Editoriale

Il volo di Alda Merini

di Francesca Pacini

Alda Merini, un’isola di saggezza in un mondo di follia. Poetessa visionaria e lucida, mente tremula e forte, cuore di oceano in un corpo senza pelle.

MeriniSono una donna anziana, di 76 anni, malconcia, che ha subìto diversi interventi di cui l’ultimo all’anca e quindi faccio fatica a muovermi. Mi piacerebbe uscire, scendere le scale (non ho l’ascensore) e fare una passeggiata per le vie della città, bere un caffè al bar, sorretta dal mio bastone. Ma ho paura. Paura del mondo attorno perché è così spaventosamente cambiato. Io sono stata in manicomio per tanti anni, ma dopo la legge Basaglia (legge 180 che ha fatto chiudere i manicomi) i matti sono in giro e hanno ragione di essere matti: c’è troppo odio in questa società. Un odio che ha devastato l’Italia e che rende le persone ignoranti, aride e cattive. Non c’è più amore per nessuno. E per assurdo affermo che mi sentivo più sicura in manicomio, anche se so che con questa mia affermazione urterò la sensibilità di molti: io vorrei che riaprissero i manicomi. Dico di più, vorrei ritornarci.

Tra le mie quattro mura non mi sento sicura, ho dei vicini terribili, persone inqualificabili. Mi disturbano con il silenzio, se facessero rumore mi farebbe piacere, vorrei sentire le grida dei loro bambini, invece niente, silenzio tombale che mi porta a domandare “sarà in casa?”. Poi improvvisamente questo silenzio viene rotto da un rumore violento che ti fa sobbalzare perché non te l’aspettavi e se sei fragile di cuore può anche farti male. È una tortura morale. Madre Teresa di Calcutta diceva che c’è qualcosa di più grave dell’omicidio colposo: l’indifferenza, che può arrivare a uccidere un uomo. Ecco, i miei vicini mi trattano con indifferenza. Non parlano, non si rivelano, fanno comunella tra loro, continuano a vedermi come la donna che è stata in manicomio, una sorta di stigmate impressa addosso, che mina la mia identità personale, per loro io sono ancora matta.
E anche mia figlia lo è, per il solo fatto di essere nata da me. Ma i veri disturbati di mente sono loro. La gente odia la malattia mentale perché ha paura di essere uguale al malato di mente, molti non lo sanno che sono già uguali ai pazzi. E così li emarginano credendosi sani.

I miei vicini di casa ricostruiscono la mia pazzia. Sparlano alle mie spalle perché la mia casa è disordinata, per loro vivo nella sporcizia, loro invece hanno case asettiche, perfette e impersonali ma non si rendono conto che vivono nella sporcizia morale. Il fatto che non mi rivolgano la parola è drammatico.

(Alda Merini, testimonianza pubblicata su D – la Repubblica delle Donne)

Già. Alda Merini non è una donna comoda.
E non vuole esserlo. Tutt’altro.
Ma un’anima sensibile come la sua, tutta pelle, esposta alle variazioni climatiche di un temperamento mutevole, incline alla malinconia e allo stesso tempo dotato di ali, le grandi ali dei folli (folli di saggezza, mi verrebbe da dire), deve fare i conti con la tristezza quotidiana di quel mondo patologico che noi chiamiamo normale. Normale perché dormiamo. Normale perché ci rifiutiamo di vedere le nostre miserie, le nostre patologie, le nostre nevrosi ormai elette a modello sociale.
Sul piano psichico, la differenza tra il “sano” e il “malato”, diceva Freud, è solo una differenza quantitativa, non qualitativa. Quantitativa. Quindi il confine che separa (apparentemente) i due mondi risiede solo in un accumulo di peso, in un aumento della pressione. Interessante. Molto interessante. Siamo tutti potenzialmente folli. Non si tratta di un gene particolare (perlomeno finora neanche gli scienziati DNA dipendenti hanno isolato e indicato il cromosoma responsabile della follia).
Non si tratta di una virata improvvisa verso territori a noi sconosciuti, in cui si aggirano allucinazioni e fantasmi.
Noi, quei territori, li abbiamo già dentro.

