Società
Essere Cavalieri nel XXI secolo
di Maurizio Bonanno
Esiste ancora, oggi, la Cavalleria? Cosa rimane di quegli uomini, quegli Ordini, quelle saghe e leggende? Incursione nei tempi moderni per raccontare un pezzo di sopravvissuta memoria...
Raimondo Lullo nel suo Libro dell’Ordine di Cavalleria scrive: “Vi fu un tempo in cui
scomparvero dal mondo la lealtà, la solidarietà, la verità e la giustizia. Tutto il popolo fu
diviso per migliaia, e tra ogni mille ne fu scelto uno che si distinguesse dagli altri per lealtà,
saggezza e forza. A questi uomini fu dato il nome di Cavalieri!”.
Ma nell’epoca in cui viviamo (troppo lungo sarebbe elencare le caratteristiche), che senso
ha essere Cavalieri? Per alcuni è ancora la realizzazione di un ideale che ha radici profonde
nella nostra civiltà occidentale e cristiana, dove il Cavaliere rappresenta un’aristocrazia di
persone che ha saputo fare qualcosa per il progresso morale e anche materiale della società;
ma allo stesso tempo, per altri, evoca, nelle migliori delle ipotesi, una macchietta o
addirittura un personaggio finito sui giornali per fatti illegali. Tutte cose, queste, avulse dal
loro vero significato storico.
La Cavalleria nasce dall’influsso del cristianesimo sulla vis guerriera pura e sfrenata dove
rozzezza, violenza e sopraffazione si mescolavano al coraggio, alla fedeltà e all’onore.
Secondo la tradizione cavalleresca solo l’uomo è investito e, tramite questo rito, riceve
ufficialmente la missione di combattere i nemici di Dio e “di allargare, qui in basso, le
frontiere del regno di Dio”, con la grazia necessaria al suo adempimento. Ancora nel 1982
il cardinale Segretario di Stato Agostino Casaroli, affermava che il ritratto del cavaliere
nell'accezione originale della parola è: “Combattere il male... difendere il debole e
l'oppresso contro l'ingiustizia; mettere un freno all'arroganza del più forte. Coraggio,
abnegazione e generosità. Sapere sacrificare se stesso: fino all'eroismo, fino alla morte se ci
sarà bisogno".
L'archetipo del cavaliere è legato alle imprese che nelle saghe e nella storia ci presentano
l'immagine di un eroe-guerriero affascinante e coraggioso che combatte per una causa o un
ideale. Giovane, bello, innamorato, e per la sua amata pronto a compiere imprese e duelli.
La realtà storica è ben diversa (gli Ordini cavallereschi erano spesso composti da individui
violenti e semianalfabeti), ma il significato dell'archetipo del cavaliere che sopravvive
nell'immaginazione collettiva oggi come ieri, è legato all'interiorizzazione e alla difesa dei
valori basilari: lealtà, onore, difesa del più debole, fedeltà (al sovrano, a una donna, a una
causa). Rispetto al guerriero, il cavaliere è più spiritualizzato e connesso al mondo delle
idee, osserva valori che divengono norme da rispettare sino alla fine, mentre il guerriero,
invece, tende a infrangerle pur di vincere. Il cavaliere fa dono di sé, mette sé stesso (valore,
armi, intelletto e fede) al servizio di qualcosa di superiore: Dio, il Re, la Patria, la donna
amata. Scrivono Jean Chevalier e Alain Gheerbrant sul contesto bellico in cui il cavaliere si
muove: "La Cavalleria dà uno stile alla guerra come all'amore e alla morte: l'amore è vissuto
come un combattimento, la guerra come un amore e ad ambedue il cavaliere si sacrifica fino
alla morte lottando contro tutte le forze del male... L'ideale cavalleresco sembra inseparabile
da un certo fervore religioso". I valori che il cavaliere abbraccia nella sua investitura per
ricoprire questo ruolo non sono frutto di un percorso di vita e non vengono scoperti, come
avviene per l'eroe, ma sono fatti propri come condicio sine qua non.
Questo non significa che il cavaliere non possa essere un eroe, ma i predetti valori, accettati
per puro senso del dovere, possono non sfociare in atti di eroismo. I cavalieri degli Ordini
tradizionali (Santo Sepolcro, Malta, Costantiniano di San Giorgio, Mauriziano) non hanno
bisogno di andare a fare il bene in luoghi dove la notizia verrebbe trasmessa dai mass media,
perché sanno bene che dal momento che hanno accettato di diventare cavalieri hanno
assunto un impegno senza limiti di tempo e di luogo, un obbligo che non è solo quello
morale di amore rivolto esternamente verso chi soffre, ma è qualcosa di interiore che opera dentro la
nostra stessa anima ed è la nostra storia che poggia sugli insegnamenti della fede
cristiana, che è alla base delle nostre più sacre tradizioni e regola con i suoi principi la vita
di quanti hanno deciso di essere Cavalieri.
Ma ancora primo dello scoppio della Rivoluzione francese, nella Francia di Luigi XIV e
nell’Austria di Maria Teresa, con gli Ordini di San Luigi, San Michele e Maria Teresa,
cominciò quella svolta storica che doveva trionfare nella Legion d’Onore: essere cavaliere
significa anche un’altra cosa, può essere il premio di un merito ottenuto lavorando per la
comunità durante la propria vita, un merito che comporta ricevere dallo Stato un
riconoscimento pubblico che permetta chiamarsi realmente “cavaliere” ed usare questo
termine nella vita sociale di ogni giorno. Quindi, il cavaliere non è un nobile (e non è
obbligato ad esserlo) ma rappresenta quell’élite di lavoro (intellettuale o manuale) che è
stata premiata con l’onore di portare un titolo che racchiude tutto quello che c’è di meglio
nella nostra storia e nella nostra società. Passate le bufere rivoluzionaria e napoleonica, i più
avveduti notano che un intero sistema è andato in frantumi e non sarà più possibile ripararlo:
con l'abolizione del feudalesimo, i titoli nobiliari sono svuotati dei loro privilegi e
rimangono semplici onorificenze; i nobili sono diventati normali possidenti, burocrati statali
o accettano di esercitare anch'essi quelle che una volta erano definite le Arti Maggiori.
Trionfa la borghesia, esplode la rivoluzione industriale e, per ironia della storia, il titolo più
ambito diventa quello di cavaliere: il lavoro è la vera fonte della nobiltà.
Il Cavaliere, sia che appartenga a un Ordine religioso tradizionale (come quello di Malta) o
a un Ordine di merito (come la Legion d’Onore), è sempre un individuo che si distingue
dalla massa e che appartiene ad una élite di persone che ha dimostrato aver fatto qualcosa
per la società la quale, proprio per questo, li ha premiati con un titolo non ereditario ma che
pone la loro persona sopra le altre.
Essere cavalieri oggi, e forse più di ieri, non significa portare una rosetta all’occhiello della
giacca o un mantello in chiesa per darsi prestigio davanti agli altri, ma seguire il
comportamento dei cavalieri medievali, che saranno stati mitici ma che: “Giurarono di non
ricorrere mai alla violenza senza un giusto scopo, di non abbassarsi mai all’assassinio e al
tradimento. Giurarono sul loro onore di non negare mai misericordia a chi ne facesse
richiesta, e di proteggere fanciulle, gentildonne e vedove, facendone valere i diritti senza
mai sottoporle alla loro lussuria. E promisero di non battersi mai per una causa ingiusta o
per vantaggi personali. Questo giuramento pronunciarono i cavalieri tutti della Tavola
Rotonda, e ad ogni Pentecoste lo rinnovarono”.
