Editoriale
I (don’t) like. Why?, ovvero del pulsante assente
di Francesca Pacini
Nell’era dei like stiamo perdendo il senso della riflessione. La parola non è solo parola, appunto, ma è segno e sintomo del contenuto che esprime, collegato a sua volta a noi stessi, agli altri, alla società. E questa società, questa cultura, se da un lato con l’uso dei social ha amplificato la diffusione della parola scritta, dall’altro lato ha amputato ciò di cui la parola è estensione: la capacità di riflettere, di esercitare una critica costruttiva meditata (e non mediata). L’impatto globale dei social aumenta “il consumo”della scrittura, però allo stesso tempo esige una fruizione veloce, simbolicamente rappresentata dai famosi “like”. È la scrittura stessa a diventare rapida in modo da poter essere letta con altrettanta rapidità. Siamo dunque ben lontani dalla rapidità auspicata nelle Lezioni americane del mai abbastanza rimpianto Calvino, ci troviamo invece nel territorio ostile del qualunquismo, della fretta che sacrifica il necessario tempo della lentezza in cambio di una faustiana popolarità di pronto uso e consumo (il fast writing al tempo del fast food, diremmo). Scrivere, scrivere, scrivere. A volte non importa cosa, importa esserci. Scrivere pubblicando foto, condividendo video, diffondendo citazioni (peraltro spesso di dubbia attribuzione), scrivere per ottenere i tanto agognati “like”, quelli che, dimostrano alcune ricerche scientifiche, attivano in determinate aree del cervello meccanismi di soddisfazione e piacere simili a quelli generati da una droga (non a caso le dipendenze da internet provocano crisi di astinenza che sono curate nei Sert). Tutti a caccia di un like. Quasi come se da un contenitore digitale dipendesse il nostro essere, e piacere, al mondo. Piaccio, dunque sono. Eccolo, il nuovo narcisismo del web. Se Cartesio sembra finito in cantina, insieme a lui sono stati “seppelliti” nel sottosuolo i processi di riflessione sui perché della vita necessari a comprendere ciò che ci circonda, e di cui facciamo parte.
Già, perché se è vero che i “mi piace” e “non mi piace” sono indicativi di un certo modo di (non) pensare, allora dobbiamo riflettere sull’assenza di un terzo pulsante, di un click determinante nell’invocare la riflessione.
I like. I don’t like. Why?
Mi piace. Non mi piace. Perché?
Eccolo, il famoso “perché”. Che manca, infatti, nei pulsanti di facebook.
Ed è in quel perché che si concentra l’urgente, e determinante, riflessione sui fatti della vita.
Tanto tempo fa un insegnante a me molto caro (uno di quei rari insegnanti che ti cambiano per sempre la vita) mi disse di non smettere mai di cercarlo, quel perché. Dovevo cercarlo sempre, a ogni costo, e inseguirlo, ovunque si nascondesse. E così ho fatto, ogni giorno. “Domandati sempre il perché”. Quel consiglio è diventato un imperativo categorico che, invisibile ma persistente, mi ha accompagnata sollecitandomi nel sollevare quesiti e trovare risposte. Quel perché è stato un alleato nel cammino, un alleato prezioso e importante.
Sembra quasi che nel punto interrogativo con cui si presenta si condensi tutta la sapiente architettura della sua consistenza: quella curva che termina con un punto sottintende il procedere circolare, e mai rettilineo, della vita. Perché (perché, appunto) la vita è una duna, una spirale, non è un rettilineo, un righello ragionieristico con cui pretendiamo di far tornare i conti nell’esistenza. La vita è mistero, sbaffo, refuso.
Ed è domanda. La vita è una eterna, infaticabile, inestinguibile domanda. Senza quei perché saremmo mummificati, senza più possibilità di evoluzione.
Domandarci sempre tutto, su tutto.
Quando usciamo dal cinema, non basta affermare con tono compunto “quel film mi è piaciuto”. Non basta, no. Dobbiamo saperne raccontare le motivazioni. Lì si concentra lo sforzo, l’attitudine a indagare, a penetrare al di là di una semplice affermazione monosillabica. Lì si devia dalla superficie in cui si distende la linea orizzontale per scendere in verticale, verso la profondità.
Facebook non prevede la funzione educativa del “perché”. E così passiamo il tempo scrollando pagine. Mi piace non mi piace mi piace non mi piace mi piace non mi piace. No, non mi piace. Perché?
