Società
Il bacio del vero amore
di Eleonora Mammana
La riscossa femminile sul grande schermo lascia i personaggi maschili con le ossa rotte: il concetto di vero amore cambia, rispetto alla tradizione delle favole.
È finita l'era dei principi in calzamaglia azzurra e cavallo bianco, ora sono sorelle e “fate madrine” a spezzare gli incantesimi... Questo, almeno, è ciò che si evince da alcune delle ultime produzioni Disney.
Da Biancaneve e i sette nani (1937) a Cenerentola (1950), da La Bella Addormentata nel bosco (1959) a Come d'incanto (2007), ci siamo abituati a “credere” che il vero amore fosse indiscutibilmente il colpo di fulmine tra la bella da salvare e il principe di turno. Da tempo, però, registi e sceneggiatori si stanno discostando dagli stereotipi fiabeschi per indagare il mondo degli affetti. È il caso, in particolare, di Chris Buck e Jennifer Lee con Frozen – Il regno di ghiaccio (2013) e di Robert Stromberg e Linda Woolveerton con Maleficent (2014), entrambi prodotti dalla Walt Disney Picture.
Nel primo, film di animazione liberamente ispirato alla fiaba di Hans Christian Andersen La regina delle nevi, si pone l'accento sul legame tra sorelle. Protagoniste sono, infatti, Elsa, principessa di Arendelle, regno simil scandinavo, nata con il dono di creare ghiaccio e neve, e la sua affezionatissima sorella minore Anna. Incapace di gestire il suo potere, Elsa, avendo inavvertitamente ferito Anna mentre giocava con lei, temendo di farle nuovamente del male, decide di separarvisi e di vivere isolata da tutti. Al compimento dei suoi diciotto anni, però, è costretta a mostrarsi in pubblico per essere incoronata, ma a causa di un litigio con Anna, che vorrebbe sposare l'appena conosciuto Hans, principe delle Isole del Sud, perde di nuovo il controllo dei suoi poteri. Fugge così da Arendelle lasciandolo in un inverno perenne, decisa a vivere per sempre da sola. Anna va a cercarla con l'aiuto di Kristoff, un venditore di ghiaccio, della sua renna e di Olaf, un pupazzo di neve, ma, cacciata in malo modo, viene di nuovo inavvertitamente colpita dalla sorella, questa volta al cuore. In fin di vita, viene a sapere che solo un gesto di vero amore potrà salvarla; Kristoff, pertanto, pur innamoratosi di lei, la riporta ad Arendelle confidando nel bacio di Hans. Il principe, però, che avrebbe voluto sposare la fanciulla solo per ucciderne poi la sorella e impadronirsi così del regno, vedendola morente ne approfitta per sbarazzarsi subito di Elsa. Viene però fermato da Anna, che si sacrifica, frapponendosi tra loro. E sarà proprio questo il gesto di vero amore che scioglierà il ghiaccio dal cuore della giovane riportandola in vita e che insegnerà a Elsa che la chiave per controllare i suoi poteri è l'amore.
Niente baci, pertanto, né banali colpi di fulmine. Quello che viene celebrato in questa storia è il vero amore in tutti i sensi. Se è indubbio, infatti, che l'accento venga posto sul profondo affetto che lega le due sorelle e che porta ognuna di esse a suo modo a sacrificarsi per l'altra (Elsa separandosi, ancora bambina, da Anna, per non ferirla più, e quest'ultima impedendo ad Hans di uccidere la prima), è anche chiaro, a mio parere, che amore vero sia pure ciò che Kristoff dimostra di provare per Anna. Come già detto prima, infatti, egli non esita a riportarla da Hans per salvarla, anche se ciò significa rinunciare a lei.
Ben altra storia è quella di Maleficent. Qua l'amore tra uomo e donna è decisamente bistrattato; basti dire che la strega cattiva, interpretata da una mai tanto azzeccata Angelina Jolie, diventa tale proprio in seguito al tradimento di una promessa di amore eterno, e che la nota maledizione che essa scaglia sulla neonata Aurora, altro non è se non una vendetta nei confronti del suo subdolo ex amante. Ma partiamo dall'inizio: Malefica è una potente fata, protettrice della Brughiera, una magica terra abitata da creature incantate, minacciata dal regno del perfido re Enrico. Qua conosce Stefano, un giovane di umili origini, del quale si innamora, ricambiata. Con il passare degli anni, però, il giovane, impegnato a emergere alla corte di Enrico, si reca sempre meno dalla sua amata, a sua volta occupata a respingere proprio gli attacchi del re. Un giorno, venuto a sapere che il sovrano lascerà la corona a chi ucciderà la strega che continua a infliggergli umilianti sconfitte, sopraffatto dall'ambizione, torna da Malefica e, facendola addormentare con l'inganno, non avendo il coraggio di ucciderla le taglia le ali. Tornato da Enrico, lo convince di essersi sbarazzato per sempre di lei e pertanto ottiene l'ambito trono. La fata, nel frattempo, tradita, umiliata e privata di quanto per lei più prezioso, attende il momento giusto per vendicarsi. L'occasione arriva alla nascita della primogenita di Stefano, Aurora, contro la quale Malefica scaglia il suddetto anatema. Mentre l'uomo, a questo punto, si logora, trascorrendo ogni istante del giorno e della notte alla ricerca di un modo per uccidere la fata, Malefica passa le sue giornate con la piccola Aurora, nascosta nel bosco con le tre fatine. Essa, infatti, viene letteralmente conquistata dall'innocente esserino, che, pian piano, riesce a far tornare la luce nel suo cuore oscurato dalle tenebre. Al compimento del suo sedicesimo anno, però, Aurora si punge col famoso fuso e cade in un sonno profondo. A nulla valgono i tentativi di Malefica di evitare prima e di spezzare poi, la sua stessa maledizione. Nemmeno il bacio di Filippo, il giovane principe che Aurora ha da poco conosciuto, e che Malefica stessa va a cercare affinché rompa l'incantesimo, infatti, può nulla. Affranta, allora, la fata bacia un'ultima volta la fronte della sua piccola protetta ed ecco che la fanciulla si risveglia.