Non chiedere perché
di Anna Buono
Ci sono storie, eventi, che ci colpiscono nel profondo. Come quelli accaduti in Bosnia, ai bambini di un piccolo orfanotrofio. Eppure nasce, sempre, una speranza...
D’istinto ci sono la rabbia e l’orrore, che una notizia simile porta con sé.
La rabbia assume il volto di chi deve lottare per realizzare un sogno, l’orrore, invece, ha il volto del colpevole, quello che meno di chiunque altro dovrebbe esserlo. Chi, dove, come, quando … non hanno che un’importanza relativa, la vera essenza delle cose sta tutta lì, nel loro perché. Inafferrabile, inammissibile, inconcepibile perché.
Gli esperti parlano di un gesto disumano, non giustificabile, ma ciò nonostante dicono che delle ragioni alla base di esso bisogna pur individuarle, perché soltanto così si potranno prevenire simili atrocità. E allora si fanno largo il cedimento nervoso, un raptus di follia, la frustrazione esistenziale, lo sdoppiamento della personalità, la depressione post-parto, la disperazione dovuta alle difficoltà economiche o alla crisi con il proprio compagno o la propria compagna, con la conseguente volontà di punirlo(a), il senso di inadeguatezza nel garantire al proprio figlio un futuro sereno, la volontà di preservarlo dai mali della vita.
“Per vedere bene la malattia occorre guardare da vicino …” ma io non sono un’esperta, sono ignorante in materia (una figlia ignorante!) e per un attimo voglio restare tale. Per un attimo mi rifiuto di pensare che davvero succede che le mani che stringono in una morsa fatale il collo di un bambino o che impugnano un coltello contro di lui, sono quelle stesse mani che dovrebbero in realtà proteggerlo. Per un po’ scelgo semplicemente di “non chiedere perché”.
Indosso allora anch’io un giubbotto antiproiettile, assieme a Marco De Luca, ma non per difendermi dai colpi di un cecchino appostato dietro una persiana o su di una collina, ma per difendermi dalla tristezza e proteggere la speranza. Ė il 3 luglio 1992: insieme a Marco sono salita a bordo del G-222 dell’Aeronautica Militare Italiana, abbiamo decollato dall’aeroporto di Ancona-Falconara con destinazione Sarajevo, in Bosnia. Qui Marco ha accettato di recarsi, assieme a Luciano, come inviato per la televisione italiana, per raccontare, in novanta secondi al telegiornale, la guerra fratricida e sanguinosa che non risparmia nessuno, né anziani, né donne e nemmeno bambini, ma che regalerà a Marco (che a casa non ha più Bianca ad aspettarlo) un nuovo, inaspettato, insospettabile amore. Novanta secondi non bastano. Non bastano a Marco per raccontare l’orrore che i suoi occhi vedono, non bastano a descrivere quell’inferno in cui si muore per aver desiderato cogliere delle ciliegie, dove una donna recupera da un cassetto un rossetto dimenticato da chissà quanto tempo e ne è felice perché per un attimo è riuscita a recuperare null’altro che un pezzo di normalità. Un inferno in cui nonostante tutto musulmani, ebrei e cristiano-ortodossi si ritrovano in una cattedrale cattolica di domenica mattina a sentire l’omelia dell’arcivescovo Vinko Puljić, semplicemente perché sentono che è uno di loro.
Qui le granate esplodono, esplodono ovunque, anche sugli orfanotrofi e i bambini:
“… Quando i bombardamenti si interrompevano, … correvano a cercare le rose lasciate dalle granate sull’asfalto e facevano a gara a chi indovinava per primo da quale periferia erano state lanciate”.
Marco giunge nei pressi di Ljubica Ivezíc, fa il giro dell’orfanotrofio. Luciano lo accompagna e riprende tutto con la sua inseparabile telecamera, anche “lo sfogo della direttrice: il che di fatto sostituiva l’intervista che avevano pensato di farle”. I più piccoli sono in una stanza in fondo al corridoio.
“… Appena aprirono la porta furono investiti da un tanfo dolciastro e acido, un misto di sudore, urina, batteri in decomposizione e borotalco. Nella stanza in penombra c’erano otto culle. In ogni culla c’erano almeno tre bambini, Luciano iniziò a filmare: Marco si girò a guardare. Nella prima culla, la sola bimba bruna di tutto il nido. Era bellissima. Capelli neri molto corti, un ovale perfetto, grandi occhi scuri e ciglia lunghe. … Era tanto che non prendeva un bambino in braccio. Per ciò che lo riguardava, aveva rinviato così tanto il momento che gli sembrava che per lui fosse definitivamente tramontata la possibilità di avere un figlio e ormai non ci pensava più. La prese in braccio. La fece sedere sull’avambraccio, tenendola per le gambe, di modo che non cadesse all’indietro, con attenzione e impaccio la spostò appena un po’ dal suo corpo: venti, trenta centimetri, quel tanto che bastava per ottenere un’inquadratura autonoma. Fu in quel momento che la bambina allungò il braccio. Forse fu un gesto istintivo, forse lo fece perché si sentì in equilibrio precario. O forse fu qualcos’altro. Ma quel braccio gli si infilò piano dietro il collo e sembrò tirarlo a sé, come se volesse abbracciarlo. Quel braccio intorno al collo lo aveva turbato. Provava disagio, un’inquietudine nuova, si trovava in una situazione inedita per lui. Era in un luogo di abbandono e di dolore, un orfanotrofio è il paese degli affetti negati, la regione dell’amore perduto. Ma la bambina, appena adagiata nel lettino, cominciò a piangere. Un pianto strano, senza lacrime, come un lamento emesso a bocca chiusa, strizzando gli occhi. In realtà non piangeva. Protestava. Riallungò le braccia e la sollevò di nuovo. Questo bastò a farla calmare. La protesta si interruppe subito. E, ancora una volta, il braccio della bambina gli finì dietro il collo. Malina gli regalò il primo sorriso della giornata, lui si avviò verso l’uscita quasi camminando a ritroso. Non era la sua bambina, eppure gli sembrava di abbandonarla, di lasciarla al suo destino, come se lei, sorridendogli, gli avesse consegnato una richiesta che lui adesso stava disattendendo”.
O forse no. Ormai chissà per quale strano motivo, chissà perché, lui capisce quale sia la cosa giusta da fare, dopo molto tempo. Inizia così la sua battaglia per ottenere l’affido della bambina. Una battaglia difficile la sua perché Malina è destinata a partire assieme ad altri bambini per la Germania, dove sarà affidata ad una famiglia accreditata o ad una struttura statale estera, difficile perché difficile è già di per sé la situazione di Malina che ufficialmente non è stata ancora dichiarata orfana, ma risulta in stato di abbandono. Difficile perché lui non è una famiglia accreditata, non è un’istituzione estera, non è un deputato, ma solo un giornalista single con un matrimonio fallito alle spalle. Ma lui sa che non ne vuole un altro di bambino, come gli suggerisce la direttrice dell’orfanotrofio, lui non ha “paternità represse da soddisfare”: Malina lo ha colpito, anche se lui non sa come spiegarlo ed è lei che lui vuole portare con sé in Italia, fuori da quell’inferno in cui era piombata la città, “… capace perfino di sottrarre le lacrime ai bambini”.
Ma non è facile: Marco da solo non può farcela, ha bisogno di aiuto, dell’aiuto del suo amico Edin. Lui e sua moglie Anisa gli chiedono di riflettere, “… di ascoltare la ragione e non solo il cuore …”, ma Marco non si arrende: la sua determinazione e l’aiuto di Edin prima, della dottoressa Maria Teresa Giovannelli poi, gli permettono di avere la meglio sulla burocrazia, sul tempo e sui cecchini che non si concedono, né concedono una tregua.