La narrazione di noi stessi diffusa sui social denuncia l’assenza di un metaforico pulsante mancante, parallelo a quella stessa mancanza di approfondimento che cogliamo negli atti del nostro vivere quotidiano. Non dobbiamo rassegnarci. Il perché, lo dicevamo, esige un punto interrogativo perché possa generare la sua risposta. E quella risposta a sua volta richiede uno scavo. Una società che afferma senza domandare, e argomentare, è una società morta.
Quello che, con espressione infelice quanto terrificante, viene definito “popolo del web”, è esattamente lo stesso di quello che vive fuori dal web. Se non ci sono i perché sul web, non esistono neanche fuori da lì.
La scrittura sui social può essere chiamata a una certa economia del pensiero, ma non alla sua assenza.
Storditi di like, ci piacciamo, crogiolandoci nell’effimera svagatezza della vanagloria, per nutrirci con un ego sterile, ipertrofico, poco abituato ai meravigliosi abissi dell’esistenza. Perché?
Leggere bene
di Francesca Pacini
Flaubert scriveva "Come saremmo colti se conoscessimo bene soltanto cinque o sei libri".
Che significa?
Conoscere non è facile. Leggere non è facile.
Perché troppo spesso ci distraiamo, corriamo veloci sulle pagine che invece richiedono accortezza, indagine, attenzione.
Non importa quale libro stiamo leggendo. Importa come leggiamo. Qui si gioca la differenza.
Per questo a volte leggiamo molto e tuttavia non lo facciamo bene.
Leggere bene. Già.
La lettura è un'esperienza che può modificarci, se la viviamo davvero con ogni fibra del nostro essere.
Non a caso studi recenti hanno dimostrato che la lettura è in grado perfino di influenzare aree del cervello che si attivano davanti a un'esperienza vissuta come fosse "reale"..
Leggere è dunque vivere i libri. A patto che lo si faccia, appunto, per bene.
Bisogna arrivare a sentire quel "brivido sulla colonna dorsale" di cui tanto parla Nabokov, maestro di scrittura e raffinato indagatore.
Come si comincia? Si comincia "ascoltando" ciò che leggiamo, educandoci a vedere, sentire, gustare, toccare.
La lettura è un'esperienza che coinvolge ogni nostro senso.
Guai a lasciare che i caratteri depositati in quello spazio bianco rimangano così, come un corpo morto. Devono invece alzarsi in volo, vibrare, farsi materia vivente.
Ed ecco che allora la scrittura prende forma, vive in noi, ci arricchisce, ci fa crescere, ci rende migliori.
Ogni libro è un cammino.
Ogni libro è un'esperienza vissuta.
Ogni libro è un incontro con l'altro.
Ci sono libri che poi rimangono dentro di noi, come una memoria passata, e altri ai quali invece torniamo sempre, ogni volta con lo stesso desiderio, lo stesso stupore, la stessa meraviglia.
A me accade con Borges.
Ho sempre un suo libro accanto. E ogni volta che ne rileggo una pagina, ecco che l'emozione ritorna, aggiunge, scava nuovi spazi impensati, dà luogo a riflessioni inedite, diverse da quelle avute in precedenza.
Abbiamo tutti i nostri "libri magici", quelli che non finiscono mai.
Calvino diceva che i classici sono classici perchè non tramontano mai, sono sempre attuali.
Non possiamo sperare di innamorarci sempre di un libro, di avere sempre la fortuna di un colpo di fulmine.
I libri sono un po' come gli amori.
Ci sono quelli passionali, quelli più razionali. E poi ci sono gli amori tardivi, maturi, e quelli impetuosi della gioventù.
Ogni amore, però, lascia una traccia. Così come ogni libro.
L'imporante è leggere. Leggere bene.