Anche questa volta, perciò, non è il bacio di un uomo a spezzare il sortilegio. Filippo, anzi, ben lontano dall'impavido principe della versione disneyana del 1959 pronto a oltrepassare rovi e a combattere draghi, è poco più di una comparsa. A dominare integralmente la scena è Malefica, non tanto, o non solo, come strega cattiva, quanto come fata madrina. Aurora stessa, infatti, la chiama così, venendo, del resto, da lei accompagnata fin dai suoi primi passi. Come una madre Malefica è protettiva, premurosa, sempre presente, e di una madre prova le emozioni, i timori e i sensi di colpa.
Per concludere, se in Frozen viene ancora concesso uno spazio all'amore tradizionale tra uomo e donna, se pure lontano dai fragili colpi di fulmine delle fiabe di un tempo, in Maleficent pare che questo spazio non vi sia più. Malefica, infatti, impara ad amare di nuovo, ma impara ad amare una figlia. Potrà mai tornare ad avere fiducia anche nell'amore di un uomo? È lei che va a cercare Filippo e che lo conduce da Aurora nella speranza che possa salvarla con il bacio del vero amore, ma ci crede davvero o è solo un tentativo disperato? A voi romantici la risposta.
In tempo e in fuga
di Stella Larotonda
Saranno questi ventotto anni - che stanno per posizionarsi sopra di me come una nuvola sulla mia testa tutt'altro che passeggera, per vedere fino a che punto riesca a reggerla -; sarà questo momento, a cavallo tra il desiderio ideale di costruire e la realtà che mi obbliga a cercare; sarà che sento che questo – questo adesso e questo ora – è il mio presentepassatofuturo, tutto insieme, che mi costringe ad agire e mi fa sentire il peso di ogni scelta (quella di ieri che incide sul mio oggi e che intacca il mio domani); sarà questo mio tempo, che mi fa riflettere sul Tempo. E mentre io penso, i giorni diventano passato e io mi perdo, perché continuo a stare lì, in quei pensieri di ieri. E mi sembra che tutto sbiadisca in un momento: nello spazio di una riflessione si consumano le mie ore, le possibilità a me concesse.
La mia mente è un paesaggio di collina: c’è foschia, è mattino presto, un vecchio giorno se n’è andato e uno nuovo sta arrivando.
Cammino distratta e preoccupata, ho la sensazione di scappare da qualcosa.
È in questo scenario offuscato e disabitato che trovo quello che stavo cercando: si chiama Alice Munro e il suo nome mi è familiare.
Ogni giorno qualcuno mi dà un consiglio: “Leggi questo, ascolta quest’altro, vedi questo film”. Mi fa piacere, sì, mi piace condividere e ricevere stimoli, ma la maggior parte delle volte non sono pronta a seguire i suggerimenti. O almeno, non subito. Io ho i miei tempi – talvolta sono lunghissimi, lo ammetto –, ma so quando è il tempo di qualcosa. Giorni, mesi, anni dopo, ripesco quei consigli e, magicamente, ogni volta mi stupisco nell'esclamare: “Giusto in tempo!”.
Conoscevo Alice Munro, me ne avevano parlato, ma io non ero un’amante di racconti (non era ancora arrivato il loro momento); sapevo che la Munro aveva scritto un solo romanzo, ma non volevo conoscerla così. Ho aspettato, e il tempo – in fondo, mio amico – mi ha ricompensato. Testimone del nostro primo incontro è stato In fuga, una raccolta anomala di otto racconti, tre dei quali legati tra loro dalla storia della stessa donna.
Le protagoniste sono sempre loro, personaggi femminili, fragili ma ostinati, che si muovono nel tempo, fuggono e a volte tornano, o si perdono, ma scelgono di vivere.
Mi colpisce la dilatazione del tempo che avverto in ogni racconto; la brevità delle pagine è un inganno e non mi impedisce di percepirne la durata, di prendermi quello spazio di cui ho bisogno – e che solo nel romanzo pensavo si potesse trovare – per affezionarmi, appassionarmi e immergermi nella narrazione.
Le sue storie mi trasportano in uno stato di tranquilla riflessione, in cui penso alla mia vita, alle decisioni che ho preso, alle cose che ho fatto e che non ho fatto, al tipo di persona che sono, alla prospettiva della morte. Munro rientra in quel piccolo gruppo di scrittori, alcuni viventi, la maggior parte defunti, a cui penso quando affermo che la narrativa è la mia religione. Perché, quando sono immerso in un suo racconto, riesco ad accordare a un personaggio completamente inventato il solenne rispetto e il tacito sostegno che accordo a me stesso nei miei momenti migliori.
(J. Franzen, Più lontano ancora).
Come può starci una vita intera, lì, chiusa in così poche pagine? Alice Munro sa raccontare e io, da tempo non mi sentivo tanto coinvolta in una storia … voglio sapere come andrà a finire – non importa se sono stanca, se domani la sveglia suonerà presto, se gli occhi mi si chiudono e io stavolta il tempo non ce l'ho -, ma voglio andare avanti. Non posso fare a meno di immedesimarmi in queste donne, di combattere con loro, per loro, perché ho la sensazione che, se ce la fanno loro, ci potrei riuscire anch'io.
