Magie d'Africa
di Tommaso Ramella
Un viaggio nel "continente nero" per insegnare taekwondo ai bambini di un villaggio. Una sfida che trasforma il protagonista, un giovane antropologo che si trova a osservare il mondo con lo stupore allegro di un'infanzia che non dovremmo mai dimenticare...
Due anni fa, quando il mio maestro di taekwondo mi chiese se avessi voluto passare un’estate in Mozambico, dove lui aveva finanziato una scuola, pensai subito ‘che idea balzana’. Perché dovrei andare in Africa, io? E perché me lo chiedi proprio tu, tu che vuoi che mi alleni tutti i giorni tutto l’anno? E poi, perché mai hai finanziato una scuola elementare in Mozambico? Cosa ti frullava per la testa? No, non avrei mai pensato che ci sarei andato. A fare cosa, poi? A insegnare taekwondo ai bambini del villaggio di Sanculo? Non credi che abbiano altre priorità, in questo momento? Cosa se ne fanno di imparare le arti marziali? Ora, guardando dalla finestra la spiaggia e la sala dove ho allenato per due mesi, mi si stringe il cuore. Ho appena terminato l’ultimo ‘traino’ con i ragazzi, e domani un pulmino mi porterà alla città di Nampula, dove mi aspetta il primo aereo di un lungo viaggio di ritorno. Le foglie delle palme e dei manghi si muovono piano sotto la spinta calda del vento; qua tutto è tranquillo, come sempre. Non mi ero informato del posto dove sarei andato, prima di partire, a parte qualche foto; non avevo idea che fosse un piccolo paradiso.
Un’isola di cinquanta, forse cento chilometri quadrati, dove i bambini scorrazzano liberamente per le strade, dove i ragazzi si muovono in gruppi e giocano insieme sulla spiaggia. Ho dimenticato un particolare: studio antropologia, e da che mondo è mondo gli antropologi finiscono sempre a studiare in Africa. È per questo, in effetti, che fui proprio io a tirare fuori l’argomento Mozambico con il mio maestro: perché era una grande occasione per una tesi di ricerca. E poi, quando mi sarebbe ricapitato di unire due passioni in un’unica esperienza? Arti marziali e antropologia insieme, un sogno! Eppure, sebbene l’idea mi venne appositamente per costruire una tesi di ricerca, alla fine andai solo per le arti marziali; la mia relatrice mi incaricò di elaborare un altro argomento di studio, che prevedeva solo lunghe ricerche sui libri (nel dettaglio: come la storia dell’economia influenza le culture di oggi. Sembra più noioso di quanto non sia in realtà!). Niente studi sulle culture africane, quindi, ma tanto sport!
Adesso è il momento di chiarire un paio di cose. Come ci si sente prima di un viaggio di questo tipo? Un viaggio in Africa, intendo, che non è come andare a visitare Parigi o New York. Bene, c’erano tre persone in me che si contendevano aspettative diverse. Da una parte c’era l’antropologo (mancato), quello che avrebbe voluto fare ricerca, e che si sarebbe dovuto accontentare di guardare e ipotizzare campi di studio che sarebbero rimasti, comunque, monchi. Chissà cosa avrei potuto trovare, in un’isola del Mozambico! Faccio solo qualche esempio di cosa avevo ipotizzato, giusto perché oggi gli antropologi sono visti più che altro come dei fricchettoni che vanno in giro per il mondo a parlare con la gente. E la cosa non è poi così lontana dalla realtà. Quindi: i sistemi di parentela! Niente, nella storia della disciplina, ha ossessionato gli antropologi più dei sistemi di parentela. Si tratta delle discendenze tribali, di stabilire chi va a vivere da chi dopo il matrimonio, di quante mogli si possano avere, di chi ha ragione nelle questioni di eredità, anche quando ha torto, di come si strutturano i villaggi... un po’ di tutto quindi.
I sistemi di parentela sono un po’ come le tabelline in matematica o i neutrini in fisica e i neuroni in psichiatria. E come si studiano? Parlando con la gente, naturalmente. Chiedi a uno, chiedi ad un altro, metti insieme le cose, e voilà, eccoti un bello schemino sulle linee di discendenza. Già... niente di più divertente? In realtà sì, anche perché la parentela turbava le menti degli antropologi dei secoli passati, che speravano, attraverso lo studio della discendenza, di ‘scoprire’ le leggi naturali che organizzano la natura umana. Niente a cui oggi si creda ancora, fortunatamente. Per lo stesso motivo, diciamo, tralasciai lo studio anatomico-criminologico lombrosiano. Un po’ datato, no? E pensai, allora, a possibili ricerche più moderne. Per esempio il retaggio colonialista sull’immaginazione e sulle prospettive future degli abitanti dell’isola, o le attività di microcredito promosse da un’organizzazione portoghese. E come si studiano tutte queste cose? Parlando con la gente, chiaro! Quindi ripeto, se a qualcuno è venuta in mente la famosa citazione di Nanni Moretti ‘faccio cose, vedo gente’, non è poi così diverso da quello che facciamo veramente. Solo con un po’ di criterio in più, questo concedetecelo.