I luoghi delle parole
di Francesca Pacini
Sono le parole le vere colpevoli. Sono fra le cose più indisciplinate, più libere, più irresponsabili e più riluttanti a lasciarsi insegnare. Certo, possiamo sempre prenderle, suddividerle e metterle in ordine alfabetico nei dizionari. Ma le parole non vivono nei dizionari, vivono nella mente. Se ne volete una prova, pensate a quante volte, nei momenti di maggiore emozione, vi capita di non trovarne nessuna quando più ne avreste bisogno. Eppure il dizionario esiste; e lì, a vostra disposizione, ci sono mezzo milione di parole tutte in ordine alfabetico. Ma potete davvero usarle? No, perché le parole non vivono nei dizionari, vivono nella mente. (…) La questione è solo quella di trovare le parole giuste e di metterle nell’ordine giusto. Ma non possiamo farlo perché esse non viono nei dizionari, vivono nella mente. E come vivono nella mente? Nei modi più strani, non molto diversamente dagli esseri umani; vagando qua e là, innamorandosi e accoppiandosi. E’ indubbio che siano molto meno limitate di noi dalle convenzioni e dai cerimoniali. Parole regali possono permettersi di accoppiarsi con le più comuni. Parole inglesi sposano parole francesi, tedesche, indiane, e di colore se gli salta in mente di farlo. (…) Per questo, imporre regole a tali impenitenti vagabonde è del tutto inutile. Le poche regole di grammatica e di ortografia esistenti sono le uniche restrizioni che potremmo imporre loro. Al massimo possiamo dire di loro – man mano che le spiamo dal profondo limite della caverna scura e male illuminata in cui vivono – che sembrano preferire la gente che sente e che pensa prima di usarle, ma non deve essere gente che sente e pensa a loro, ma a qualcosa di diverso. Perché sono molto sensibili, e si sentono facilmente a disagio. Non amano che si discuta della loro purezza o della loro impurità. (…) E non amano essere sollevate in punta di penna ed esaminate una per una. Restano sempre unite in frasi, in paragrafi, e a volte per intere pagine di fila. Odiano essere utili; odiano dover far soldi; odiano andare in giro a tenere conferenze. In breve, odiano qualsiasi cosa imponga loro un unico significato, o che le immobilizzi in un’unica posa, perché cambiare fa parte della loro natura.
E forse è proprio questa la loro caratteristica più sorprendente: il bisogno di cambiare. Perché la verità che cercano di affermare ha tante facce. (…) E quando le parole vengono inchiodate a un unico significato, ripiegano le loro ali e muoiono. Senza dubbio a loro fa piacere che noi sentiamo e pensiamo prima di usarle; ma vogliono anche che noi ci concediamo una pausa, vogliono che diventiamo incoscienti, Il nostro inconscio è la loro privacy; la nostra ombra è la loro luce.
(Virginia Woolf, Il mestiere delle parole – da Ore in Biblioteca e altri saggi)
Questo brano mi ha accompagnato per anni, e continua a farlo. Ci torno in modo misterioso, come quei richiami di cui non sai l’origine ma conosci la destinazione. Trovo che ci sia tanta "verità" in questa esposizione così palpitante, vigorosa, precisa. Virginia Woolf riesce a penetrare nella sua grotta per avvicinarle, trovarle, lasciarsi avvolgere. Ma ci vuole coraggio.
Immagino le parole come tanti pipistrelli che abitano, a testa in giù (sì, perchè quelle parole di cui parla lei sono rovesciate rispetto alla norma che governa la superficie su cui batte il sole) i nostri sottosuoli. Possono essere trovate solo al buio, e solo se ci lasciamo prendere e non tentiamo di catturarle. Sono queste le parole che fanno la differenza tra i capolavori immortali e il ciarpame di una stagione.
Il genio che le anima esce fuori solo se sfreghiamo il nostro luogo interiore, facendoci così piccoli da scomparire, anche se solo per un istante. Loro, in quel momento, abbandonano la convessità oscura, così cara e familiare, uscendo fuori, sopra la carta, per scavalcare i nostri pensieri.
Il problema è che oggi l’uomo ha costruito un sacco di inutili scuole per insegnare l'uso e l'abuso della parola (alludo alla pestilenziale profusione di corsi per imparare a scrivere romanzi e racconti) che, arenata sotto un sole cocente – il sole delle regolette facili facili e delle tecniche di pronto uso – preferisce morire e tacere piuttosto che servire padroni improbabili.
Le parole, in fondo, somigliano ai gatti. Non hanno padroni. Non tollerano regimi e costrizioni. Si può solo convivere con loro, mai dominarle. Siamo noi, gli ospiti di questo salotto interiore.
Chissà, forse è per questo che molti scrittori hanno sempre un gatto vicino (un po’ come i maghi e le streghe).