Il titolo che dà il nome alla raccolta non è casuale: il tema della fuga è sempre presente, in alcuni casi è breve (avviene in una notte, si concretizza nella possibilità di una partenza, anzi, nella sua illusione), in altri è più duratura e finisce col determinare il corso di una vita, come accade nei tre racconti legati tra loro da una stessa protagonista, Juliet. Anche il fato è sempre in agguato, pronto a tradire, a ingannare chi per un attimo ci aveva sperato.
Se solo fosse arrivata un po’ più tardi. Un po’ prima. Se fosse rimasta fino alla fine dello spettacolo, o se l’avesse saltato del tutto. Se non si fosse preoccupata dei capelli. […] Ormai era difficile dirlo, come sarebbero andate le cose. Era sfumato tutto in un solo giorno, in un paio di minuti, e non in un susseguirsi di crisi e tentativi, lotte, speranze e delusioni, nel modo lento e faticoso in cui di solito sfumano come quelle. Ma poi, se è vero che alla fine tutto si guasta, non è forse più facile sopportare che accada in fretta?
(Dal racconto Scherzi del destino, In fuga, A. Munro).
E insieme alla fuga, al destino, c'è il rimpianto, o quello che si è deciso di rimpiangere, a causa di scelte passate, forse sbagliate. Quello che non abbiamo vissuto possiamo solo immaginarlo, e non sapremo mai se quella sensazione di ‘migliore’ sia solo l’effetto dell’irreale.
I suoi figli sperano solo che non abbia preso la decisione di Vivere nel Passato. Ma secondo lei le cose non stanno così; quello che ci terrebbe a fare, ammesso che gliene rimanga il tempo, non è tanto vivere nel passato, bensì aprire quel pacco e guardarci dentro come si deve, per una volta.
(Dal racconto Poteri, In fuga, A. Munro).
Inevitabilmente, mi ritrovo a interrogarmi sulle mie, di scelte. Autoreferenziale, come sempre. A che serve la letteratura se non posso riportarla a me, al mio vissuto, se non posso trarne uno spunto per essere migliore? Io dai libri imparo a crescere, a migliorarmi, a correggermi. Vorrei poter rispondere che tutto è andato come previsto, che la sensazione di malinconia, nostalgia e rimpianto – che avverto tra queste pagine – non mi appartiene, e invece la sento così vicina che mi vedo sempre lì, in quel paesaggio, mentre cammino ... e passa il tempo, e passo io. Ho ancora una vita davanti, penso, ma adesso ho un terrore irrazionale che uno di quei lassi di tempo (senza parole, come quelli che Alice Munro decide di non scrivere) mi avvolga e, senza darmi il tempo di “aggiustare”, mi porti lì, in quel nuovo presente che, ingenuamente, credevo di vedere lontano.
Continua a sperare di ricevere una parola da Penelope, ma senza perderci il sonno. Spera, come la gente di buon senso può sperare in una felicità immeritata, un perdono spontaneo, roba così.
(Dal racconto Silenzio, In fuga, A. Munro).
Le avventure di Pinocchio: storia di un bambino vero.
di Teresa Merone
Diventare adulti implica una sofferenza, un lutto. In questa ipotesi la vicenda di Pinocchio ci racconta del viaggio, a volte doloroso ma necessario, che tutti noi abbiamo fatto per diventare adulti.
<<C'era una volta...
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno.>> (Collodi, Pinocchio)
I viaggi e gli eroi, topic comuni a quasi tutte le storie e la letteratura che conosciamo.
Eroi che viaggiano per poter cambiare, per poter migliorare, per dare senso alla propria vita. Dal viaggio di Ulisse, la sua Odissea, ai viaggi impregnati di significati più forti, quelli che appartengono alla crescita e al raggiungimento di una qualche maturità.
Ma l’eroe che ha segnato le tappe della crescita dei bimbi con le sue bricconerie, un viaggiatore ignaro della sua sorte e del riscontro positivo soprattutto in campo psicopedagogico, rimane intoccabile: Il Pinocchio di Collodi.
Il “Giornale dei bambini” diretto da Martini, tra il 1881 e il 1882 ospitò il racconto di un “toscanaccio”, di un monello che proprio non ne voleva sapere di adattarsi alla “norma”, alla scuola e alla dolce vita familiare. E Collodi, non troppo convinto dell’unione italiana, non poté che donare al suo “ciocco” un atteggiamento di irrompente vitalità, sottolineato dall’uso del toscano vernacolare, del dialetto; una lingua così lontana da quell’Italiano insegnato nelle scuole, ma che ancora destava qualche perplessità. Scelta non casuale questa… come può una lingua, accettata dall’Italia nuova di zecca, poter rappresentare l’unicità di Pinocchio, il suo essere diverso? Disegnare le fattezze di un bambino che vuole rompere gli schemi familiari e della comunità perbene? No, i più piccoli non possono semplicemente uniformarsi o essere spontaneamente grati ai propri genitori per aver venduto la propria giacca per un abbecedario.
I bambini veri non possono, figuriamoci un burattino!
Pinocchio è un eroe atipico, non combatte contro i draghi, non contro i maghi, né per salvare una principessa. Il suo premio è più “autentico”. Pinocchio vuole essere vero. E crescere, crescere a modo suo, al di fuori di quelle norme già stabilite: a lui, la scuola e la riconoscenza stanno stretti. Questo però non vuol dire che non ci abbia provato… o che non ci abbia almeno pensato.