Durante la sua battaglia maturano in lui nuove sensazioni che non riesce a spiegarsi. “… Gli sembrava tutto così strano. Stava dormendo con una bambina, anzi, con la sua bambina al fianco. Ora che era lì e ne avvertiva il respiro e l’odore, capì cosa volevano dire Anisa e Edin quando gli parlavano di responsabilità. … lei gli si affidava. La sua vita, da quella sera, dipendeva da lui. Sarebbe stato all’altezza? Ci sarebbe riuscito? Possedeva la stessa fiducia in se stesso che Malina sembrava riporre in lui? Le domande si affiancavano l’una all’altra come uccelli su fili. Prese lentamente la bambina e se la appoggiò sul petto. Lei sospirò e girò la faccia, appoggiando l’altra guancia al suo petto. In quello stesso istante Marco seppe che ce l’avrebbe fatta”.
E alla fine Marco ce la fa, forse semplicemente perché si è sentito genitore dentro, e ha fatto una scelta, una duplice scelta d’amore. Non un figlio che potesse assomigliargli nei tratti del viso, che potesse ricordargli com’era lui da piccolo, ma semplicemente Malina, poiché, dopo averla incontrata:
“… Lui si portava dentro da giorni la sorpresa di un braccio dietro il collo e di un sorriso così intenso e inatteso che faceva ancora male solo a pensarci”.
Alla fine, seppur vista dall’altra parte, rileggere questa storia, vera, ha fatto bene anche a me. Perché noi figli siamo così: non chiediamo ai nostri genitori di metterci al mondo (o, nel caso di Marco, di prenderci in affido), ma quando entriamo a far parte delle loro vite desideriamo le loro attenzioni, il loro affetto, il loro appoggio, vorremmo che da sempre loro avessero desiderato rivedere sotto una luce diversa il loro mondo, proprio quello in cui, prima del nostro arrivo, ogni cosa aveva il suo ordine preciso, il suo tempo, il suo spazio perché:“… Un figlio è un progetto che non finisce mai, un cantiere sempre aperto, come scrivere un libro senza mai chiudere i capitoli, perché c’è sempre qualcosa da raccontare, un paragrafo da aggiungere. …”. Alla fine, quando smetto il giubbotto antiproiettile, mi sento ancora protetta da quello, invisibile, che indosso tutti i giorni e che, da un anno e più a questa parte, è fatto per metà di ricordi, irrinunciabili, incancellabili. E mi sento fortunata perché so di essere un dono, una scelta, un impegno. Per la vita, oltre la vita.
Parola di figlia.
Le radici della femminilità: il mito della Grande Madre
di Maila Daniela Tritto
Il femminino sacro nelle religioni ne rappresenta sempre un aspetto pieno di suggestioni. Che affascina e seduce chi se ne occupa, perchè i suoi richiami vivono ancora oggi...
Amica inviolata della pace,
Del tardo tempo e del silenzio alunna,
Narratrice silvestre che si piace
Di raccontare favole fiorite,
Dolci ad udire più del nostro canto;
Qual leggenda di foglie incoronata
È delle forme tue qui figurata
Di celesti o mortali, o d’amendue
in Tempe o per le valli dell’Arcadia?
(Ode su un’urna greca, John Keats).
Questi versi poetici di John Keats sembrano ricalcare alla perfezione il tema di cui qui ci occuperemo e che, come suggerisce già il titolo, appartiene a quel mondo atavico caratterizzato dalla presenza del Femminino Sacro nelle religioni. La musa ispiratrice del poeta inglese pare assumere le sembianze della Grande Madre, in altre parole la Madre di tutti gli esseri viventi, che persino Robert Graves aveva celebrato nella sua mirabile opera La Dea Bianca: Grammatica storica del mito poetico del 1948.
In questo saggio Graves afferma: «La Dea è una donna snella e affascinante, col naso aquilino, il volto di un pallore mortale, le labbra rosse come le bacche del sorbo selvatico, gli occhi straordinariamente azzurri e lunghi capelli biondi». È un’immagine che, in realtà, si pone in contrasto con la Venere di Willendorf – nota anche come la donna di Willendorf –, una statuetta raffigurante una donna dal fisico steatopigo, appartenente al Paleolitico. La statuetta, che fu rinvenuta nel 1908 dall’archeologo Josef Szombathy, è uno degli esempi migliori dell’antica civiltà guidata dalla forza generatrice di una donna. Ed è di questo che parla il libro da me analizzato scritto da Luciana Percovich Oscure madri splendenti. Le radici del sacro e delle religioni (Venexia, 2007), e che in questa sede tenterò di spiegare con vari riferimenti antropologici, utili affinché emerga la tradizione del Mediterraneo.
Proviamo, dunque, a immaginare un mondo guidato dalla sola forza delle donne, rappresentato dalla loro condotta nei diversi ambiti socioculturali. In effetti, alcuni potrebbero pensare che sia solo un’utopia – un desiderio, per le donne, di accettazione e autoaffermazione –, mentre altri non sarebbero per nulla d’accordo che ciò avvenga. Eppure la nostra civiltà, che affonda le sue radici nella preistoria, era caratterizzata dal matriarcato – parola formata dal latino mater (madre) e dalla radice greca archein (essere a capo, comandare) – una forma di organizzazione sociale alternativa al patriarcato.
L’archeologia ha indagato in profondità sul tema, ed è grazie a studiose come Marija Gimbutas (1921 – 1994), se oggi abbiamo un’importante testimonianza dell’Età del bronzo – tanto da guadagnarsi la reputazione di specialista mondiale – e del folklore lituano. I suoi scavi sono stati fatti nel bacino del Danubio e nel nord della Grecia. Un lavoro che il saggista e storico delle religioni Joseph Campbell ha paragonato alla decifrazione dei geroglifici egizi da parte di Jean-François Champollion e Ashley Montagu.
La ricerca di Marija Gimbutas è stata fondamentale e si distingue da quella dei due antropologi, poiché in primo luogo è stata eseguita da una donna, poi perché ha letto le testimonianze con coscienza e dedizione affinché emergesse un passato arcaico descritto dalla presenza – non del tutto cancellata – del femminile nella storia. La sua tesi non è astratta, sebbene qualcuno abbia definito la donna come una ‘femminista visionaria’, tuttavia ha lavorato duramente per decifrare i materiali scoperti durante le lunghe spedizioni nelle zone del Mediterraneo.
Sulla stessa scia di pensiero si colloca l’attività della docente Momolina Marconi (1912 – 2006), i cui lavori sono rimasti nell’ombra per troppo tempo, ma in seguito sono stati ripresi per esaminare gli aspetti comuni delle religioni bagnate dal Mediterraneo, nella Mezzaluna fertile e fino all’Indo. La sua formazione di stampo letterario è stata decisiva, grazie alla quale è riuscita a decifrare i testi e gli autori classici che hanno esaminato le parentele e le sovrapposizioni delle divinità mediterranee.
«Vieni, vieni (…) (perché già da tempo) dalla reggia del padre tutta d’oro venisti allora. Al giogo del tuo carro erano passeri belli: sopra la terra bruna ti portavano rapidi con un battito fitto d’ali – scia nell’aria, dal cielo» quest’intima preghiera, nella quale la poetessa Saffo invoca Afrodite, è giunta a noi attraverso la voce di una donna dalla personalità complessa, eppure unita anche lei al culto della Grande Madre.
Ed è in alcuni testi come quello scritto da Marija Gimbutas Il linguaggio della dea pubblicato nel 1989, o quello di Momolina Marconi Riflessi mediterranei nella più antica religione laziale del 1939, che emergono plurimi aspetti della Dea. Risulta, quindi, chiaro che la Grande Madre è, al tempo stesso, la Signora della Vita, ma anche la Madre dell’umanità, la Signora del cosmo e delle stagioni, Fonte di sapienza e protettrice delle popolazioni. D’altronde il suo nome cambia secondo l’origine di appartenenza. Per la popolazione sumera, infatti, è Inanna – la dea della fecondità, della bellezza e dell’amore –, per Omero erano le Nereidi – le ninfe marine, figlie di Nereo e di Oceania Doride –, considerate creature immortali di natura benevola.