Esistono diversi gradi di follia. Ancora una volta, si tratta di gradi. Di un aumento della temperatura che fa bollire la coscienza, la trasforma in magma esplosivo, lava che cola travolgendo le barriere mentali.
Ma i matti, spesso, sono saggi. Terribilmente saggi.
Vedono cose che noi non vediamo. Sì. E tuttavia queste visioni non hanno solo a che fare con le deformazioni psichiche, le proiezioni, gli stati paranoici o allucinatori.
A volte i matti vedono, semplicemente. Non guardano. Come diceva anche il Piccolo Principe di Saint Exupery, tra il guardare e il vedere esiste una differenza.

C’è un libro bellissimo, Le libere donne di Magliano, in cui Mario Tobino ci regala un affresco umanissimo, perfino” sensato” (sì, c’è un “senso”, una direzione, anche nei matti, il loro caos a volte nasconde architetture precise, come accade con i frattali) del manicomio in cui lavora.
La sua domanda è sempre attuale:
“La pazzia è veramente una malattia? Non è soltanto una delle tante misteriose e divine manifestazioni dell’uomo, un’altra realtà dove le emozioni sono più sincere e non meno vive? I pazzi hanno le loro leggi come ogni altro essere umano e se qualcuno non li capisce non deve sentirsi superiore”.
Si sentono invece molto superiori, i vicini di Alda.
Lei, la vecchia poetessa pazza, fa paura.
E io mi domando se questo timore non scaturisca proprio dalla voglia di evitare il confronto con uno specchio evidente (in cui l’immagine si inverte, come in tutti gli specchi) che ci rimanda ll nostro reale disordine nascosto dietro le “pulizie” che ostentiamo. Dietro quella normalità in cui infiliamo i nostri disagi, le follie che tratteniamo nel pugno della mano, preferendo chiudere gli occhi e dormire.
Forse le donne di Magliano sono davvero libere.
E noi, noi prigionieri delle nostre paure, degli attaccamenti, dell’incapacità di vedere la follia di una società che si ammala di indifferenza. Una società in cui il cuore si chiude, la mente si ottunde, la ragione sancisce il predominio relegando i fantasmi inconsci in soffitta, insieme al baule con i libri di Freud, insieme alle ombre che potrebbero urtare il magnifico profilo sociale e civile in cui ci illudiamo di vivere mentre forse stiamo invece morendo.
Se solo avessimo più coraggio. Se solo decidessimo di guardare in faccia i nostri matti.
Saremmo allora liberi. Come le donne di Magliano. Come Alda.
Certo, un po’ picchiatelli. Ma liberi.

 

Terrain vague

di Antonia Arcuri

arcuriGilles Clément raggruppa nel terzo paesaggio tutte le aree abbandonate dall’uomo: sono dei residui (délaissé), spazi incolti (friche) che rappresentano rifugi per la diversità. Clément ne parla anche come di “spazi indecisi”, dove le amministrazioni, o l’uomo, non hanno intenzione di intervenire e che diventano “terrain vague”, dove non è più evidente un ordine, ma solo un’evoluzione naturale della flora e della fauna, che sfruttano l’inappetenza umana alla conquista.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Terrain vague

Serpenti intricati i capelli
posi distratta
nella banalità del grigio
né luci né ombre
ti acconci parti del corpo
in un scatto sospeso
di pensiero
compari senza preavviso
per apparire più distante
con una mossa circolare
del tempo.
L’azione è casuale
come in un incontro
giochi a dare corda
nomade e senza memoria
nei luoghi temporanei
del terzo paesaggio.
Non hai un diadema tra i capelli
solo cristalli.
Quella materia di spiagge assolate
attorcigliate a doppio giro su un'idea
in strisce intrecciate di carta riciclata
e fili di lana di risulta per i nidi
degli uccelli sfrattati.
Non hai asfodeli tra i capelli
solo nastri.
L’uomo che ti sta accanto
annota pensieri
su un riquadro di luce.
Parole dismesse vi spiano
circospette
senza certezza di risiedere.
Le dileguano all'improvviso
un cenno in un saluto.
Nei nidi di carta trovano casa
seppure per qualche ora
tanto possono vivere
le parole non amate.
Sull'erba a nutrire
vespe e zanzare
le ritrovi danzare
per un'altra durata.