Collodi ci rende partecipi delle sue marachelle, ci fa identificare con quel monellaccio che non riusciamo a condannare nemmeno nei momenti peggiori, un po’ come con il Tom Jones di Fielding. In fondo, entrambi sono vittime della loro ingenuità, di malintesi: si possono giudicare dei personaggi che sono causa del loro stesso male e che ne pagano inevitabilmente le conseguenze? No, gli ingenui non possono essere biasimati e loro, indiscutibilmente, lo sono. Pinocchio nasce dal desiderio di paternità di un falegname, che ancor prima di veder compiuto il suo lavoro, ama il “ciocco” e fa progetti per lui. Un “pezzo di legno”, già in età per la scuola, che plasma come un pigmalione, e che non si accontenta di creare, ma a cui insistentemente prova ad inculcare quelle che sono le regole che vorrebbe che il bambino interiorizzasse. Regole come l’”essere il suo bastone per la vecchiaia”, il dover “studiare”, l’”essere perbene”. Geppetto è un modello autentico di genitore, prova a contagiare con la sua etica un bambino che non ha ancora trovato la sua strada, dona la “norma” a chi non ha ancora chiaro il suo ruolo nel Mondo.
E non è nemmeno l’unico a farlo!
Un altro personaggio ostinato nel dare giudizi e “norme” è il Grillo parlante. Una fonte giudicante e dispensatrice di moniti. E Pinocchio, per tutta risposta, non bada né all’uno, né all’altro. Bada invece a “incoraggiamenti” più invitanti, a coloro che riescono a persuaderlo con fervore dei loro punti di vista… a coloro che lo portano a confrontarsi con una realtà così diversa da quella del “focolare”. Mangiafuoco, Lucifero, il Gatto e la Volpe diventano esplicativi del lato oscuro presente in Pinocchio, che segue le tentazioni come il profumo di una torta appena sfornata. Il cuore di legno viene sballottato tra cose incredibilmente belle che nascondono tutto il male del Mondo e che, periodicamente, lo portano al pentimento e al senso di vergogna per ciò che non riesce ad essere. Il vortice della Realtà lo trova sempre ingenuamente sprovveduto, privo delle “virtù cardinali”, fino a farlo cadere sempre più giù nella desolazione e in situazioni surreali. Ma il burattino non ha ancora imparato niente dalle brutte punizioni che gli sono state riservate, non ha mantenuto le promesse fatte, più agli altri che a sé stesso, e così si ritrova a cambiar forma, l’unica che potesse sottolineare la sua sconsolante situazione di bambino ignorante e sconsiderato. Pinocchio diventa un asino, come lo divenne Lucio nelle Metamorfosi. La curiosità è la qualità, denotata in modo negativo, che conduce entrambi i personaggi, sballottati, ad un comune destino: la trasformazione, che l’autore latino descrive così nel terzo libro delle Metamorfosi:
<<[…] i peli cominciarono a diventare ispidi come setole, la pelle,
delicata com'era, a farsi dura come il cuoio, alle estremità degli arti le
dita si confusero, riunendosi in una sola unghia e in fondo alla colonna
vertebrale spuntò una gran coda.
Poi eccomi con una faccia enorme, una bocca allungata, le narici
spalancate, le labbra penzoloni, mentre smisuratamente pelose mi erano
cresciute le orecchie. Nulla in quell'orribile metamorfosi di cui potessi
per qualche verso compiacermi[…].>>.
Una volta toccato il fondo, però, spesso non si può far altro che raschiarlo. Il ragliante “ciocco” necessita di un ultimo monito, qualcosa che possa farlo immergere nelle acque della redenzione per diventare materia nuova. E come farlo senza richiamare un riferimento biblico? Impossibile. Dal mondo latino, quindi, Collodi si tuffa nel mito biblico, precisamente in quello che vede Giona inghiottito da un pesce:
(Bibbia, Libri Profetici)
Giona come Pinocchio, aveva rinnegato il Padre ed era così stato inghiottito dall’animale, che lo rigettò solo al momento del suo pentimento sincero. La redenzione e l’affetto verso il Padre ha permesso ad entrambi di uscire illesi e di perseguire la via della “rettitudine”.
Rettitudine che suggerisce un’altra analogia, sempre biblica, con la figura del figliol prodigo, che dopo esser sfuggito dalla potestà paterna ritorna sinceramente pentito delle sue malefatte e per prendersi cura del suo vecchio che, nonostante tutto, continua ad amarlo incondizionatamente:
<<E il figlio gli disse: "Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio". Ma il padre disse ai suoi servi: "Presto, portate qui la veste più bella e rivestitelo, mettetegli un anello al dito e dei calzari ai piedi; portate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato". E si misero a fare gran festa.>>
( Luca 15,11-32)
Così farà anche Pinocchio, che andrà a scuola e lavorerà per un solo bicchiere di latte che faceva tanto bene alla salute del “babbo”.
Il percorso di formazione e di crescita, però, non sarebbe mai stato completato dal burattino se non con l’aiuto dell’unico elemento femminile e matriarcale della storia, la Fata dai capelli turchini. A differenza della figura di Geppetto, la Madre non elargisce moniti, avvertimenti, ma si limita a donare la giusta libertà al piccolo Pinocchio e a riportarlo sulla strada giusta con espedienti complicati, come quello di fingersi morta a causa dell’infelicità procuratagli dal “fratellino”. La Madrina lo cura quando è privo di forze, crede in lui quando promette di essere buono e lo guida quando smarrisce la strada.
La Fata è colei che porta alla trasformazione, alla maturazione. È lei ad elargire il premio finale all’ormai bambino vero, colui che ha interiorizzato l’importanza della famiglia, del vivere secondo la regola e la bontà. Ancora una volta la figura della Madre sembra richiamare le vicende narrate da Apuleio, e in particolar modo la figura della dea Osiride che permette, a Lucio, di ritornare ad essere un uomo, uomo stavolta illuminato e devoto alla sua dea:
<.>>
(Metamorfosi, Libro XI)
La fiaba si conclude con la ritrovata felicità per Pinocchio e il suo vecchio padre.