Purtroppo la scuola le uccide, le parole. Nel migliore dei casi, attenta alla loro salute.
L'impostazione scolastica, se non viene abbandonata, è infatti il sepolcro di ogni narrazione, ne succhia la linfa vitale, ne rinchiude il moto libero costringendola a un allevamento "in batteria".
La scrittura vera, quella che diventa capolavoro, tensione narrativa, spirito stesso di ogni letteratura di ieri e di oggi, è sempre scaturita da un’insubordinazione.
Qualcuno, ieri come oggi, ha chiuso le regole nel loro recinto, poi è andato nella sua caverna e ha spento la torcia, liberando il volo umbratile, notturno, caotico e allo stesso tempo preciso di quelle creature.
Il nostro inconscio è la loro privacy; la nostra ombra è la loro luce.
Da quel volo nasce lo stupore, fiorisce la meraviglia dei matrimoni perfetti fra le parole.
Virgina Woolf ha celebrato questo matrimonio più e più volte nella sua vita.
La "pazza", come si faceva chiamare, penetrava là dove le nozze si compiono.
Le parole non vivono nei dizionari, vivono nella nostra mente.
Ecco perché sono più difficili da avvicinare. Bisogna accettarne l’ambiguità. E la mobilità.
Impossibile fermare la lingua, che evolve, cresce, muta.
Sarebbe un po' come voler arrestare quel mondo che il demiurgo un giorno ha fatto ruotare. Mi fa pensare, questa immagine, a quelle farfalle meravigliose trafitte da uno spillo e infilate in rassegna in una scatola, a far mostra di sé e della bellezza che fu loro e solo loro, miseramente paralizzata (l’imbalsamazione è paralisi) dall’uomo che di tutto si appropria tranne dell’anima, sua e della vita che lo circonda.
Odiano qualsiasi cosa imponga loro un unico significato, o che le immobilizzi in un’unica posa, perché cambiare fa parte della loro natura.
Chi scrive conosce benissimo il tormento della ricerca infruttuosa, lo sconforto dei momenti "da dizionario", quelli in cui la pietra della ragione copre l’ingresso nella caverna.
In questi momenti si possono certamente scrivere cose belle, intelligenti perfino, e interessanti. Ma saranno come quelle farfalle morte.
Di ben altro tenore è il momento in cui la caverna lascia volare via i suoi tesori. Se ne riconoscono il sapore, il suono, il colore. Sono momenti magari semplici, come quando Borges scrive: "Camminavo a Buenos Aires in una vacanza serenissima della mente" o certamente più evocativi, come quando il colonnello Buendìa "ricorda quel pomeriggio remoto in cui suo padre lo aveva portato a conoscere il ghiaccio".
Ma sono fatti della stessa natura. Provengono dalla stessa scintilla.
Il cacciatore di parole non deve cacciare nulla. Deve solo tacere e ascoltare.
ma non deve essere gente che sente e pensa a loro, ma a qualcosa di diverso
L’ispirazione dalla quale provengono nasce dal caso, dall’incontro fortuito. È fiamma improvvisa che guizza e scompare, lasciando una traccia bella.
Meno si cercano, le parole, più occasioni abbiamo di lasciarci avvicinare.
Solo così saremo in grado di svegliare il cuore e la mente dal suo consueto torpore.
Dietro le parole, poi, inizia un’altra grande avventura.
Ma è già tanto annusarne il profumo, camminando come funamboli sull'orlo del visibile mondo.
Il declino del punto e virgola
di Administrator
C’era una volta un punto
e c’era anche una virgola
erano tanto amici,
si sposarono e furono felici.
Di notte e di giorno
andavano intorno
sempre a braccetto.
Che coppia modello –
la gente diceva –
che vera meraviglia
la famiglia Punto e Virgola.
Al loro passaggio
in segno di omaggio
persino le maiuscole
diventavano minuscole
e se qualcuna, poi,
a inchinarsi non è lesta
la matita del maestro
le taglia la testa
(Gianni Rodari)
C’era una volta. Oggi non più.
Forse a causa della crescita vertiginosa dei divorzi, il matrimonio tra il punto e la virgola è in crisi, tanto che i due stanno tornando a ingrossare le fila dei single.
E non solo in Italia, ma in tutto il mondo.