C’era, poi, un’altra persona in me pronta a partire. Era l’allenatore di taekwondo, che in fondo era il mio ruolo ufficiale. Il progetto del mio maestro non era certo una cosa che si sente tutti i giorni. Sarei dovuto andare tutti i giorni in un piccolo villaggio in mezzo alla savana (sì, era proprio un tipico villaggio africano come ce lo si può immaginare dalle cartoline), fare lezioni sportive ai bambini che frequentavano la scuola e, contemporaneamente, cercare un ragazzo del luogo a cui insegnare le basi delle arti marziali, in modo che potesse continuare l’attività dopo di me. Questo era il progetto del mio maestro, ma quando atterrai a Nampula, il capo dell’organizzazione alla quale mi appoggiai, ancor prima di salutarmi mi disse: “Il progetto del tuo maestro è impossibile”. Bene, pensai, che sono venuto a fare, allora? Quel che mi terrorizzava di più, a dire il vero, erano i bambini. Sarei dovuto andare in quel villaggio da solo, senza parlare la loro lingua, senza un aiutante, a fare lezioni. Quando mi immaginavo come sarebbe potuta andare, non vedevo bambini, ma solo mocciosi petulanti e indisciplinati. Non il massimo, in effetti. Sapete cosa mi salvò la vita? Un semplice fischietto! Infine c’era un’altra persona che fantasticava sul viaggio, ed ero semplicemente io, senza ruoli, doveri, ricerche da fare... Solo io. Ecco, come ci si sente prima di un viaggio in un luogo dove Cristo non è ancora arrivato, come direbbe Carlo Levi? Posso dire di avere una certa esperienza, dal momento che avevo già visto il Tibet, l’India, il Nepal...
Spesso si fantastica di esperienze meravigliose, incredibili, qualcosa di così diverso dall’abitudinario da risultare surreale. Le culture incontaminate, i saperi ancestrali, i colori tribali, quasi si volesse entrare in una canzone di Battiato. Devo ammettere, però, che anche in questo caso l’antropologo che è in me un tantino spingeva per uscire. Mi diceva che non esistono culture incontaminate e tradizioni millenarie, ma solo uomini. Uomini che, in fondo, si assomigliano, a New York come in un villaggio delle montagne del Nilgiri, in Tamil Nadu; uomini che odiano e uomini che amano, uomini onesti e uomini che rubano, uomini con cui diventeremo amici e altri che non sopporteremo alla sola vista. È questo che, in fondo, l’antropologia mi ha insegnato, finora: a volare basso, a guardare le persone per quello che sono, e cioè persone, piuttosto che materializzazioni di un’essenza culturale che non esiste. E, se devo dirla tutta, credo di essermela goduta proprio grazie a questa piccola saggezza. Quando parlavo col capo tribù in Tibet, o con i raccoglitori di miele del villaggio di Banglapadigai in India, non mi aspettavo di ricevere qualche arcano segreto da loro. Semplicemente, parlavo con delle persone. Qualche giorno fa, qua sull’Isola di Mozambico, vidi un bimbo che chiedeva dei soldi a un turista. Vidi il turista dargli le monetine e sorridergli compiaciuto, e poi mettersi a giocare a palla con lui. Quell’uomo aveva, sulla faccia, il sorriso di compiacimento di chi è entrato in contatto con qualcosa di nuovo, di chi ha toccato le corde più intime dell’esperienza umana. Mi sentii infastidito. Quel tizio, lo so, aveva appena provato la sensazione inebriante di aver toccato una cultura estranea, così estranea da essere straordinaria; si sentiva un privilegiato e non vedeva l’ora di portare a casa quell’esperienza e raccontarla agli amici. L’incontro finì come mi aspettavo: l’uomo si scattò un selfie insieme al bimbo. Volete sapere come la penso? Non credo vedesse quel bambino per quello che era, e cioè solo un bambino. Quando lo stesso piccoletto venne da me a chiedere dei soldi, mi sentii del tutto in diritto di essere irritato. Tirai dritto con la mia biciclettina scassata e non mi voltai.