Quella felicità agognata per così tanto tempo da entrambi.
Collodi, a parer mio, ci invita ad una vera e propria riflessione: considerare le fiabe come fini a sé stesse e soprattutto solo come letture leggere per bambini, non può che essere riduttivo. Parlare con i bambini non è per tutti, soprattutto quando si tratta di supportarli e seguirli nei loro cambiamenti.
Non è poi così semplice diventare bambini veri.
Aspettando novembre prossimo
di Anna Bertini
Lei non risponde mai quando i ragazzi la prendono in giro vedendola sulla strada di fronte all'oratorio dei Cappuccini. Parlottano tra di loro facendo commenti su di lei, e lo fanno per farsi sentire.
"Il nonno la porta al mare la domenica, e le compra anche il Corrierino!”
“Il vestito pare nuovo, chi gliel’ha cucito?”
“Non certo la matrigna, non la può sopportare”
Tiene stretto il “Corrierino dei Piccoli”, e cammina davanti a loro esile ed alta, con la testa fiera.
"Vuoi una menta?" le chiede quello che si chiama Enrico: ha un debole per lei ma non lo dice, per non venir deriso dagli amici. In risposta lei scuote la testa senza voltarsi. Rimane impassibile, non c'è segno di sprezzo o rabbia nei tratti nobili del suo volto.
Il collo lungo ed esile potrebbe essere cinto con una sola mano, e la testa è una piccola sfera, perfetta, quasi geometrica. Dato che è bionda sembra una straniera.
"Allora non è così cattivo il nonno...." dicono.
Per fortuna non ha sentito, è rientrata sul vialetto di casa giusto in tempo perché una folata di vento si portasse via la possibile ferita.
Rimane ad attenderlo appoggiata al muretto di cinta, vicino al cancello. Non sa se aprire già il Corrierino prima che lui arrivi, potrebbe sfogliarlo un po’, ma no, preferisce rimandare a quando sarà sulla spiaggia. Allora si siederanno sul pattino, lui leggerà il quotidiano e lei centellinerà il suo giornaletto; curiosa com'è e assetata di letture cercherà di far sì che le resti da leggere tutta la settimana.
Se avranno fortuna la giornata non sarà ventosa, la sabbia non volerà tra le pagine stropicciando i giornali, e negli occhi, arrossandoli. Se avrà fortuna lui sarà di buon umore, compreranno il gelato, faranno qualche passo lungo la battigia fino all'ultimo stabilimento balneare prima della foce.
I compagni si sono allontanati, li vede entrare nell'Oratorio dall’altra parte della piazzetta. Prima della morte della mamma ci andava pure lei.
Finalmente suo padre esce di casa; ha messo il vestito scuro perché rispetto agli altri è in miglior condizione, ma certo a lei dispiace che indossi proprio quello. Porge lui il quotidiano e abbassa gli occhi. Ci sono formiche tra i sassi del vialetto, ai suoi piedi.
Lui fa cenno con la testa e così si avviano alla fermata del trenino.
Suo padre saluta due uomini all'altezza del chiosco dei fiori; lei abbassa gli occhi.
Salgono a bordo, il trenino è già arrivato, è abbastanza affollato, c'è il sole, un sole ancora flebile di fine inverno ma capace di riscaldare un poco l'aria.
Sa che sul trenino suo padre si addormenterà, lo fa ogni volta purtroppo; succede perché non hanno argomenti di cui parlare spensieratamente, c’è il fantasma della mamma in mezzo a loro. Lei sa già che qualcuno seduto vicino le dirà poi come al solito: "Tuo nonno si è addormentato ragazzina. I nonni! Cosa non farebbero per i nipoti, si levano di buon mattino per portarvi al mare, e magari hanno dormito solo un paio d’ore". Lei si sforzerà di un sorrisetto e abbasserà gli occhi.
Suo padre si è svegliato all'altezza della pineta, peccato non abbia potuto vedere le vele alla foce dell'Arno, erano molte e andavano veloci.
Vorrebbe chiedergli di scendere alla prossima fermata, di rimanere in pineta, in via eccezionale. Ha visto le vele andare veloci, c'è vento sul mare, il suo giornalino si stropiccerà, la disturba sentire le pagine ruvide tra le mani. La pineta è protetta e poi ieri ha piovuto, dopo la pioggia è fragrante, è piacevole leggere anche se c'è ombra.
Lui si è appena svegliato e ha uno sguardo contrito, allora lei non dice niente e la fermata della pineta se la lasciano alle spalle, cominciano gli stabilimenti balneari. Tra poco è la loro volta, si preparano, scendono.
Al suo fianco deve camminare lenta; il viale sta dritto davanti a loro tratteggiato di tamerici, al termine si vedono già le cabine. Queste sono belle, hanno cominciato a rinfrescarne la tinteggiatura a strisce verticali bianco e menta. Grazie alle cabine dimentica la pineta ed è contenta di recarsi alla spiaggia. Però le tamerici si agitano al vento, come piccoli piumini o come lievi struzzi: in un film all'oratorio ha visto gli struzzi, si muovono gli alberi come il piumaggio di quegli uccelli. Il vento viene da terra e porta tutto verso il mare, e comunque è molto educato, solleva piccole ciocche di capelli verso la bocca, appena una polverina sulle labbra, e la sabbia rimane a vorticare in basso nell'aria che confina con la sua superficie, a pochi centimetri da terra.
Suo padre continua a tacere, poi saluta l'uomo accovacciato tra gli attrezzi della rimessa, sfiora passando un barcone di legno biondo, in attesa di essere incatramato.