Sarà, ma io continuo ad apprezzare – pur non usandola molto – questa vecchia coppia che ha superato le nozze d’oro e d’argento.
La lingua è qualcosa di mobile, dinamico, che può ospitare stili diversi senza per questo schierare in campo odiate fazioni.
Di sicuro Kurt Vonnegut non adora il punto e virgola. Di lui dice, con fare tagliente: "Se vuoi davvero infastidire i tuoi genitori e non sei tanto audace da essere omosessuale, il minimo che puoi fare è darti all’arte. Ricordati di non usare mai i punti e virgola, però: sono ermafroditi travestiti, che non stanno a significare nulla. Tutto ciò che fanno è mostrare che sei stato all’università".
E Getrude Stein, con la sua consueta anemia di virgole:"Essi (i punti e virgola, ndr) sono più potenti più imponenti più pretenziosi di una virgola ma essi sono una virgola lo stesso. Hanno davvero in sè profondamente in sè fondamentalmnete in sè la natura di una virgola".
Tempo fa, su Repubblica Stefano Bartezzaghi dedicò un lungo, interessante articolo a questa crisi “interpuntiva” facendone una diagnosi poco promettente per il futuro.
Del resto, la società cambia, oggi corriamo tutti e in questa corsa lasciamo andare ciò che ci sembra una zavorra. Pesano, le frasi lunghe con le subordinate, pesano gli aggettivi abbondanti, e pesa il punto e virgola (la sola virgola è più light, più leggera, in linea con il fare dietetico che contraddistingue la nostra tentazione moderna in reazione alla bulimia che ci perseguita).
Ma togliere "il grasso" alla lingua italiana non vuol dire per forza far bene. Se il vitello è cibo apprezzabile, anche la trippa ha una sua funzione.
E di questo a mio avviso si tratta, al di là della metafora alimentare.
Il punto e virgola non è inutile. E allo stesso tempo non è obbligatorio. Chissà, forse sta qui il suo dilemma.
Come dice lo Zingarelli, si tratta di un segno grafico che "introduce un membro del periodo in posizione autonoma rispetto all’antecedente". Dunque ha "un suo perché", come dicono oggi i giovani parlando fra loro.
Il vero punto (punto, non punto e virgola) sta nel fatto che tendiamo a perdere la sensibilità linguistica verso le raffinatezze della nostra prosa. Tendiamo all’omologazione, a un generico fare che perde per strada il gusto per i dettagli, per le particolarità.
Con questo non intendo incriminare chi ha chiuso in soffitta il punto e virgola. Niente affatto. Dico solo che, ancora una volta, come sempre, dovremmo guardare le infinite varianti e le infinite possibilità di un linguaggio che, vivaddio, può offrire molteplici emanazioni.
E poi mi viene un dubbio mefistofelico: se in tanta voglia di abbatterlo ci fosse l’incapacità di usarlo in modo efficace? Il posizionamento all’interno di una frase, proprio per il "colore" particolare, un po’ indefinito, di questo segno che va certamente dosato, è più complesso di quello dei suoi compagni, i due punti e la virgola (ahi, qui tocchiamo un altro luogo dolente, specie per noi italiani: ci torneremo un’altra volta).
Personalmente non lo uso spesso (finora, qui, non ne ho inserito nemmeno uno) ma dipende anche dal tipo di linguaggio che uso. Se scrivessi un romanzo di un certo tipo forse lo corteggerei, forse lo inviterei nelle mie frasi.
Ma se scrivo su un blog, con un taglio meno letterario e più veloce, ricorro invece volentieri alla virgola e al punto. Rapidi, agili, dal taglio certo. A questo proposito è interessante osservare come i segni abbiano un peso diverso nel ritmo che danno alle frasi. La virgola somiglia a un taglio, a una ferita che impone una pausa, un arresto.
Il punto, il meraviglioso punto è minuscolo eppure affilato, affilatissimo (Niente trafigge più d un punto, diceva Carver a proposito del suo utilizzo in una farse, paragonato a quello dell’insopportabile punto esclamativo).
Tornando a questo dilemma, dovremmo pensare che ognuno ha il suo stile.
