Editoriale
Quello sguardo altrove
di Francesca Pacini
Spocchie editoriali
di Francesca Pacini
Quando ero piccola, con il naso infilato nei libri, pensavo che la letteratura fosse il migliore dei mondi possibili. Ci sono cresciuta, fra i libri. I libri di mio nonno, della sua libreria che chiamava “Sapere”. Una libreria d’altri tempi, in cui quando entravi il commesso non ti chiedeva di recitargli lo spelling di Borges, e non ti guardava con la faccia da tonto se per caso chiedevi qualche consiglio. Lui, mio nonno, sempre curvo, sempre a leggere, sempre a studiare e consigliare, era il mio piccolo faro che accendeva un mondo che imparai presto, prestissimo, a conoscere.
Entravo nelle storie che leggevo, mi accucciavo in mezzo alle righe, facendomi spazio fra le vocali e le consonanti, appoggiata col fiato sospeso a quelle parole di carta che mi incantavano. La magia delle parole non si impara. La magia delle parole si ascolta. Vibra dentro di noi, percorre la pelle come un sussurro leggero, ci accarezza i capelli e gli occhi stanchi. Man mano sono diventata amica di tutti gli scrittori che ho letto, li ho frequentati con una confidenza costante, come una ripetuta, quotidiana, merenda con le amiche. Da grande, pensavo, voglio vivere in questi mondi profumati di storie.
A volte accade di realizzare quello che sogniamo da piccoli. Succede così, per ventura, per un gioco bizzarro della vita che ti getta, un giorno, in un posto, e in quel posto ritrovi un sapore che ti è familiare.
Ci ho lavorato, con quelle parole e quei libri che inseguivo da piccola. E tuttavia, tuttavia ero ancora infarcita di un romanticismo lievemente imbecille, col senno di poi. Un idealismo ingenuo, in cui editori e scrittori brillavano alla magnifica luce della Letteratura.
Non sempre, però, leggere tanti libri ci fa essere persone più meritevoli di altre. La cultura non significa, di per sé, allargamento della coscienza, perché l’Ego, in queste geografie, cresce a dismisura. E alla fine trionfa.
E così mi sono resa conto che editori e scrittori non galoppavano sul bianco cavallo dell’Intelletto connesso con il Cuore, ma vomitavano invece ansie, pretese, ambizioni. E spocchia. Tanta spocchia.
C’erano (e ci sono ancora, qui a Roma) editori che magnificavano le librerie con le loro belle collane sui diritti civili, e nel frattempo tenevano in nero il loro ufficio stampa e facevano lavorare gratis un esercito di ragazzini, c’erano scrittori i cui confini terminavano nell fragile perimetro neuronale che li definiva, c’erano persone che usavano il libro e le storie degli altri per non guardare la loro esistenza. E, soprattutto, c’era quell’amaro mare di spocchia.
E ancora oggi mi domando per quale strano motivo, nella testa di molti, chi fa libri debba essere migliore di altri.
Non lo è. Ciò che ci rende migliori non è ciò che abbiamo letto ma ciò di quelle letture è rimasto.
Soprattutto, non è con la presunzione intellettuale che si cresce, si va avanti. La vita è strana però perché non sempre ciò che appare “fuori” corrisponde a ciò che appare “dentro”. A volte chi scende sale, e chi sale scende. Toh, com’è buffa la vita.
Dipende sempre dai punti di... svista.
Non siamo i più belli, i più bravi, i più intelligenti “perché facciamo libri”.
No, fare libri non ci rende superiori a nessuno. E se te ne accorgi sei fortunato. Altrimenti, continui a girare con nasino all’insù senza guardare le ombre immense che ti trascini dietro.
In questo settore ho conservato (pochi) amici veri, persone umili, ironiche, che non hanno mai perso il senso e la misura del mondo intorno. Non fanno parte di quella cerchia chiusa che non vuole contaminarsi con le puzze degli altri, di quelli “che non fanno cultura”.
Loro, questi amici, questi colleghi, hanno saputo guardare oltre l’icona di ciò che facevano, e l’hanno tirata giù, l’hanno pestata e le hanno donato un senso più reale.
E hanno capito che c’era anche un altro mondo, là fuori, fuori dalle alchimie espressive, dalle dorate pagine delle storie più belle, dai messaggi profondi che si incidevano sulla carta stampata. C’era un mondo vero, un mondo vero fatto di sfruttamenti e incoerenze, piagato dall’arroganza e da un falso senso di superiorità.