In un inno orfico, poi, è Gaia, la dea primordiale e potenza divina della Terra vestita di fiori e dai seni ricolmi «cui d’attorno il mondo ben costrutto degli astri/per legge eterna si volve e con ritmo possente», ma è anche Natura: «Artefice perfetta, plasmatrice feconda, augusto nume», che si distingue per la sua ciclicità, e che persino Aristotele, nella sua Metafisica (IV secolo a.C.), descrive come: «Sostanza di quelle cose che hanno un principio di movimento in se stesse».
E ancora, fra gli Ittiti la Dea è Arinna, governatrice del sole ed è la più importante fra le tre principali divinità solari del pantheon ittita; ma è anche Iside che in Egitto è la dea della maternità, della fertilità e della magia. Sì, perché se c’è un aspetto che incuriosisce la figura della Dea, è proprio la magia. Nell’opera Il ramo d’oro, l’antropologo James Fraser si occupa degli studi sulle culture primitive che hanno come filo conduttore la teoria evoluzionistica.
In questo saggio – che è un incrocio fra la mitologia greca e la protostoria – egli afferma: «Se analizziamo i principi di pensiero su cui si basa la magia, troveremo probabilmente che essi si risolvono in due: primo, che il simile produce il simile, o che l'effetto rassomiglia alla causa; secondo, che le cose che siano state una volta a contatto, continuano ad agire l'una sull'altra, a distanza, dopo che il contatto fisico sia cessato. Il primo principio può chiamarsi legge di similarità, il secondo, legge di contatto o contagio».
Sebbene la società patriarcale abbia ridotto i ruoli degli dei e, di conseguenza, abbia favorito la religione monoteista rispetto a quella politeista, la voce della Dea – tipica, si è visto, da un lato della società matriarcale e dall’altro del politeismo – non è rimasta inascoltata. Oggi, infatti, si possono contare diverse leggende, favole e culti popolari che tramandano la sua presenza nel tempo antico. È emerso, dunque, come la Dea abbia conservato di sé l’aspetto mutevole, poiché a ogni cambiamento si rinnova continuamente.
In Italia la riscoperta del culto della Dea è avvenuta dapprima grazie all’impegno della teologia femminista, poi con gli studi più moderni e autonomi che abbiano dato rilievo alle scoperte archeologiche di Marija Gimbutas, la cui opera è stata studiata anche da Momolina Marconi che, subentrata al maestro Uberto Pestalozza per l’insegnamento della Storia delle religioni, ha dato nuovo impulso alle religioni del Mediterraneo.
Nell’introduzione a Il linguaggio della dea, Joseph Campbell dichiara: «Se avessi conosciuto prima Marija Gimbutas, avrei scritto dei libri completamente diversi», avvalorando l’impegno dell’archeologa che non deve essere sottovalutato, poiché i dati emersi sono stati utili per elaborare un glossario affinché si possa meglio interpretare la mitologia che è contrassegnata dalle tracce della femminilità. Il libro contiene, dunque, un’indispensabile iconografia della Grande Madre, giacché sono state inserite centinaia d’immagini sulle molte raffigurazioni derivanti dagli scavi durati per circa dodici anni e che vanno dal 6500 al 3500 a.C. – siamo, dunque, nel periodo del Neolitico –, e dal 4500 al 2500 a.C., momento che coincide con la diffusione dell’agricoltura nel resto dell’Europa occidentale.
Ma quali sono i simboli della Grande Madre? In realtà, l’archeologa li ha classificati in quattro gruppi o temi fondamentali: Dispensatrice di vita, Terra eterna che si rinnova, Morte e Rigenerazione ed Energia e Sviluppo. Il primo motivo comprende la sfera acquatica, poiché la civiltà antica credeva che l’acqua generasse la vita. Di conseguenza, l’immagine che rappresenta la categoria è il corpo gravido della dea, come quello della Venere di Willendorf, ma anche la Venere di Lespugne e di Laussel. Gli animali connessi a questa figura sono l’orsa, il cervo, il daino, il bisonte – quest’ultimo importante, poiché le sue corna simboleggiano la luna e, con le tacche incise come nella Venere di Laussel, indica il calendario lunare o mestruale.
La Terra eterna che si rinnova è, invece, la categoria appartenente a un’epoca diversa, in altre parole quella del Neolitico agricolo e sedentario. In questo periodo si sviluppa l’arte della ceramica e l’attenzione si sposta su un’altra figura dalle sembianze dissimili, infatti, è più snella e compaiono le prime forme del dio. L’animale associato è l’ariete, giacché probabilmente fu il primo a essere addomesticato. La vita sedentaria conduce l’uomo a una diversa sperimentazione delle sue abilità, così nasce la tessitura che si fa portatrice della divinità trina – le Tessitrici, che in seguito diventano le tre Parche. Un altro animale associato alla dea è la scrofa, per la sua aumentata fertilità, e l’uccello che si riconnette alla prima categoria acquatica.
Tuttavia, nel secondo gruppo ritroviamo anche gli elementi legati all’agricoltura, poiché la Dea è anche quella della vegetazione, dalla quale deriva il mito di Persefone e Core. Poi il mito sarà completamente rovesciato e il Dio della Vegetazione sostituirà la Dea. La prima apparizione della divinità maschile che incomincia a sostituire quella femminile avviene nell’Antica Europa, ed è quel dio che deve garantire la ricchezza e l’abbondanza del raccolto e della fertilità della terra.
Il terzo gruppo, che fa capo alla Morte e Rigenerazione, appare tra la fine dell’Età del rame e quella del ferro, con l’avvento degli Indoeuropei. In questa fase la nuova associazione della Dea è quella dell’avvoltoio – che pure è molto presente in Egitto –, e che va al di là della naturalità e del ciclo della vita e si carica di un significato più astratto della morte intesa non come la fine del tutto, bensì come un momento di passaggio per la rinascita. L’animale abbinato a questa fase è la civetta, un uccello notturno annunciatore di morte. Di qui la paura dell’uomo per la fine della sua vita, e la volontà dello stesso di costruire i santuari e le piramidi che diventano dei veri e propri luoghi di culto.
Infine, l’ultima categoria è Energia e Sviluppo e, come la precedente, ha un significato immateriale, poiché coincide con l’energia creativa per eccellenza che è simboleggiata dalla spirale. L’animale-simbolo è il serpente kundalini, forma base del cosmo giacché le galassie, le nebulose ecc., sono tutte a forma di spirale e anche il Dna. In questo gruppo troviamo anche le falci di luna e, dalla fine del Neolitico, inizia a spuntare il simbolo dell’albero della vita, che nella sua forma più astratta è la croce. La partecipazione alla vita dell’albero conduce ai tre regni: ctonio, terrestre, aereo o solare.
In realtà, i simboli del passato sono ricorrenti anche nel nostro presente. Marija Gimbutas, infatti, diceva che: «Le credenze delle popolazioni agricole riguardo sterilità e fertilità, la fragilità della vita e la costante minaccia di distruzione, e il periodico bisogno di rinnovare i processi generativi della natura, sono tra le più durature. Continuano a vivere nel presente, così come gli aspetti arcaici della Dea preistorica, nonostante il continuo processo di erosione dell’età storica. Trasmesse da nonne e mamme della famiglia europea, le antiche credenze si sottrassero al processo di sovrapposizione dei miti indoeuropei e infine di quelli cristiani. La religione incentrata sulla Dea esisteva molto prima di quelle indoeuropea e cristiana…e ha lasciato un’impronta indelebile nella psiche occidentale».