Non me la sento, però, di abolire definitivamente, senza appello, il punto e virgola mandandolo in soffitta insieme alle cose osbolete. Alcune case editrici lo fanno. Capisco, hanno le loro norme redazionali. Ma si può inserire una norma in un romanzo? Che è invece stile libero, flusso personale e uso individuale di un linguaggio che facciamo nostro. Vecchia faccenda, quella dello stile e dei suoi confini con la sintassi e la grammatica. Anche su questo torneremo un’altra volta.
Io continuo a difendere l’eclettismo della lingua, che può asciugarsi deliziandoci in prose dal respiro breve, come in quelle di Borges o di Calvino (ma loro che rapporto avevano con il punto e virgola? andate un po’ a controllare, per curiosità…), oppure farsi trascinare dalla corrente generosa di un Proust, con le sue frasi che scendono a valle in mille rivoli.
E oggi, nella letteratura contemporanea? Oggi, di certo, il punto e virgola è in declino. Alcuni libri mi aspettano, sul comodino. Non credo ne incontrerò molti, di punti e virgola. Rischiano di finire come la famosa particella d’acqua Lete, questo è certo.
Ma se qualcuno, oggi, volesse usarli ancora, se qualcuno avesse il coraggio e la bravura di un Proust e dipingesse una cattedrale narrativa che invocasse il loro uso, e se lì fossero bene utilizzati senza far inciampare il lettore, non agiterei la matita rossa gridando all’errore nè sventolerei dichiarazioni di illegittimità e disuso .
Insomma, questo divorzio non s’ha da fare?
Risponderei che, democraticamente, dipende dalla convivenza dei due sposi (del punto e della virgola, intendo) nella penna – o nel mouse – di chi rende vitale questo matrimonio, oppure decide di celebrarne il funerale.
Se la tendenza è quella dell’oblio, mi piacerebbe qualche volta essere sorpresa da qualche felice, geniale recupero.
Misteri e stupori del nostro linguaggio.
Il declino del punto e virgola
di Francesca Pacini
C’era una volta un punto
e c’era anche una virgola
erano tanto amici,
si sposarono e furono felici.
Di notte e di giorno
andavano intorno
sempre a braccetto.
Che coppia modello –
la gente diceva –
che vera meraviglia
la famiglia Punto e Virgola.
Al loro passaggio
in segno di omaggio
persino le maiuscole
diventavano minuscole
e se qualcuna, poi,
a inchinarsi non è lesta
la matita del maestro
le taglia la testa
(Gianni Rodari)
C’era una volta. Oggi non più.
Forse a causa della crescita vertiginosa dei divorzi, il matrimonio tra il punto e la virgola è in crisi, tanto che i due stanno tornando a ingrossare le fila dei single.
E non solo in Italia, ma in tutto il mondo.
Sarà, ma io continuo ad apprezzare – pur non usandola molto – questa vecchia coppia che ha superato le nozze d’oro e d’argento.
La lingua è qualcosa di mobile, dinamico, che può ospitare stili diversi senza per questo schierare in campo odiate fazioni.
Di sicuro Kurt Vonnegut non adora il punto e virgola. Di lui dice, con fare tagliente: "Se vuoi davvero infastidire i tuoi genitori e non sei tanto audace da essere omosessuale, il minimo che puoi fare è darti all’arte. Ricordati di non usare mai i punti e virgola, però: sono ermafroditi travestiti, che non stanno a significare nulla. Tutto ciò che fanno è mostrare che sei stato all’università".
E Getrude Stein, con la sua consueta anemia di virgole:"Essi (i punti e virgola, ndr) sono più potenti più imponenti più pretenziosi di una virgola ma essi sono una virgola lo stesso. Hanno davvero in sè profondamente in sè fondamentalmnete in sè la natura di una virgola".
Tempo fa, su Repubblica Stefano Bartezzaghi dedicò un lungo, interessante articolo a questa crisi “interpuntiva” facendone una diagnosi poco promettente per il futuro.
Del resto, la società cambia, oggi corriamo tutti e in questa corsa lasciamo andare ciò che ci sembra una zavorra. Pesano, le frasi lunghe con le subordinate, pesano gli aggettivi abbondanti, e pesa il punto e virgola (la sola virgola è più light, più leggera, in linea con il fare dietetico che contraddistingue la nostra tentazione moderna in reazione alla bulimia che ci perseguita).
Ma togliere "il grasso" alla lingua italiana non vuol dire per forza far bene. Se il vitello è cibo apprezzabile, anche la trippa ha una sua funzione.