Non vorrei passare per un cinico, vorrei solo chiarire una cosa. Credo che nell’immaginario moderno, quello che esalta le nuove esperienze e la "vita vissuta fino in fondo" ci sia un grande spazio per il viaggio. Tuttavia il viaggio in questione si riferisce ad un contatto superficiale con l’esotico, lo strambo, il particolare. Non con le persone. Una piccola confessione: è colpa dell’antropologia. Quando, durante la Prima Guerra Mondiale, il famoso antropologo Bronisław Malinowski condusse la sua ricerca fra gli atolli della Melanesia, presto divenne l'’icona dell’uomo avventuroso, lui, che con la sua tenda era rimasto su quella spiaggetta ed era diventato un ‘vero nativo’, proprio come loro, lui, che aveva abbandonato gli agî e la superficialità della modernità e la noia del traffico per trovare l’autentico... un vero eroe moderno. Per di più, Malinowski fondò quella che venne chiamata "antropologia dell’emergenza", che consisteva nello studio di quelle comunità che si riteneva sarebbero scomparse molto presto, divorate dal progresso. Una sorta di museizzazione di uomini ancora vivi. Cinquant’anni dopo sua moglie pubblicò i suoi diari, nei quali il buon vecchio Bronisław raccontava tutto il suo odio per quei ‘selvaggi’, il fastidio nel dover vivere tanto tempo fra loro, il sollievo che trovava nel passare le notti con le loro donne (quelle di altri), e così via... A quanto pare, la moglie non l’aveva presa bene...
Da allora l’antropologia ha rovesciato le sue prospettive di studio. Per riassumere questo cambiamento in due parole dirò solo questo: dallo studio dell’Uomo allo studio degli uomini. Una cosa è certa, gli antropologi non pensano più che sia utile nascondere i loro sentimenti di fronte alla scoperta del nuovo. Anzi, quegli stessi sentimenti sono utili a comprendere gli altri, e non come manifestazioni di una cultura immortale ed eterna nel tempo, ma come uomini che soffrono, che amano, che odiano, che combattono lotte politiche. D’altra parte, la Coca-cola esiste anche nel più remoto degli atolli della Micronesia... Con tutti questi ghirigori mentali ero partito per il Mozambico. Dopo questa lunga tiritera vorrei specificare che gli antropologi, quando viaggiano (anche in borghese, come me), se la godono, solo cercano di attivare un occhio un poco più critico. Potrà apparire strano ad alcuni, ma esistono studi antropologici sui turisti stessi – e a chi non lo conoscesse, consiglio Cannibal Tour di Dennis O’Rourke, fa morir dal ridere. Ecco un piccolo esempio divertente. Un volta un mio professore raccontò a lezione che una tribù africana era solita fare danze tradizionali ai turisti in visita, per qualche spicciolo. Sebbene i ragazzi e le ragazze indossassero normalmente T-shirt qualsiasi, maglie con i nomi di calciatori famosi e jeans bucati, per queste performance si mettevano appositamente quegli abiti colorati che siamo abituati a vedere nelle cartoline o nelle riviste del National Geographic. È chiaro, i turisti non possono rimanere delusi quando si aspettano una danza tradizionale (soprattutto se ci va di mezzo qualche monetina). E io, in tutto questo? Andavo a insegnare arti marziali. Il taekwondo è un’arte coreana, io sono tutto italiano – anche se la mia bisnonna ha vissuto in parte in Argentina – e insegnavo a bambini mozambicani. Che pasticcio! Ma, se mi sono spiegato come spero, in fondo si tratta dell’incontro tra persone. Così suona molto più semplice, vero? E credo che lo sia, semplice, dopotutto.
Pedalavo fino al villaggio di Sanculo con una bicicletta che si rompeva ogni due o tre viaggi, scarrozzandomi il materiale sportivo per otto chilometri, sulla sabbia e su un lungo ponte asfaltato. Dopo un paio di settimane, i bambini mi riconoscevano, aspettavano che indossassi il mio dobok bianco con cintura nera e mi si accalcavano intorno, schiamazzando allegri e ridacchiando sotto i baffi, in attesa che iniziassimo a giocare. E poi si giocava. Intorno alle mie classi di quindici-venti bambini si affollavano gli altri che avrebbero partecipato alla lezione seguente, ridendo di gusto ogni volta che qualcuno cadeva o sbagliava un esercizio. In fondo, erano solo bambini. Sarebbe stato diverso se fossi andato a fare una "ricerca di" per l’università? Credo di sì. I bambini non sarebbero stati solo degli studenti o dei compagni di gioco, ma quelli che in antropologia si chiamano ‘informatori’; sarebbero stati fonti di informazioni preziose, o il collegamento per arrivare ad altri informatori. Posso dire, serenamente, di aver messo l’antropologia ‘tra parentesi’ e di essermi divertito. Certo, l’antropologia era potente in me, un po’ come la Forza in Luke (anche se forse meno utile), ma mi ha permesso di non aspettarmi dalle persone cose che non mi avrebbero potuto dare.
A questo penso, mentre guardo la spiaggia per l’ultima volta. C’è una cosa, però, su cui il mio antropologo interiore non può fare nulla: si tratta della nostalgia. Tra un mese, un anno, e chissà, anche quando sarò vecchio forse, mi ronzeranno per la testa queste stesse spiagge e viuzze in ciottoli, e i ragazzi del villaggio e la scuola, il rumore delle onde dell’oceano che mi cullano durante la notte, e il sapore del mare quando cammino, e tutte insieme queste immagini mi chiuderanno il cuore in una morsa dolce e stretta. Sarò solo io, e i ricordi offuscati di un mondo lontano, eppure così umano.