D’altra parte anche Momolina Marconi ha avuto la stessa esperienza della Gimbutas, poiché il materiale da lei reperito, contenente miti e nomi, è stato di facile comprensione. In questo caso, però, l’attenzione si è spostata sulle antiche divinità femminili che hanno occupato un posto di rilievo all’interno della società italiana, in particolare della cultura greco-romana nelle zone dell’antico Lazio, e che si estendono fino alla penisola iberica e alle coste settentrionali dell’Africa. Questa parte è intitolata La grande divinità femminile mediterranea, ed è la dea che si stringe i seni, la dea che regge o allatta il bimbo, la potonia zoròn, la dea con la colomba, la dea Efesia e la dea Lucifera. È la dea che conserva la sua femminilità e la forza generativa, ma ha anche una parte – quella lucifera – che, in seguito, è stata demonizzata dall’avvento del Cristianesimo.
Momolina Marconi afferma: «È ormai noto che il culto dei Mediterranei era rivolto a una grande dea, signora delle erbe, dei fiori, delle piante, signora delle belve e degli armenti, signora degli agricoltori e dei marinai, signora delle fanciulle mature per le nozze e delle spose feconde (…) Orbene, questa onnipotente divinità è specialmente adorata come largitrice di salute, di benessere. Quali sono i mezzi di cui dispone per quest’opera essenziale? La conoscenza delle erbe e dei fiori da cui estrae succhi e unguenti e beveraggi che ridonano, per prodigio, la salute, la giovinezza, la vita. Ond’è che in questa diuturna, nobile fatica di potnia fyton (Signora delle piante), essa s’identifica con la terra, è dai suoi fedeli sentita come la terra, feconda altrice di vita, che da sé genera instancabilmente le erbe tenere, i frutti copiosi, i possenti tronchi».
Abbiamo, dunque, esplorato una fase dell’uomo che ci sembra molto lontana, difficile da immaginare senza l’aiuto di quei meravigliosi lavori di archeologia e antropologia, necessari affinché possiamo comprendere le nostre radici che sono più femminili di quanto potremmo pensare. D’altronde anche la studiosa Luciana Percovich, nell’introduzione al suo libro, si chiede: «Quali effetti ha prodotto e continua a produrre, su di me e in ogni altra donna, una simbologia maschile del divino, cioè sul potere ultimo da cui emana, regolandola, la vita?». Quali, invece, sono gli effetti che derivano da un mito strettamente femminile? Se per capire il presente è necessario ricorrere al nostro passato, ne deriva che l’umanità è figlia del suo tempo, fra il mito e il sogno.
Italia, un paese in declino. E la sua lingua?
di Francesca Pacini
Mssimo Arcangeli è un linguista, critico letterario e scrittore. Collabora con l'Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani e con numerose testate giornalistiche e radiotelevisive. Un uomo sempre impegnato, in prima linea per quanto riguarda lo studio del linguaggio e dei suoi mutamenti. Qui condivide con noi alcune riflessioni sul rapporto che il nostro paese ha con le sue parole, che si riflettono anche nella società...
Il rapporto tra linguaggio e identità nazionale. Com’è mutato, oggi?
De triviali eloquentia. Così ho intitolato un capitolo del mio Cercasi Dante disperatamente. L’italiano alla deriva (Roma, Carocci, 2011). Il motivo? Viviamo in un periodo di progressiva trivializzazione del linguaggio, che è anche una trivializzazione della nostra identità collettiva (ma dubito che ne abbiamo mai avuta davvero una). Sul banco degli imputati non c’è solo l’imbarbarimento prodotto da una volgarità generalizzata, ormai dominante un po’ ovunque, ma anche l’appannamento e la liofilizzazione di parole importanti come libertà, democrazia o giustizia, impugnate come clave dai politici contro i loro avversari. Quest’ultimo fattore, che è una forma subdola di involgarimento, contribuisce, con evidenti altri sintomi di un inarrestabile declino culturale, ad annebbiare ogni giorno di più le nostre coscienze critiche e a ottundere le nostre capacità di discernimento. Potremmo dire, con Thomas Bernhard: “La volgarità è da ogni parte intorno a noi, e ogni giorno, inevitabilmente, soffochiamo nell’imbecillità”.
Cosa pensi di questo paese? Vizi e virtù del popolo italiano...
Una delle parole più interessanti dell’Italia postunitaria, fra quelle costitutive del carattere italiano, c’è fesso. È un napoletanismo che al tempo della Prima Guerra Mondiale, grazie all’acuta penna di Giuseppe Prezzolini, si sarebbe via via propagato in tutta la penisola. I furbi, che in quell’esperienza bellica vennero segnati a dito dai più (s’imboscavano, sottraendosi all’obbligo di servire il paese), furono però anche soggetti da emulare per molti di quei soldati che, impegnati al fronte, volevano affrancarsi dalla loro condizione di fessi. Siamo, secondo me, ancora lì: ai “fessi” della resistenza sul Piave e sul Grappa e ai “furbi” della vittoria di Vittorio Veneto. La forbice tra chi fa il proprio dovere e chi si sottrae a ogni responsabilità, in una delle tante riproposizioni del mito negativo delle “due Italie”, mi pare si sia anzi addirittura allargata.
Quali sono le frasi, le espressioni gergali, che più ci rappresentano?
Più che espressioni gergali (o stereotipiche) mi verrebbe di indicare tante frasi fatte di cui non si comprende più nemmeno il reale significato, tante sono le volte in cui le si ripete meccanicamente. Oppure qualche affermazione che abbia avuto un grande impatto mediatico e venga riutilizzata proditoriamente in modo incongruo, per un gioco alla rincorsa di forme-involucro che, anche in questo caso, pare infischiarsene del senso. Il 12 novembre mi è arrivata via mail un’offerta promozionale sul risparmio energetico, e chi me l’ha mandata si è firmato “Stai sereno 24mesi!!”. Mi sono naturalmente ben guardato dall’accoglierla. Sappiamo tutti cos’è accaduto a chi, non molto tempo fa, ha ricevuto l’invito a star sereno.
E quelle che dovremmo evitare?
Proprio quelle che più ci rappresentano.
La coscienza di un popolo si fonda sulla cultura. Non a caso le dittature hanno sempre cominciato con il prendere di mira gli intellettuali... Che dire di un’Italia ignorante che continua a non leggere?
Qui siamo di fronte a un problema ben più grave di un’emorragia di lettori. La cultura è alla canna del gas, ha dichiarato l’anno scorso, da ministro per i Beni e le Attività Culturali, Massimo Bray. Nel 2013 il bilancio del MIBAC (1.546.779.172 euro), aveva informato Bray, si era infatti ridotto di oltre 100 milioni rispetto al 2012 e di quasi 500 milioni rispetto al 2008. Nel 2001 superava abbondantemente i due miliardi di euro; al tempo del ministero Bondi era stato portato dallo 0,28% allo 0,19% del totale della spesa pubblica (un misero 0,11% del prodotto interno lordo). Un paese che falcidia la cultura, trascinandola in fondo a tutte le classifiche europee, è un paese che, sull’ignoranza, strapiomba (col rischio di precipitare giù una volta per tutte, perché il deficit culturale è generatore di un deficit politico ed economico). L’Italia ignorante è anche quella toccata in sorte ai maestosi bronzi di Riace, che sono giaciuti a lungo, malinconicamente adagiati, nel palazzo del Consiglio regionale di Reggio Calabria. Quanto agli intellettuali, magari ne avessimo: potrebbero far sentire la loro voce, riuscire a farsi ascoltare almeno da una certa fetta della popolazione. Di intellettuali, invece, non ne abbiamo, e a parte rare eccezioni (da Gramsci a Pasolini) non ne abbiamo mai avuti.