E, come me, hanno sentito poi che il libro non è né l’origine né la fine della vita, di ogni vita, della mia, della tua, della nostra; ma è solo un mezzo. Un mezzo sublime, eccellente, che ti trasporta oltre, se vuole, e se vuoi tu. Ma sempre un mezzo.
Uno strumento. Perché la vita “vera” non è quella che leggiamo, è quella che viviamo. Vivere e agire, questo soltanto dimostra chi siamo.
La vita "vera" sta conficcata nella nostra carne, nei nostri errori, nei nostri atteggiamenti. Se ne frega se conosciamo a memoria il pensiero di Kant e le poesie della Dickinson, o le tecniche espressive di Proust.
Esiste una "fisiognomica delle azioni," e non sbaglia mai. Ciò che leggiamo, invece, se non si traduce, se resta sospeso nella riga di un libro, non serve a nulla, proprio a nulla. E quante vite, in quel mondo, non coincidono affatto con quei nasi all’insù e la beata (e autoproclamata) assunzione celeste di una sorta di agiografia letteraria.
Amo i libri, li amerò sempre. E sempre scriverò, e la scrittura continuerà a essere anche un mestiere.
Ma quando ripenso alla ragazzina che ero, alla sua visione ideale di un mondo di carta migliore, penso che ho lasciato indietro pezzi di me ma che, alla fine, sono più ricca. E, soprattutto, più leggera.
Marocco, i volti dell'anima
di Francesca Pacini
“Quale campo tendato preferisci, Francesca? Quello con i comfort o quello selvaggio?”
“Quello selvaggio, Faysal. Quello selvaggio”
Non immaginavo, in quel momento, che il campo tendato fra le dune del Sahara sarebbe stato solo il battesimo di un’avventura molto più complicata, ed estrema.
A volte l’universo scombina i nostri piani. Ha altri progetti per noi. Traffica con i nostri programmi, li scompone e li ricompone a suo piacimento. Sempre, però, ripercorrendo il disegno, ne troviamo il senso e la direzione.
Ho deciso di tornare in Marocco dopo due anni. Volevo conoscere meglio la terra dell’indaco, dell’ocra, dei rossi che bruciano il cielo al tramonto, prima che la notte baci la terra.
Volevo anche realizzare uno dei due sogni che mi porto dietro da tanto tempo: addormentarmi nel Sahara in tenda coperta da un manto di stelle (l’altro sogno, quello di arrampicarmi sul Machu Picchu mi attende ancora, ma i sogni non sono come le faccende della materia, conoscono le dilatazioni del tempo, non hanno nessuna fretta).
Mi sono organizzata e quella che è diventata davvero un’amica, Lucia, mi ha consigliato una guida, Faysal, con cui compiere il tragitto fino al deserto. Lucia è innamorata del Marocco, ha un’associazione culturale che crea magnifici ponti attraverso cui transitano fino a noi le suggestioni del Maghreb e della sua gente. Ama e conosce il Marocco come un marocchino. E, non a caso, sta imparando anche l’arabo.
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Un martire dei tempi moderni? Apologia del dandy
di Lorenzo Giacinto
Chi è il dandy? Un uomo superficiale o profondo? O qualcuno che invece sfugge a ogni etichetta? Incursione nel dandysmo e nelle sue declinazioni. Che, ieri come oggi, affascina, seduce, coinvolge.
Martire dei tempi moderni, elegante solitario, disinvolto conversatore, superficiale e profondo senza essere al tempo stesso né l’uno né l’altro, il dandy da sempre sfugge ad una etichetta in grado di definirne i contorni.
Fenomeno dalle origini incerte, dalle latitudini non circoscritte, il dandysmo è una rigorosa arte morale messa al servizio di un’esistenza che vuole deviare dalla norma senza clamori o squilli di tromba. Troppo spesso e in maniera sprovveduta il dandy è stato accostato all’ozioso tout court: il primo, simbolo fiero di un’evidente superiorità mentale, non aderisce ai ritmi della vita “istituzionale” e delle sue passioni omologanti e de generatrici per non finirne travolto. Mantiene, al contrario, una compostezza lucida nel mezzo del tumulto, una sua voce originale ed inconfondibile nel frastuono uniforme della folla, domina l’amore e la vita senza esserne dominato. Non interviene nei dibattiti politici né medita sui nodi cruciali della storia. Non lo si vedrà mai alzare barricate o abbatterle. Il suo è un anarchismo raffinato senza alcuna patente di ufficialità o indottrinamento. Il disimpegno politico non è un atto di ostracismo fine a se stesso, bensì un desiderio di protezione e di amor proprio: il dandy non vuole legare il suo nome alle fugaci mode dell’umanità. Al di là di ogni corruzione proveniente dall’esterno, egli aspira ad una purezza altrove.