La mappa è il territorio?

di Francesca Pacini

La mappa non è il territorio e il nome non è la cosa designata

(Gregory Bateson)

 

mappaChi, come me, lavora con le parole sa bene in quali angusti anfratti capita a volte di infilarsi. Il linguaggio è straordinario e allo stesso tempo insidioso, può brillare come un faro nella notte oppure diventare nebbia che tutto invade, mescolando i confini delle cose, spostandole, equivocandole.

La frase di Bateson è verissima ma, ahimé, ognuno di noi crede invece che la sua personalissima mappa mentale indichi il territorio, lo rappresenti in modo oggettivo e non soggettivo.

Purtroppo la neurolinguistica, con la scuola di Palo Alto, su questa affermazione ha costruito addirittura un meccanismo di gestione e controllo di chi ci sta di fronte, partendo dalla conoscenza delle sue mappe con le quali interagire. Dico purtroppo perché ho carissimi amici che insegnano questa disciplina tutta moderna (che però, come sempre, saccheggia gli "antichi") e che mescola Watzlawick e Bateson, Korzybski e lo zen orientale e mi è capitato di editare un loro testo pubblicato da Franco Angeli. Personalmente, queste manipolazioni usate a fini commerciali (molti venditori fanno corsi di pnl per imparare il "calco" del cliente che sta loro di fronte, e che consiste nel mimarne i percorsi gestuali e linguistici al fine di metterlo a proprio agio) mi lasciano molto perplessa.

Ma torniamo alle mappe e ai territori.

Il problema, dicevo, è che ognuno di noi ha la sua mappa, che diventa un territorio universalmente valido. Anzi, il territorio. Da qui si parte per "scapocciarsi" su ogni tema della realtà, passando da una discussione a cena a…una guerra.

I nostri territori sono come terre di mezzo popolate dagli abitanti che abbiamo creato. Insomma, siamo tutti dei tolkeniani senza saperlo. A questi territori diamo il valore di realtà, seguendo invece, spesso, le nostre credenze.

E le parole, in queste mappe, sono come i cartelli stradali. Sono loro a orientarci, a farci dare indicazioni agli altri (molte delle quali errate), a indirizzare i viaggi.

Ma la parola, senza un’esperienza condivisa, ha scarso valore.

Dunque le nostre mappe devono in qualche modo fluire le une nelle altre.

Senza la condivisione di un’esperienza tutto rimane su carta, o in punta di penna.

Certo, la percezione cognitiva di qualunque cosa ci venga offerta dalle parole avrà comunque un peso, ma questo peso sarà ripartito in modo differente.

Io non sono una "mamma", ad esempio. Dunque posso immaginare, con la mia mappa, in cosa consista un affetto filiale, provando a immedesimarmi nella maternità.

Ma per quanto profonda, la mia conoscenza sarà fatta solo di mappe e parole, senza un’esplorazione reale del territorio. Sangue del mio sangue. Bellissima immagine evocata, splendida frase. Ma non so che significa viverla, renderla reale, concreta.

A complicare le cose, ci si mette l’esperienza condivisa che, per ognuno, può avere un tenore diverso.

Dipende dal punto di vista, o di svista.

Per intenderci, sia i palestinesi che gli ebrei vivono sulla pelle il dolore di un conflitto che pare inestinguibile, eppure della medesima esperienza hanno una percezione assai diversa.

Perchè la mappa è il territorio, e le mappe sono diverse. Quindi ognuno la consulta durante la sua navigazione personalissima.

E a volte, quando si grida Terra! Terra! è troppo tardi.

In barba alle mappe, ai territori e alle parole.