Come vivi il tuo rapporto con la scrittura? Hai pubblicato diversi libri.
Il mio rapporto con la scrittura, attualmente, è una continua sfida portata alla teoria e alla pratica anticonsolatoria della contaminazione. Sono uscito qualche mese fa con un volume ibrido (Orizzonti inVersi. Poesia di tutti, poesia per tutti, Roma, Aracne), arricchito da un intervento critico di Giancarlo Liviano D’Arcangelo, composto da un mio saggio e da un’amplissima selezione – quasi l’opera omnia – di una giovane poetessa: Stefania Rabuffetti. L’ho fatto per dare maggior forza al risarcimento simbolico nei confronti dei tanti poeti che, avendo poco o nulla da invidiare ai pochi più fortunati, soccombono impotenti a un mercato strangolato dalla ricerca del profitto. Un altro mio libro ibrido (Biografi@ di un@ chiocciol@. Una storia confidenziale) è di imminente uscita presso Castelvecchi. È un libro di storie, a mezzo tra “saggio personale” (personal essay) e “racconto accademico”, che narrano di telegrafi e di computer, di telescriventi e di macchine da scrivere. Su tutto svetta però lei, la chiocciola informatica: con i suoi corsi e i suoi trascorsi; le parole che la identificano in tante lingue del mondo; il simbolo universale che è diventata; i tanti altri simboli con cui, lungo i secoli, ha familiarizzato di più. I vari filoni narrativi si ricompongono in quell’unico segno, timbrato a fuoco sulla nostra seconda pelle: una posta elettronica ben più intrusiva della posta ordinaria alloggiata nella cassetta per le lettere; ci possiede totalmente, fa ormai di noi quel che vuole. Tutto, è proprio il caso di dirlo, ruota attorno ad @.
Intervista di Francesca Pacini a Massimo Arcangeli
(La Stanza di Virginia novembre 2014)
1) Il rapporto tra linguaggio e identità nazionale. Com’è mutato, oggi?
De triviali eloquentia. Così ho intitolato un capitolo del mio Cercasi Dante disperatamente. L’italiano alla deriva (Roma, Carocci, 2011). Il motivo? Viviamo in un periodo di progressiva trivializzazione del linguaggio, che è anche una trivializzazione della nostra identità collettiva (ma dubito che ne abbiamo mai avuta davvero una). Sul banco degli imputati non c’è solo l’imbarbarimento prodotto da una volgarità generalizzata, ormai dominante un po’ ovunque, ma anche l’appannamento e la liofilizzazione di parole importanti come libertà, democrazia o giustizia, impugnate come clave dai politici contro i loro avversari. Quest’ultimo fattore, che è una forma subdola di involgarimento, contribuisce, con evidenti altri sintomi di un inarrestabile declino culturale, ad annebbiare ogni giorno di più le nostre coscienze critiche e a ottundere le nostre capacità di discernimento. Potremmo dire, con Thomas Bernhard: “La volgarità è da ogni parte intorno a noi, e ogni giorno, inevitabilmente, soffochiamo nell’imbecillità”.
2) Cosa pensi di questo paese? Vizi e virtù del popolo italiano...
Una delle parole più interessanti dell’Italia postunitaria, fra quelle costitutive del carattere italiano, c’è fesso. È un napoletanismo che al tempo della Prima Guerra Mondiale, grazie all’acuta penna di Giuseppe Prezzolini, si sarebbe via via propagato in tutta la penisola. I furbi, che in quell’esperienza bellica vennero segnati a dito dai più (s’imboscavano, sottraendosi all’obbligo di servire il paese), furono però anche soggetti da emulare per molti di quei soldati che, impegnati al fronte, volevano affrancarsi dalla loro condizione di fessi. Siamo, secondo me, ancora lì: ai “fessi” della resistenza sul Piave e sul Grappa e ai “furbi” della vittoria di Vittorio Veneto. La forbice tra chi fa il proprio dovere e chi si sottrae a ogni responsabilità, in una delle tante riproposizioni del mito negativo delle “due Italie”, mi pare si sia anzi addirittura allargata.
3) Quali sono le frasi, le espressioni gergali, che più ci rappresentano?
Più che espressioni gergali (o stereotipiche) mi verrebbe di indicare tante frasi fatte di cui non si comprende più nemmeno il reale significato, tante sono le volte in cui le si ripete meccanicamente. Oppure qualche affermazione che abbia avuto un grande impatto mediatico e venga riutilizzata proditoriamente in modo incongruo, per un gioco alla rincorsa di forme-involucro che, anche in questo caso, pare infischiarsene del senso. Il 12 novembre mi è arrivata via mail un’offerta promozionale sul risparmio energetico, e chi me l’ha mandata si è firmato “Stai sereno 24mesi!!”. Mi sono naturalmente ben guardato dall’accoglierla. Sappiamo tutti cos’è accaduto a chi, non molto tempo fa, ha ricevuto l’invito a star sereno.
4) E quelle che dovremmo evitare?
Proprio quelle che più ci rappresentano.
5) La coscienza di un popolo si fonda sulla cultura. Non a caso le dittature hanno sempre cominciato con il prendere di mira gli intellettuali... Che dire di un’Italia ignorante che continua a non leggere?
Qui siamo di fronte a un problema ben più grave di un’emorragia di lettori. La cultura è alla canna del gas, ha dichiarato l’anno scorso, da ministro per i Beni e le Attività Culturali, Massimo Bray. Nel 2013 il bilancio del MIBAC (1.546.779.172 euro), aveva informato Bray, si era infatti ridotto di oltre 100 milioni rispetto al 2012 e di quasi 500 milioni rispetto al 2008. Nel 2001 superava abbondantemente i due miliardi di euro; al tempo del ministero Bondi era stato portato dallo 0,28% allo 0,19% del totale della spesa pubblica (un misero 0,11% del prodotto interno lordo). Un paese che falcidia la cultura, trascinandola in fondo a tutte le classifiche europee, è un paese che, sull’ignoranza, strapiomba (col rischio di precipitare giù una volta per tutte, perché il deficit culturale è generatore di un deficit politico ed economico). L’Italia ignorante è anche quella toccata in sorte ai maestosi bronzi di Riace, che sono giaciuti a lungo, malinconicamente adagiati, nel palazzo del Consiglio regionale di Reggio Calabria. Quanto agli intellettuali, magari ne avessimo: potrebbero far sentire la loro voce, riuscire a farsi ascoltare almeno da una certa fetta della popolazione. Di intellettuali, invece, non ne abbiamo, e a parte rare eccezioni (da Gramsci a Pasolini) non ne abbiamo mai avuti.
6) Come vivi il tuo rapporto con la scrittura? Hai pubblicato diversi libri.
Il mio rapporto con la scrittura, attualmente, è una continua sfida portata alla teoria e alla pratica anticonsolatoria della contaminazione. Sono uscito qualche mese fa con un volume ibrido (Orizzonti inVersi. Poesia di tutti, poesia per tutti, Roma, Aracne), arricchito da un intervento critico di Giancarlo Liviano D’Arcangelo, composto da un mio saggio e da un’amplissima selezione – quasi l’opera omnia – di una giovane poetessa: Stefania Rabuffetti. L’ho fatto per dare maggior forza al risarcimento simbolico nei confronti dei tanti poeti che, avendo poco o nulla da invidiare ai pochi più fortunati, soccombono impotenti a un mercato strangolato dalla ricerca del profitto. Un altro mio libro ibrido (Biografi@ di un@ chiocciol@. Una storia confidenziale) è di imminente uscita presso Castelvecchi. È un libro di storie, a mezzo tra “saggio personale” (personal essay) e “racconto accademico”, che narrano di telegrafi e di computer, di telescriventi e di macchine da scrivere. Su tutto svetta però lei, la chiocciola informatica: con i suoi corsi e i suoi trascorsi; le parole che la identificano in tante lingue del mondo; il simbolo universale che è diventata; i tanti altri simboli con cui, lungo i secoli, ha familiarizzato di più. I vari filoni narrativi si ricompongono in quell’unico segno, timbrato a fuoco sulla nostra seconda pelle: una posta elettronica ben più intrusiva della posta ordinaria alloggiata nella cassetta per le lettere; ci possiede totalmente, fa ormai di noi quel che vuole. Tutto, è proprio il caso di dirlo, ruota attorno ad @.
