterreno (l’individuo bugiardo perdeva insomma la possibilità di vita eterna).
Per parte sua, il marito autore della falsa accusa sarebbe stato costretto a risarcire la sua vittima in base agli accordi stabiliti nella fase preliminare del contratto di convivenza.
In caso di vedovanza, la moglie ereditava tutti i beni familiari. Riservandone un terzo per sé, provvedeva a suddividere il rimanente tra i figli, in proporzioni uguali sia per i maschi che per le femmine. Con una nuova unione non avrebbe dovuto temere di perdere ciò che possedeva, così come il matrimonio non aveva potuto privarla del diritto di continuare a usufruire del proprio nome.
In ambito sociale, ogni donna sceglieva il suo stile di vita. Poteva badare esclusivamente alla casa oppure esercitare una qualsiasi attività lavorativa. È emblematico il fatto che mentre ancora adesso in Italia si discute sull’opportunità di allargare le quote rosa in Parlamento e nelle pubbliche istituzioni o ci si stupisce per l’accesso femminile a incarichi tradizionalmente ritenuti maschili, l’Antico Egitto concedeva alle donne innumerevoli possibilità di realizzazione professionale nelle attività che caratterizzavano la corte faraonica, ad eccezione dell’esercito. Si registrano casi di donne incoronate faraoni (la prima a essere insignita del titolo di “re dell’Alto e Basso Egitto” fu Nitocris, salita al trono intorno al 2184 a.C.; basterebbe comunque citare i nomi di Sobeknefrure – sorella o moglie di Amenemhet IV, Hatshepsut (foto 4), o Nefertiti (foto 5-6), per citare qualche esempio); e da un’iscrizione risalente all’Antico Regno (stele di Abido, CG 1578) ci giunge addirittura notizia di un visir in gonnella, tale Nebet, moglie di Khui.
Una donna poteva facilmente trovarsi alla direzione di una provincia, di una città, di una circoscrizione amministrativa; aveva facoltà di ottenere la carica di ispettrice del Tesoro, Capo delle Stoffe e della Casa della Tessitura, dei Cantori, delle Danzatrici della Camera delle Parrucche e così via. Una tomba di Saqqara (foto 7) offre l’interessante testimonianza su Idut, nominata Proprietario di Tenuta, titolo normalmente riservato agli uomini. Dalle iscrizioni che affrescano le pareti della sua dimora eterna, sappiamo che Idut si spostava spesso con una barca (circostanza assai inconsueta per una donna) contenente il materiale da scriba (tavoletta, calamai, inchiostri, papiro): il che significa che sapeva leggere e scrivere e aveva una certa familiarità con i geroglifici.
All’epoca faraonica, l’istruzione femminile era piuttosto diffusa persino tra il ceto sociale più umile, com’è comprovato sia dalla corrispondenza che alcune donne del villaggio di Deir el Medina - mogli di tagliatori di pietre, disegnatori, pittori, braccianti – intrattenevano con uomini ai quali sottoponevano i loro problemi quotidiani, sia da comuni liste di panni da lavare rinvenute nel corso degli scavi.
Vi erano anche casi frequenti di donne molto stimate in campo medico: bendatici, ostetriche, massaggiatrici, chirurghi. Iniziavano, al pari dei loro colleghi maschi, con incarichi di specializzazione per poi aspirare ai vertici della carriera, rappresentati dai medici generici. La medicina – scienza in cui l’Egitto eccelleva – era concepita in modo totalmente opposto al nostro; sacro e profano vi si sovrapponevano inevitabilmente, cosicché un medico che conosceva il segreto del “funzionamento del cuore” non poteva ignorare che quest’ultimo era certo un muscolo cardiaco ma anche, contemporaneamente, centro di energia e origine dei “vasi”, ossia delle vie di circolazione della vita nell’intero organismo. Il sistema sanitario egizio riservava molta attenzione alla salute femminile, in virtù della grande importanza sociale riconosciuta alla donna. Importanza che, va sottolineato, non veniva meno neppure tra le pareti domestiche.
Il titolo di “padrona di casa” (risalente al Medio Regno) era tutt’altro che riduttivo: indicava, al contrario, l’insieme delle funzioni che sin dalle origini della civiltà egizia la donna aveva esercitato.
Essa “regnava” sulla propria “casa”, intesa come un conglomerato di persone e di beni che va decisamente oltre i limiti del nucleo familiare e si estende anche ai domestici, agli animali, alle terre coltivabili e talvolta ad attività artigianali.
Non è azzardato affermare che la donna si trovava a detenere il dominio di un vero e proprio impero personale. Il saggio Ani soleva ripetere agli uomini parole che, lette oggi, acquistano una rilevanza ancora più particolare: “(…) Ammira il suo lavoro e taci. Invece di brontolare e criticare, è meglio aiutarla secondo i suoi desideri: non è forse felice quando la mano di suo marito è nella sua? (…)”. In casa, la figura femminile era fondamentale: a lei spettava la preparazione dell’alimento base, il pane-birra (foto 8). Doveva setacciare, macinare, impastare, battere i cereali; l’uomo, a sua volta, aveva il compito di cuocere e di svolgere i lavori agricoli come fare il vino, salare e seccare la carne, preparare i pesci e, spesso, cucinare. Uomini e donne condividevano equamente le mansioni domestiche, senza mai sottrarsi ai rispettivi impegni.
I figli di entrambi i sessi ricevevano dalla madre un’educazione identica, il cui fulcro era rappresentato dal rispetto e dalla conoscenza di Maat, la Regola universale (foto 9).
In termini di mera quotidianità, ciò si traduceva in termini di amore per la verità e odio per la menzogna, negazione di eccessi e passioni distruttive, senso di umiltà e solidarietà, capacità di ascoltare e parlare a proposito, rispetto della parola data, correttezza nelle azioni e ammissione dell’esistenza del sacro in ogni luogo.
Il rapporto con i figli rifletteva profondamente il senso del mistero racchiuso nell’esistenza. Ecco perché una madre incarnava la dea Iside sin dal momento del parto: ciascuna di esse disponeva si una raccolta di formule per proteggere se stessa e il neonato dalle forze oscure e negative che avrebbero potuto subentrare a turbare un raggiunto equilibrio. Non di rado veniva fatto ampio ricorso a una serie di amuleti e talismani contro la morte, considerata parte integrante del processo cosmico o più semplicemente una tappa della vita intesa oltre la nascita e il decesso fisico.
Va sottolineato che, a differenza di ciò che avveniva nell’antica Roma o nella Grecia classica, anche sul piano della pianificazione familiare le femmine non subirono mai discriminazioni. L’arrivo di una femmina in seno a una famiglia era considerato un evento lieto quanto quello di un maschio.
La privilegiata situazione delle egizie, tuttavia, non era destinata a durare nel tempo. Con l’ascesa al trono faraonico di Tolomeo Filopatore (221-205 a. C.) le donne furono ridotte al medesimo livello delle greche. Private di qualsiasi libertà giuridica e commerciale; furono affiancate da un tutore e videro improvvisamente svanire la loro uguaglianza con gli uomini.
Da protagoniste della vita sociale divennero individui insignificanti, sottomessi e dipendenti dall’autorità maschile. Il cristianesimo – e in seguito l’islam – rinareranno poi la dose, relegandole a uno stato di inferiorità anche spirituale che, in alcune zone del mondo, seguita purtroppo a persistere.
Rita A. Cugola
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