Il loro pattino sta sempre allo stesso posto, o forse appena più vicino alla battigia adesso che l'inverno sta per finire.
Siedono uno accanto all'altra, lui col cappello, lei con le ciocche bionde che continuamente raggiungono le labbra. Dietro le loro spalle ogni tanto sbatte una tenda di tela tesa tra due file di cabine, e in lontananza si vede qualcuno che cammina verso la foce, lento, per andare forse ad osservare i pescatori di anguille con le loro reti a bilancia.
La panca è asciutta e salata, ruvida al tatto, e gli scalmi arrugginiti non portano remi. I piedi affusolati del pattino fatti apposta per scivolare sull'acqua posano sulla sabbia risparmiando in sé la loro agile forma, affondando appena, tra i granelli.
Dopo essersi guardata attentamente intorno, dopo aver chiuso negli occhi quel paesaggio mansueto e le forme del vecchio pattino che li accoglie, adesso si volta verso di lui attendendo poche parole ma vede che è distratto, e allora inizia a leggere.
Appena la prima pagina ha crocchiato al vento per aprirsi sente il volto di lui diretto sul suo profilo, e capisce: l'attesa che separa lo sguardo dalle parole è in rapporto diretto con qualcosa di doloroso, difficile da esprimere. Dentro di sé sente una fuga, ma la frena, si prepara.
"A Novembre prossimo ti nascerà un fratello, è per questo che la matrigna ingrassa. Io non ho più da essere felice, tu sì lo dovrai amare, lo capisci, non c'entra lui con tutto ciò che è successo".
Lei non risponde, è una ragazzina che difficilmente risponde. E ora stringe forte i denti, le fanno quasi male.
“Mi sono pentito, per tua madre. Era giovane, non sapeva niente della vita, ho sbagliato io a chiederla in moglie a suo padre. Erano poveri, sua madre da poco era morta. Un uomo come me, uno storpio e lei, una bambina. Speravo nel tempo, la gratitudine, ma non si ama per gratitudine. E’ stata onesta, non ha mai detto di amarmi”.
Lei lo guarda un istante, poi ha paura. Getta lo sguardo tra le pagine, uno sguardo scuro, tagliente.
“Un fratello sì, lo si può amare. Certo che non son discorsi da fare a te, sei una ragazzina, ma lo sei poco, e anche questo è colpa mia. A Novembre ti nascerà un fratello, ora si dice fratello ma poi magari è una bambina, come te. Quando parlerà, io sarò già vecchio. Lo son già ora, un vecchio cattivo.” Fa una pausa, toglie il cappello, si asciuga la fronte con il fazzoletto. Lo rimette.
“Sei vuoi fare qualcosa per quest'uomo che è tuo padre, non dico di difendermi, ma non glielo insegnare che sono cattivo, lo capirà quando sono morto. Anche se è figlio della matrigna è tuo fratello. Si cresce male con un padre che è stato in galera. Tu lo sai. A te poi, ho tolto la madre. La legge mi ha assolto ma non la mia anima, lo devi sapere. Te lo devo”
Sembra che abbia finito, la pausa ora è lunga, ma lo sguardo di lei resta infilato nel giornalino. Poi si gira un poco a guardarlo, con gli occhi grandi grandi e tristi. Lui si toglie ancora il cappello e lo appoggia sul grembo.
"Lo so che ti dicono che sono tuo nonno, e si vergognano della tua compagnia”.
Chiude il Corrierino e si alza di scatto. La fuga dallo stomaco le è scesa nelle gambe, ha bisogno di piegare le ginocchia, di progredire coi passi, di sentirsi lontano, da lui, da tutto.
E così si trova ad affondare le scarpe nella sabbia cedevole lungo il fronte del mare, impetuosa e troppo veloce, con un'espressione inaccessibile sul volto.
Lui si è alzato e la segue a fatica accelerando un poco, trascinando quella gamba rigida e esile lungo il confine dell'acqua, lo sguardo disfatto posato come una carezza impossibile sulla figura decisa e gracile di lei, che procede col suo giornale stretto tra il braccio e il busto, a passi troppo ampi persino per le sue lunghe gambe piena di potenza.
Lei ferita, fuggiasca. Lui che prova ancora a sveltirsi, inciampa.
Vorrebbe andare ancora avanti, ancora avanti, ma si è accorta che lui non la segue e allora si volta un momento continuando a procedere, ma poi si ferma. Si gira.
Non si era accorta di come sono grandi le sue scarpe, di come sono goffe. Non lo aveva mai visto così. Crollato su se stesso, i pantaloni sporchi di sabbia e mare, il cappello vicino alla mano e la mano affondata come un ancoraggio sotto la prima sabbia. Non lo aveva visto mai indifeso; non la guarda, non parla, non vede niente, non c'è niente. Lui non sa più dov’è.
Torna indietro verso di lui, gli si avvicina, si china. Comincia a scuotergli i vestiti e lo aiuta a sollevarsi, lentamente. La gamba esile è scivolata di lato come fosse di un burattino, lei la ricompone vicino a lui. Non l'aveva mai toccata, quella sua gamba che lo ha condannato a essere diverso.
Quando si accorge che avverte una piccola energia lo invita a muoversi, a riprendere le forze, a ritrovare la sensazione di essere lì con lei, al loro mare. Non c'è nessuno intorno, nessuno li ha visti, erano soli, lui e lei, le loro ingombranti sfortune: la bambina silenziosa e bionda come una straniera, e suo padre, il vecchio.
Procedono passo dopo passo, scanditi e silenziati dalla sabbia come tocchi di una campana sorda, incedono verso il pattino, non si fermano, lo superano.