E di questo a mio avviso si tratta, al di là della metafora alimentare.
Il punto e virgola non è inutile. E allo stesso tempo non è obbligatorio. Chissà, forse sta qui il suo dilemma.
Come dice lo Zingarelli, si tratta di un segno grafico che "introduce un membro del periodo in posizione autonoma rispetto all’antecedente". Dunque ha "un suo perché", come dicono oggi i giovani parlando fra loro.
Il vero punto (punto, non punto e virgola) sta nel fatto che tendiamo a perdere la sensibilità linguistica verso le raffinatezze della nostra prosa. Tendiamo all’omologazione, a un generico fare che perde per strada il gusto per i dettagli, per le particolarità.
Con questo non intendo incriminare chi ha chiuso in soffitta il punto e virgola. Niente affatto. Dico solo che, ancora una volta, come sempre, dovremmo guardare le infinite varianti e le infinite possibilità di un linguaggio che, vivaddio, può offrire molteplici emanazioni.
E poi mi viene un dubbio mefistofelico: se in tanta voglia di abbatterlo ci fosse l’incapacità di usarlo in modo efficace? Il posizionamento all’interno di una frase, proprio per il "colore" particolare, un po’ indefinito, di questo segno che va certamente dosato, è più complesso di quello dei suoi compagni, i due punti e la virgola (ahi, qui tocchiamo un altro luogo dolente, specie per noi italiani: ci torneremo un’altra volta).
Personalmente non lo uso spesso (finora, qui, non ne ho inserito nemmeno uno) ma dipende anche dal tipo di linguaggio che uso. Se scrivessi un romanzo di un certo tipo forse lo corteggerei, forse lo inviterei nelle mie frasi.
Ma se scrivo su un blog, con un taglio meno letterario e più veloce, ricorro invece volentieri alla virgola e al punto. Rapidi, agili, dal taglio certo. A questo proposito è interessante osservare come i segni abbiano un peso diverso nel ritmo che danno alle frasi. La virgola somiglia a un taglio, a una ferita che impone una pausa, un arresto.
Il punto, il meraviglioso punto è minuscolo eppure affilato, affilatissimo (Niente trafigge più d un punto, diceva Carver a proposito del suo utilizzo in una farse, paragonato a quello dell’insopportabile punto esclamativo).
Tornando a questo dilemma, dovremmo pensare che ognuno ha il suo stile.
Non me la sento, però, di abolire definitivamente, senza appello, il punto e virgola mandandolo in soffitta insieme alle cose osbolete. Alcune case editrici lo fanno. Capisco, hanno le loro norme redazionali. Ma si può inserire una norma in un romanzo? Che è invece stile libero, flusso personale e uso individuale di un linguaggio che facciamo nostro. Vecchia faccenda, quella dello stile e dei suoi confini con la sintassi e la grammatica. Anche su questo torneremo un’altra volta.
Io continuo a difendere l’eclettismo della lingua, che può asciugarsi deliziandoci in prose dal respiro breve, come in quelle di Borges o di Calvino (ma loro che rapporto avevano con il punto e virgola? andate un po’ a controllare, per curiosità…), oppure farsi trascinare dalla corrente generosa di un Proust, con le sue frasi che scendono a valle in mille rivoli.
E oggi, nella letteratura contemporanea? Oggi, di certo, il punto e virgola è in declino. Alcuni libri mi aspettano, sul comodino. Non credo ne incontrerò molti, di punti e virgola. Rischiano di finire come la famosa particella d’acqua Lete, questo è certo.
Ma se qualcuno, oggi, volesse usarli ancora, se qualcuno avesse il coraggio e la bravura di un Proust e dipingesse una cattedrale narrativa che invocasse il loro uso, e se lì fossero bene utilizzati senza far inciampare il lettore, non agiterei la matita rossa gridando all’errore nè sventolerei dichiarazioni di illegittimità e disuso .
Insomma, questo divorzio non s’ha da fare?
Risponderei che, democraticamente, dipende dalla convivenza dei due sposi (del punto e della virgola, intendo) nella penna – o nel mouse – di chi rende vitale questo matrimonio, oppure decide di celebrarne il funerale.
Se la tendenza è quella dell’oblio, mi piacerebbe qualche volta essere sorpresa da qualche felice, geniale recupero.
Misteri e stupori del nostro linguaggio.
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