Picasso, periodo blu
di Lorenzo Giacinto
A Julio.
Non possono cominciare diversamente dei fogli che ti raccontino, che ti contengano come una vasca contiene un salmone che si dimena con l’insistenza di un pesce rosso in un acquario. Non può essere che così, perché tu sei sempre stata dislocazione e distanza, qui e non qui, distopia ed entropia. Quando non c’eri, persistevi nei cerchi di fumo delle sigarette, nei biglietti del metrò che piovevano come tanti tentativi di perdermi, perderti, ritrovandomi come un gatto con la pancia all’aria in un vicolo assolato. Quando eri con me, la tentazione del tu, dei tuoi capelli sciolti in cui scioglievi i nodi tuoi e miei e il calore d’agosto, qui e non qui, in una piazza qualunque di Roma o di una città europea o un belvedere di una metropoli sudamericana, soffiavi la nostalgia come un vento tropicale di note musicali e occhi rossi e pomeriggi interminabili, sognandoti mentre c’eri. E ci saresti stata ancor di più di fronte a quella linea dell’orizzonte, avresti fatto ancora più chiasso, bambina capricciosa amore mio, guardando quel mare di cui non capivamo la lingua, e io avrei capito, io che capisco tanto bene quello che si ostina a picchiare con guanti di seta, avrei capito che quella linea in fondo alla curva del cielo sarebbe finita nel palmo della tua mano, la mano destra, perché le linee si vedevano meglio, e chissà perché quella dell’amore era sempre la meno dritta, se con quella tu rassettavi le lenzuola dove il tuo trucco ti disfaceva, se con quella ti toccavi in mezzo alle cosce con l’eleganza di un cigno selvatico, se con quella mi toccavi il cazzo amore mio orsacchiotta mia, con una passione da documentarista sudamericana, prima di lasciarla aperta sul tuo seno, e pur essendo qui io ti inventavo, ti inventavo anche se eri davanti a me, dritta nella tempesta attorno a noi.
C’eri e non c’eri, c’eri nei tuoi occhi che erano i miei che guardavano i tuoi, nelle ventate delle palpebre che erano come diapositive che mandavi dalle città viste e non viste, perché questo avevano i tuoi occhi, erano pieni della nostalgia delle cose, dei colori di Lisbona per esempio, quel bianco che annegava nell’oceano, o dei tetti di Parigi, l’oro dei tetti quando il sole scioglie lo zucchero filato sulla Senna. Ed erano anche pieni, all’alba, perché ogni cosa era il suo contrario e l’anticipava e lo posticipava, erano pieni all’alba dei tramonti africani, di quel sole tunisino che era una punta di spillo a Cartagine, a Sidi Bou Said, dove ho comprato un braccialetto con i caratteri arabi per non perdermi negli incroci dei venti, o a Saragozza, là dove invece i venti non c’erano e se c’erano erano gorghi intrappolati nelle crepe dei palazzi del centro. Perché il tempo è questo confuso sparpagliarsi di carte, cartigli, lettere non scritte come rinunce inconfessabili, e minacce di uragani e vagoni di metropolitana, il tempo è solo un vuoto circondato dai tuoi perché, dai come, dai miei forse, dai miei se solo, se solo il tempo potesse riavvolgersi e racchiudere ancora i tuoi fianchi e inchiodarmi amore mio orsacchiotta mia cucciolo, inchiodarmi a una tua gigantografia conMontparnasse alle tue spalle, ma ritrovarsi infine sempre qui,immaginandoti ricordandoti prevedendoti, sognando Modigliani e Cortázar e il cinema di Almodóvar e dirsi: ecco, è questo il tempo, e soffiarci dentro forte per vedere se i bastoncini dello Shangai cadono con il fragore di una diga che si spezza.
Mi ricordo, e dovresti ricordare anche tu, la prima volta fu in aeroporto, dove si attendono gli amanti da un viaggio oltremondano, e infatti quando ti vidi avevi della polvere infernale sulle spalle. Fu allora che capii che quello che chiamavo amarci ero io che soffiavo, ancora soffiare un vento umano, ero io che soffiavo sulle tue polveri mentre tu mi davi la schiena, e a nulla valevano le mie storie di mitologia greca, a nulla servivano le mie mille varianti di Amore e Psiche, o la gestualità innamorata mentre ti parlavo del Bosforo, di quel navigare le sue acque di libertà. E amarsi era ancorascavalcare quel parapetto del ponte a Firenze, nell’ora in cui si chiudono le imposte, festeggiando con un Chianti la mia permeabilità, si tesoro mio brutta stronza, la mia forte permeabilità alle tele di Klimt e ai rovesci del tempo, allo smalto delle tue unghie e a tutta una serie di oroscopi sbagliati.Perché tu sei sempre stata al di fuori del cerchio magico che, come un cane, avevo circoscritto con quattro pisciatine essenziali, quello stesso cerchio magico in cui volevo confinarti a forza di orgasmi che mi negavi, oh sì, e non servì neanche tutta la sangria di Viareggio la notte di Carnevale per quelli, quel cerchio magico in cui ti avrei spogliata e legata come un idolo africano, accendendo delle pire intorno a te, come per rendere omaggio a un temibile nemico ormai vinto, come per intrappolarti sempre nell’ultimo passante della cintura. Perché questo era amarsi, mi pare, ora che l'urgenza delle maree e l’ossessione dei treni non perturbano più l’aria di fine maggio, ora che di Siena non rimane che il ricordo di una magnifica piazza mascherata, di una torre scossa dalle correnti, del tuo ciclo che tra poco finisce, finirà, ora che il lungomare di Napoli vorrà dire solamente l’amore per i cani randagi e le partite a carte per eludere la tua poca voglia di fare l’amore, ora che di Parigi non rimane che un campionario e un cimitero di occasioni perdute, ora che Parigi vorrà significare sempre una donna bellissima con i tratti sfigurati dal piacere che mai avrà il tuo volto, o una mostra d’avanguardia silenziosamente intensa come una guerra fredda, sì brutta stronza amore mio puttana, tu che sei qui e non sei qui, orsacchiotta non mia come il tuo peluche preferito, tuo e non mio, tu che non sei qui.