Sul tavolato tra le cabine si sente un rumore di passi diversi per peso e ritmo rimbombare nel vuoto. E poi il viale tra le tamerici, piccole folate ventose: gli struzzi-alberi danzano davanti agli occhi un piccolo teatro che li accompagna alla fermata del trenino.
Sopra al treno, in silenzio ma senza dormire, lui ben sveglio di fronte a lei che gli indica il sole alto sulla foce e le vele controvento che faticano a rientrare nel bacino del fiume.
Dal chiosco dei fiori che sta per serrare si incamminano verso casa attraversando le cinque file di case operaie dove viveva la famiglia di sua madre, e dal piccolo ponte sul fosso attraverso i campi raggiungono le villette. A brevi passi sulla ghiaia del vialino, oltre il cancello, lei lo tiene per una manica della giacca fino sulla porta e poi dice: "Vado all'oratorio, a guardare. Sai, non va bene il vestito scuro per il mare, ci vuole una camicia di vigogna coi pantaloni da giardino.”. Lui le fa cenno di sì con la testa ed entra in casa. Lei si avvia.
Arrivata all'oratorio si piazza davanti al portone e guarda i compagni che giocano con la palla, restando fuori.
Quello che si chiama Enrico la vede e la raggiunge.
"Che ci fai qui fuori?" domanda.
"Aspetto Novembre prossimo" le viene da rispondere.
"Che vuol dire?" dice lui.
Lei ha negli occhi ancora i colori del mare, lui si volta per essere sicuro che gli amici non lo guardino.
Si avvicina all'orecchio di lei e mormora: "Posso portarti la cartella domani?"
Lei fa di no con la testa e aggiunge: "Pero' accetto la tua menta!"
"Non ne ho più!”, risponde lui deluso.
"Non fa niente… sai, mi nasce un fratellino, ma forse, è una bimba, anzi te lo dico già ora, è una bimba, come me”.
Correndo, torna verso casa.
La valigia fuori moda
di Alberto Piccini
Storia dell'amore impossibile tra Aida, ballerinetta alla deriva, e Lorenzo, giovinetto di buona famiglia, tra Parma e Riccione. Opera di Zurlini, uno dei rari poeti d'amore del cinema italiano, in cui si fa evidente la verità sociologica della narrazione da cui nasce l'amarezza di fondo, quella delle differenze di classe.
Di certe opere ci è caro l’incipit e questa di Zurlini introduce oltre se stessa gli anni Sessanta cinematografici, quasi in paradigma, come avrebbe fatto affermare ai suoi personaggi, nel pieno del riflusso anni Ottanta, il Nanni Moretti di “Bianca”. “La Ragazza con la valigia” è appunto del 1961, in tutto gli esordi del decennio. Ci si trova nella campagna emiliana assolata, tra il suono di “Fever” e il chiasso delle cicale, con la Lancia Aurelia versione spider (il futuro terzo protagonista del “Sorpasso”). La bellezza che emerge da una siepe è quella di Claudia Cardinale, raramente così sgargiante e popolana mentre affiora il malumore del suo cupo accompagnatore. E la tappa seguente è un ulteriore angolo fiammante di boom, un garage ampio e affollato di vetture, dove la ragazza, con un inganno prosaico e facile, viene “scaricata”. I titoli di testa e il clavicembalo di Mario Nascimbene hanno il primo piano della vecchia valigia, rigonfia ed esausta, che segue da questo istante il destino della protagonista Aida. Bastano poche inquadrature al regista per svelare l’arcano della seduzione interrotta: il figlio di famiglia che ripara nella villa parmigiana, un ambiente che spesso ritroveremo in Bertolucci, dove nascondere se stesso e la troppo riconoscibile spider. Malinconica famiglia, dal recente lutto per la madre, con un padre assente anche fisicamente e una zia rigida in giro per cascine a sfrattare mezzadri, un fratello minore che va male a scuola si indovina ammiratore del più grande. Ed è proprio il giovane Lorenzo – interpretato da Jacques Perrin che per Zurlini sarà negli anni una sorta di alter ego - ad affrontare la ragazza che in una goffa recita si presenta alla villa, simulando senza speranza un rapporto di lavoro. Il seduttore cupo e scostante – Corrado Pani con il suo grande avvenire non ancora dietro le spalle e lontano dal divenire principe consorte di Mina Mazzini da Cremona – ha dato falso nome e non si mostra. La vera avventura, il romanzo doloroso di iniziazione comincia però a questo punto. Aida che appare come una dea nel paesaggio notturno, malgrado le lacrime e l’accento ferrarese saporoso del doppiaggio di Adriana Asti, è l’incanto, certo il primo di un’adolescenza solitaria. Visitarla nella camera ammobiliata che si è presa in città un dovere cui non si sottrae e i modi da sorella maggiore non lo scoraggiano. La storia che tra la piccola stanza e il tragitto per la città gli racconta è quasi patetica: ballerina di varietà, ha lasciato il compagno d’arte e di vita (cui poco teneva) per rincorrere il provinciale playboy che prometteva ingaggi in grandi compagnie e vita brillante. Il sogno, certo non il primo, è svanito e quanto chiede al nuovo amico è l’uso di un telefono per tentare di riallacciare i contatti con l’ex compagno. La disarmante telefonata ha il solo risultato di qualche insulto e di un ricevitore sbattuto: ma ci si può consolare prendendo il bagno nella lussuosa stanza della casa di Lorenzo, che si delizia nel rimirarla scendere le scale in accappatoio e turbante con la romanza di Radames in sottofondo, quasi uno spot del regista che rende omaggio alla bellezza e alla terra del melodramma. E l’avventura prosegue quando decide di giocare le sue carte più forti; appoggiandosi al grande credito della famiglia in città, la fa