 

Manifestare, combattere, cambiare. Come?

di Francesca Pacini

imgSe vogliamo che il mondo cambi, dobbiamo cambiare noi. Non sarà mai abbastanza vero, e difficile. Molto più facile voler cambiare il mondo “fuori”, piuttosto che guardare dentro di noi, e scoprire la moltitudine dei nostri difetti, che esistono, e resistono, con la stessa tenacia di un vizio. E, si sa, i vizi non vogliono morire, mai. Dunque eccoci pronti, lancia in resta, a combattere le nostre ombre all’esterno, le stesse ombre che Freud e Jung, con un’intuizione che avrebbe cambiato per sempre la storia della psicologia, individuavano come proiezione dei nostri stessi limiti, delle faccende irrisolte che ci trasciniamo dietro. Se riusciamo a esaminare attentamente le nostre reazioni, scopriamo, con fastidio, che quando reagiamo in modo eccessivo a qualcuno o qualcosa abbiamo trovato un punto debole, fragile, dentro noi stessi, che combacia esattamente con l’oggetto delle avversioni, delle aggressioni, delle esacerbate irritazioni.

Combattiamo quindi l’ombra all’esterno, negando, e non modificando, quella che invece pascola felicemente nascosta nei nostri prati interiori.

E così, da sempre, l’uomo non cambia mai. E ripete sempre le stesse modalità. Un Gattopardo cronico, perenne, che sopravvive ai tempi e alla storia e muta per non mutare mai. Se invece cambiassimo direzione, invertendo lo sguardo e l’azione, forse qualcosa potrebbe cambiare davvero.

Ma dobbiamo scavare dentro. A fondo, molto a fondo. Poi, solo dopo, possiamo anche pretendere di cambiare qualcosa “fuori”.  Agendo con la stessa lucida oggettività che proveremo ad applicare a noi stessi.  Riflettiamo, pensando alla nostra pretesa di pace universale, quando non siamo capaci, magari, di portare quiete e armonia neppure in famiglia.

Mi diverte, osservare i condomini che durante una riunione si fanno a pezzi per un cortile comune, e che dopo, magari con gli amici, inneggiano alla cessazione di ogni  conflitto fra Israele e la Palestina, lamentandosi per la situazone. Come può esserci pace nei mondi lontani da noi se non riusciamo neppure a portarne un pezzettino in casa nostra? Ci penso spesso. Forse è anche per questo che le rivoluzioni sono finite tutte con il somigliare, in qualche modo, al sistema ingiusto che hanno combattuto.

Da Mao a Castro, passando per Stalin, i cambiamenti radicali non hanno modificato un certo assetto che è tornato a manifestarsi. Gli unici, difficili, fulgidi esempi di cambiamenti più sostanziali sono frutto di quei rarissimi uomini che hanno prima percorso un cammino interiore, come Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela. Uomini saggi, eroi e campioni di dialogo e umanità. Perché senza dialogo e  umanità non c’è mai cambiamento. Questo non significa che dobbiamo soltanto occuparci di noi stessi, ma che dobbiamo stare attenti a non spostare “fuori” i nostri problemi e le nostre rivendicazioni. Poi, certo, occorre trovare l’equilibrio tra il cammino individuale e quello collettivo. Senza relazione con gli altri non vale neanche la pena di esistere.

Ma il “bene comune” non potrà mai prescindere da questo complesso lavoro interiore. Ultimamente ho partecipato a diverse manifestazioni, da Gezi Park ai No Tav fino alla Terra dei Fuochi. Ho sentito, sulla pelle, tutte le ingiustizie che, per motivi diversi, intere generazioni subiscono e hanno subito. Ho visto persone di ogni razza marciare, e protestare, per i loro diritti feriti. E mi sono coinvolta. Ovviamente. Perché i nostri destini sono legati da un filo invisibile, che supera ogni confine e barriera. E che, grazie all’empatia e alla compassione, ci permette di sposare anche cause che non ci coinvolgono direttamente. Ed è così che ho sentito mie le colline e i prati verdi  su cui scivolano le  nubi che tagliano la trasparenza dei cieli  in Val di Susa, e ho sentito nelle narici la puzza dei roghi tossici che marciscono il corpo e la dignità degli abitanti campani, ed è sempre così che ho abbracciato gli alberi di Gezi Park insieme al sogno di una democrazia in quella terra bellissima, porta fra i mondi, che è la Turchia.