Perché in principio fu una mancanza, un’ansia di sostituzione, uno slittamento su altri binari diversi da quelli ordinari, per me era certamente questo, così non so dirti se ero io davvero quello che tu aspettavi in piedi nella piccola stazione tirrenica, o se forse la parte migliore di me era rimasta davanti alla macchina vidimatrice nella stazione di partenza, tenendo in mano un biglietto che era un lasciapassare di fantasmi colorati o il senso di appartenenza a una vita, così mi pare che si chiami ciò che avviene a Cenerentola dopo la mezzanotte, una vita che potesse dormire tra i tuoi seni. E così mi aspettavi senza clamore, con la fatale rassegnazione dei nomadi del deserto, privando gli incontri della grazia e camuffando i congedi, sempre con quella disposizione al minimalismo, quel solleticoirriverente che a volte prudeva nel tuo pancino di lucertola, perché tu c’eri soprattutto quando pulsavi in altre vite, in altri ritmi, in altri regni animali, in altre latitudini incerte. E potresti dirlo ora, potresti raccontarlo senza paura, con quanta cura scegliemmo in quel supermercato i tuoi vini e il mio limoncello, come per rendere più veloce quello che il destino aveva già in serbo per noi, semplici esecutori di misteriose corrispondenze da evadere. E non penserai, perché tanto l’oblio si legherà ai tuoi atomi di ossigeno, alle tue caramelle gelatinose e a tutti i condom che ti saranno necessari, non penserai che fu un attimo passare dal tavolo del tuo salotto al balcone,vedere se eravamo ben compresi da quella notte come una coperta tirata ben bene fin sulle spalle, e baciare il tuo corpo, cominciando dalla tenerezza di una testa che si posa su una spalla, e poi il tuo collo da giraffa, il tuo bel collo Modigliani prima della bocca e i seni, prima di toglierti le mutandine con una disinvoltura così falsa, e studiare ogni millimetro della tua pelle con la passione di un entomologo innamorato, riscoprire il flusso di tutti i vasi sanguigni dimenticati e riattivare flussi misteriosi con un sapore acido nella bocca, e una sequenza interminabile di capriole nell’aria, di volatili migrazioni stagionali, di correnti avverse risalite dai salmoni, di pinguini che svernano, di triangoli illuminati delle api, diorsacchiotte golose che suggono il miele, perché tu eri un’orsacchiotta amore mio, un’orsacchiottache sapeva fermarsi un attimo prima che i fiumi esondassero.
I film francesi di Truffaut ora, quella macchina che chiudeva Jules e Jim e che portava in sé degli amanti poco vigili, uguale alla fine del racconto di Julio con i vetri infranti di un'auto attorno a un albero di quercia, e soprattutto la conclusione di un film che sentenziava “ni sans toi ni avec toi”, e che suonava come una terribile premonizione all’inizio, quando l’inverno era come un gatto acquattato dietro i rami spogli e le tue ossa umide. Perché quello che serviva era una scorta infinitadi combustibile per le mani e per i piedi, e che mai il fianco avvertisse una strana sospensione d’aria, come l’assenza di un contatto umano. Provo, adesso, a capire come la parola fine abbia messo le proprie zampette di ragno immondo sulla sua preda, e mi dico allora che fu perché mai ti chiesi di metterti il burro di cacao sulle labbra, di legarti i capelli come faresti nella calura estiva, mai ti chiesi di risaltare i tuoi occhi con la matita, per assomigliare a quella geisha sulla stampa veneziana che tanto ti piaceva, e ancora non ti imposi di cominciare a studiare la tua lingua dal primo capitolo della grammatica, circondati dalla serenità delle dispense piene, dai ricambi di intimo necessari o dal tubetto di dentifricio nel suo vasetto in bagno.
E ancora, non ti imposi di lasciarmi fare, o almeno non quanto avrei voluto, dal momento che tu sorvegliavi la tua intimità come un Cerbero rabbioso, come intuissi che superando le tue colonne d’Ercole avrei raggiunto il punto di non ritorno, ritrovandomi in bui fondali marini, e tu allora mi avresti salvato in fondo, riconsegnato di nuovo al dominio di me stesso, un Ulisse rimasto invulnerabile al canto delle sirene.
Eppure, ti nego ogni forma di assoluzione, perché le nostre passeggiate a Roma, la mia Roma, erano una promessa di geometrie conciliabili che tu non hai attaccato al tuo girovita, e appresi quasi fin da subito che per te la vita si snodava come un film muto, dal momento che tutte le battaglie del tuo cuore avevano la discrezione delle campane di vetro dei negozi di souvenir, e pensa che la mia compostezza ne ruppe una, invece, in una Sankt Moritz gelida dove ancora dormivi nel silenzio delle nevi. Avrei dovuto capire, da questa diversa ruvidezza nelle mani, che avevamo due modi diversi di stare al mondo, criticamente distaccato dall’eccesso di passione il tuo, eccessivamente passionale senza alcun critico distacco il mio, e questo chiasmo in antinomia ci accompagnò sempre come un presagio cattivo, impedendo l’incontro favorevole delle nostre case zodiacali, dei nostri tessuti genitali, di parole timide come dei conigli nascosti nella lattuga e che infatti mai utilizzammo per darci un tono, mentre io pensavo dolcemente al monologo di Marion ne Il cielo sopra Berlino (“guarda, i miei occhi sono l’immagine della necessità”).
Fu allora che ti sentisti meglio, credo, quando per la prima volta ti mostrai la fontana di Trevi che, per un perverso gioco del destino, nella tua lingua è nota come la fontana dell’amore, e forse fu quello l’unico momento (ricordi, eravamo circondati da troppi turisti giapponesi e cominciavamo a desiderarci) in cui le nostre due mani si giunsero senza destare sospetto, senza neanche quel solletico di privilegio e follia che si accende negli amanti del Pont-Neuf. Nello stesso momento, davanti a uno due tre spritz perché fuori cominciava a piovere forte e i cani ci venivano incontro con le bocche fumanti, ingenuamente mi nascondevo che in realtà tu ed io ci stavamo allontanando sempre più, invisibilmente, come quando nella galleria degli Uffizi tu andavi a caccia di ritratti ottomani, e invece io sognavo Gauguin, Mondrian e Mirò, e un altro paese che mi imponesse la necessità di una tabula rasa, di panni bianchi ad asciugare sui fili penzolanti di una città dorata sul mare, di un’altra lingua che era un modo di ritrovarmi a isolare dalla folla un volto che desse un senso alla vita, un petto, un ventre, una gola, che so. E si poteva avere quella pigra inclinazione alle voluttà come i gatti di Istanbul, questo pensavo dentro di me, mentre ti vedevo sorseggiare quel vino siciliano che adoravi, e guarda il caso proprio Istanbul piaceva a me e non a te, e non potevi misurare la pena che mi dava, perché mai ti confidai che non riesco a misurarmi nello spazio e nel tempo se non davanti a una donna che guardo come il vetro di uno specchio.
Ma ora, ora che quasi una stagione si è chiusa senza te, ora che l’effetto ottico è cambiato come nella finta cupola di una chiesa romana dove non ti ho portata, ora che quello che ruggiva di notte con un latrato di bestia minacciosa o quello che moriva in fondo alle tazze del caffè o sul palmo umido di una mano e le tue labbra, ora che tutto questo si è trasformato nei tendini impegnati nella scrittura, in un quadro cubista, in un qualsiasi film di Buñuel, in ponderati soliloqui, in letture di poeti argentini, veneri solitarie e sonate rivisitate di Chopin, ora posso guardare a quello che eravamo e collocarlo tra le prove di un montaggio non riuscito, tra le incertezze di un regista con tutto il suogirato a disposizione, nella fredda solitudine di uno studio che raccoglie i poster di tutti i più bei film del mondo. O dev’essere stato anche a causa di un’incomprensione dei nervi ottici, di una direzione diversa dello sguardo, e i nostri non si sostenevano che per pochi secondi, senza capirsi in fondo, senza che la teoria dei vasi comunicanti governasse anche il travaso delle pupille, ora che tu guardi con ribrezzo il moto di un insetto su una foglia di insalata, e invece il mio sguardo prende la forma dell’oblò dell’aereo in cui mi trovo, lontano da te, sempre più piccola, piccola, un puntino come un neo o del sebo sul viso, una piccola impertinenza da scacciare nel cielo, ora che anche l’ultima ruota si è levata da terra e la punta dell’aereo guarda verso su.
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