alloggiare in un grande albergo e le fa recapitare come ad una diva fiori e vestiti nuovi. La serata dovrebbe rappresentare l’iniziazione di Lorenzo – sfuggito alla sorveglianza della zia e dei professori privati – che vive la sua serata in hotel con Aida, la quale accetta i grevi complimenti di tre attempati vitelloni in trasferta che l’hanno subito adocchiata e arrembata. Struggente delusione del ragazzo cui non resta che tracannare un whisky dopo l’altro, ascoltando il Deguello in sottofondo. Nella sua amara serata vede disfarsi le fragili sicurezze e se si può appoggiare al seno di Aida, è un cocente ceffone che riceve dalla zia, al rientro a casa, semi ubriaco. Sebbene rientrato nel mondo dell’adolescenza, non ancora si da vinto nel sogno di conquistare la donna. Gioca l’ultima carta dichiarando di avere individuato il fantomatico possessore della spider e ciò basta perché Aida rifiuti di tornare con il suo ex compagno che era giunto a Parma per ritrovarla. E’ il preludio all’ultima e forse definitiva sconfitta di lei, che in una volta sola scopre il baratro in cui si è calata e ad aprirle gli occhi provvederà il professore di Lorenzo, una figura di prete dinamico che da appuntamenti non in canonica ma la museo “dove non va mai nessuno e si può parlare in pace”, tratteggiata dal grande Romolo Valli. L’impossibilità di ritrovare l’uomo che l’ha condotta a Parma, la sua vera identità, l’inadeguatezza di Lorenzo, sono immagini chiare e razionali che il buon insegnante le mostra, in tutta umanità. Lei, si scopre, ha anche un figlio, “posteggiato” in una colonia estiva, di cui si cura quando può. L’ultimo consiglio è di tornare a ciò che conosce e che ancora possiede. Il ritorno di Aida verso Rimini è quello di un esercito in rotta e l’accoglienza che la attende pessima. Nello squallore del locale vuoto dove l’orchestrina sta provando, riceve gli insulti dell’ex compagno (Gian Maria Volonté qui ancora sconosciuto) e le attenzioni manifestamente losche di un altro musicista del gruppo che quasi a forza la ubriaca di Pernod e la trascina sulla spiaggia, per una tutto sommato improbabile seduzione. E sulla spiaggia appare, come sorto dal nulla, Lorenzo che, nella sequenza più romanzesca della narrazione affronta a pugni e mette in difficoltà il più prestante rivale, sopraffatto poi da due animosi passanti, che ne annullano e cancellano dalla scena la figura. Resta sulla sabbia, più implicito che dichiarato, l’abbraccio non tanto dei due corpi di Lorenzo ed Aida, ma delle due loro solitudini. Nel vuoto della stazione di Rimini, dove in una notte deserta e densa risuonano i campanelli della circolazione ferroviaria, è il loro addio e ad una busta il ragazzo ha appena affidato quelle parole che dice di non avere il coraggio di pronunciare. Quando il suo treno sarà distaccato dai marciapiedi, ad Aida comparirà dal chiuso della busta un mazzo di banconote, forse l’unico discorso che in una tale situazione sia possibile. La piazza e la notte inghiottono gli ultimi brani della storia.
Per datazione e anche per ambientazione geografiche, il film potrebbe suggerire analogie con altre complesse e dolenti figure femminili, quasi coeve, che apparterranno al cinema di Antonio Pietrangeli, come la Dora de “La Parmigiana” e la più importante e drammatica Adriana di “Io la conoscevo bene”, che in qualche modo si erano strappate indipendenza e autonomia nell’Italia arricchita e risvegliata dal miracolo, sia pure destinate a fare i conti con la propria fragilità. La affascinante finta scaltra e vera ingenua Aida, sconfitta dall’inizio alla fine, è reduce di un’altra epoca. La valigia consunta, gli abiti sfioriti e fuori moda, così come l’eloquio dialettale e soprattutto l’appartenenza all’universo rappezzato e patetico dell’avanspettacolo, sono stimmate già nostalgiche. Un sapore felliniano incombe su questa umanissima caratterizzazione di Claudia Cardinale, è non certo alla Mater Matuta impersonata dalla Ekberg discesa in Roma, che si pensa, ma piuttosto a una Cabiria più avvenente, alle comparse dei night polverosi della “Dolce vita” e ai fantasmi di sciantose dimenticate rinchiusi nei ricordi e nei sogni peccaminosi di “8 1/2”. Nostalgia emana da questa figura, nostalgia sua di una giovinezza cha va sfiorendo, nostalgia del regista per un mondo che è al tramonto e che tutti vogliono velocemente dimenticare, come le amare baldorie dello stesso Fellini dai “Vitelloni” in poi. Aida, che pare a proprio agio solo tra gli improvvisati e volgarotti ammiratori, è la vera carta fuori dal mazzo, in una società che è cambiata e rivoluzionata, con la famiglia che tra lutti, benessere e crescita dei figli si rilassa e si allarga, con il denaro che fa contemporaneamente da motore e da lubrificante, dove anche un prete insegnante sa superare in modernità e disinvoltura la ballerina spaesata. E se da una parte è romanzo di un’anima femminile vessata e defraudata, dall’altra è storia di forse provvisoria ma indimenticabile iniziazione di un ragazzo, solo, coraggioso, sincero e in aperta guerra col mondo, come i personaggi dei libri d’avventura dovrebbero essere. Se si soffre per Aida, si parteggia per Lorenzo. Che in un’altra Italia ricorderà, come tanti altri ex giovani, il primo tenero e impossibile amore per una ragazza che alloggia in camera ammobiliata, con un ferro da stiro da viaggio al seguito.
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