La loro lotta era la mia. Insieme prestavamo la voce per un coro più forte, e più ampio. Mi sono fermata a osservare quelle facce, quei gesti, quelle storie incrociate per caso. I bambini che, a Napoli, agitavano gli striscioni con cui cercavano di allontanare il presagio del loro funesto destino, erano uguali ai ragazzini che, a Istanbul, quest’estate sfidavano la polizia cantando e ballando insieme “ai grandi” ed erano uguali ai figli dei valligiani che di notte si svegliano sudati con il rumore delle rotaie che attraversano un incubo che sconfina nella realtà.

Lotte diverse, ma persone uguali. E tuttavia, tuttavia quando si manifesta insieme per cambiare qualcosa si radunano, sotto una stessa bandiera, motivazioni e intenti diversi, che vanno dalla speranza di una giustizia migliore  a una rabbia convogliata in una zona precisa da combattere e abbattere.

Il giorno in cui i No Tav sfilavano a Roma dietro il camion enorme che apriva il corteo c’erano un paio di ragazzini e una ragazza, avranno  avuto più o meno quindici anni, che rollavano canne e bevevano vino, già alle tre del pomeriggio,  danzando al ritmo della musica che proveniva da un lettore appoggiato sul camion. Lei, la ragazza, aveva i capelli infuocati da una tinta rossa, e la pelle bianchissima, come latte, su cui indossava abiti striminziti, un po’ dark, un po’ punk. Era piccola accanto al camion gigante (il gigante e la bambina, pensavo) ma con le sue pose sexy da adulta, il culetto che si agitava mentre ruotava, e ruotava, invitando i maschi che le stavano attorno, si ingrandiva, si allungava fino al tetto del camion, arrivando a invadere il mondo degli altri, “gli adulti”, che ancora, malgrado gli atteggiamenti, lambiva appena. Non basta una canna per essere grandi, e non basta  neanche conoscere i segreti del letto. Ma lei lì, vicino al camion, piccina, minuta, sfidava quel mondo innestando una personale rivendicazione all’interno di un’altra battaglia.

Mi faceva tenerezza, la sua strampalata, buffa andatura sbilenca, fatta di fumo e di alcol, intenta a scortare il camion guidato da un omone che, ogni cinque minuti, urlava qualche slogan con il megafono. Vicino a lei, anche gli altri due ragazzini, ebbri di rivoluzione e di sostanze, facevano “i grandi”. Con un sorriso, ho pensato che in fondo spesso è così, ci si mescola alle grandi cause e si portano lì le nostre cause più piccole, ci si batte per qualcosa che, dietro, nasconde anche altre battaglie, le nostre, quelle più intime, personali. Quelle che, magari, non vogliamo neanche dire.

A un certo punto li ho persi fra la folla, andavo e venivo per fotografare, capire, osservare.

E certo, è sempre meglio stare lì piuttosto che guardare la vita da una finestra, senza mai osare, senza mai faticare. Specialmente oggi, oggi che siamo tutti bravi a smanettare su internet snocciolando i nostri preziosi commenti, a fare le nostre battaglie dietro uno schermo, a portata di clic.

Però non dobbiamo dimenticare che, prima di tutto, dobbiamo manifestare…dentro di noi. Protestare, protestare forte. E cambiare tutto ciò che è possibile. Siamo noi stessi i vari Erdoğan, i roghi tossici, gli abusi edilizi e tutte le altre ingiustizie che ogni giorno siamo costretti a vedere e a subire.

Dentro e fuori, è questa l’alchimia dell’avventura umana su questa terra.

Trovare la combinazione perfetta, ecco quello a cui dovremmo tendere. Solo in quel momento le nostre battaglie nel mondo avranno un sapore diverso perché saranno il frutto di ciò che siamo stati capaci di combattere e cambiare anche dentro di noi. Altrimenti, nessuna battaglia cambierà davvero qualcosa.