Così si spiega la predilezione della solitudine, l’eloquio elegante dispensato solo a pochi intimi, il rifiuto netto e definitivo di ogni tipo di prestazione lavorativa. Il dandy è convinto detrattore di quel luogo comune secondo il quale l’esercizio di un mestiere nobilita l’animo umano. Il lavoro, al contrario, è causa di svilimento e si oppone a quello che dovrebbe essere il libero e armonico sviluppo della personalità. Allo stesso modo, la sua passività non è un semplice vezzo estetico, ma ha ragioni più profonde: attraverso l’impassibilità egli smaschera il falso attivismo del mondo, sottomesso alle crudeli leggi del mercato. Per usare un’espressione pavesiana, il vero dandy è colui che si ribella di fronte al “determinismo di tutte quelle palle da biliardo” (si legga umanità). Così, nella sua parabola unica e inconfondibile, il dandy elegge se stesso come creatura irripetibile, svincolata da ogni bieco compromesso sociale. Anche nei sentimenti e nell’amore egli si concede una vasta gamma di possibilità, senza mai levare un grido di dolore, versare lacrime o gioire smodatamente a seconda delle circostanze che gli toccano in sorte. L’educazione alla pudicizia, alla discrezione, al rispetto in primo luogo verso se stessi, all’onore personale : disposizioni d’animo infrante ogni giorno dalla bassezza della folla e proprio per questo motivo raccolte gelosamente, custodite con severità e devozione quasi settarie dai dandies. Si comprende bene, a conti fatti, che l’ambizione massima e insieme l’aspirazione ideale del dandy è la distinzione. Essa può e deve esprimersi anche esteriormente, attraverso un abbigliamento che suggerisca la diversità senza esibire un’eccentricità troppo palese. Baudelaire percorreva i boulevards parigini sempre vestito di nero, poiché quel colore ben rifletteva il lutto del suo animo di fronte alle esistenze anonime dei suoi concittadini.
Oscar Wilde attraversava Hyde Park con una bombetta nera che quasi gli celava il viso. Drieu La Rochelle, altro grande solitario francese, indossava vestiti chiari da abbinare alla tonalità suggestiva dei suoi occhi. Non è, come molti credono, un gusto sfrenato dell’eleganza materiale, ma il marchio visibile di una superiorità aristocratica dello spirito. Stesso discorso vale per il denaro. Il dandy se ne serve per assicurarsi una vita dignitosamente agiata, ma lascia la passione per l’arricchimento alle persone volgari, considerando la ricerca ossessiva della ricchezza una piaga insanabile della società.
Così, simili a templari o a dei crociati dello spirito, i dandies lottano contro la volgarità dilagante dei costumi, adottando quell’atteggiamento che solo un profano potrebbe definire affrettatamente di inerte passività.
Piuttosto, l’affermazione di Baudelaire stigmatizza come meglio non si potrebbe queste straordinarie creature che raramente ci fanno visita, come “un fuoco latente che si lascia scorgere, che potrebbe ma non vuole ardere”.
Un paese che non legge
di Francesca Pacini
Un paese che non legge è un paese che non cresce.
Un paese che non legge non sa discriminare.
Un paese che non legge è incapace di indagare la reatà, metterla alla prova graffiandone la superficie per guardare... un po' più in là.
Un paese che non legge non sa educare i suoi figli alle fiabe, al racconto che diventa meraviglia e saggezza.
Un paese che non legge è un paese incapace di dare un senso alle cose, di avere una visione.
Un paese che non legge commette il peggiore dei crimini: non consente l'educazione, generando infelici che si moltiplicano all'infinito.
Un paese che non legge non sa parlare di cultura, né capisce il significato di ciò che gli accade dentro e intorno.
Un paese che non legge non conosce la beata intimità di una lentezza isolata dal fracasso che ottunde.
Un paese che non legge è condannato a rimanere ostaggio di caste e di salottini per pochi eletti.
Un paese che non legge riununcia all'unica arma che cambia il mondo e uccide solo l'ignoranza.
Un paese che non legge cerca rifugio nella lobotomizzazione della televisione.
Un paese che non legge non conosce la ricchezza dell'immaginazione.
Un paese che non legge non sceglie, mai.
Un paese che non legge detesta i cervelli che pensano al di là dei recinti, e che sfuggono alla quotidiana obliterazione di pensieri omogeneizzati.
Un paese che non legge non sa scrivere.
Un paese che non legge è affilitto da ogni forma di potere e corruzione.
E ci relega, perpetuamente, ai confini del mondo.
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