Manifestare per cambiare le cose?

di Francesca Pacini

 

 

editorialeSii il cambiamento che vorresti vedere nel mondo”, diceva Gandhi. Non sarà mai abbastanza vero, e difficile. Molto più facile voler cambiare il mondo “fuori”, piuttosto che guardare dentro di noi, e scoprire la moltitudine dei nostri difetti, che esistono, e resistono, con la stessa tenacia di un vizio. E, si sa, i vizi non vogliono morire, mai.

Dunque eccoci pronti, lancia in resta, a combattere le nostre ombre all’esterno, le stesse ombre che Freud e Jung, con un’intuizione che avrebbe cambiato per sempre la storia della psicologia, individuavano come proiezione dei nostri stessi limiti, delle faccende irrisolte che ci trasciniamo dietro. Se riusciamo a esaminare attentamente le nostre reazioni, scopriamo, con fastidio, che quando reagiamo in modo eccessivo a qualcuno o qualcosa abbiamo trovato un punto debole, fragile, dentro noi stessi, che combacia esattamente con l’oggetto "esterno"delle avversioni, delle aggressioni, delle esacerbate irritazioni.

Combattiamo quindi l’ombra al di fuori di noi, negando, e non modificando, quella che invece pascola felicemente nascosta nei nostri prati interiori.

E così, da sempre, l’uomo non cambia mai. E ripete sempre le stesse modalità. Un Gattopardo cronico, perenne, che sopravvive ai tempi e alla storia e muta per non mutare. Se invece cambiassimo direzione, invertendo lo sguardo e l’azione, forse qualcosa potrebbe cambiare davvero. Ma dobbiamo scavare dentro. A fondo, molto a fondo. Poi, solo dopo, possiamo anche pretendere di cambiare qualcosa “fuori”.  Agendo con la stessa lucida oggettività che proveremo ad applicare a noi stessi.  Riflettiamo, pensando ad esempio alla nostra pretesa di pace universale, quando non siamo capaci, magari, di portare quiete e armonia neppure in famiglia. Mi diverte, osservare i condomini che durante una riunione si fanno a pezzi per un cortile comune, quegli stessi vicini che magari inneggiano alla cessazione di ogni conflitto fra Israele e la Palestina, lamentandosi per la sua assenza. Come può esserci pace nei mondi lontani da noi, se non riusciamo neppure a portare un pezzettino di armonia in casa nostra? Ci penso spesso. Forse è anche per questo che le rivoluzioni sono finite tutte con il somigliare, in qualche modo, al sistema ingiusto che hanno combattuto. Da Mao a Castro, passando per Stalin, i cambiamenti radicali non hanno modificato un certo assetto che è tornato a manifestarsi.

Gli unici, difficili, fulgidi esempi di cambiamenti più sostanziali sono frutto di quei rarissimi uomini che hanno prima percorso un cammino interiore, come Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela. Uomini saggi, eroi e campioni di dialogo e umanità. Perché senza dialogo e umanità non c’è mai cambiamento. Questo non significa che dobbiamo soltanto occuparci di noi stessi, ma che dobbiamo stare attenti a non spostare “fuori” i nostri problemi e le nostre rivendicazioni. Poi, certo, occorre trovare l’equilibrio tra il cammino individuale e quello collettivo. Senza relazione con gli altri non vale neanche la pena di esistere. Ma il “bene comune” non potrà mai prescindere da questo complesso lavoro interiore. Ultimamente ho partecipato a diverse manifestazioni, da Gezi Park ai No Tav fino alla Terra dei Fuochi. Ho sentito, sulla pelle, diverse ingiustizie che, per motivi e situazioni molto differenti fra loro, i manifestanti hanno deciso di contrastare.

Ho visto persone di ogni razza marciare, e protestare, per i loro diritti feriti. E mi sono coinvolta. Ovviamente. Perché i nostri destini sono legati da un filo invisibile, che supera ogni confine e barriera. E che, grazie all’empatia e alla compassione, ci permette di sposare anche cause che non ci coinvolgono direttamente. Ed è così che ho sentito mie le colline e i prati verdi su cui scivolano le nubi che tagliano la trasparenza dei cieli in Val di Susa, e ho sentito nelle narici la puzza dei roghi tossici che marciscono il corpo e la dignità degli abitanti campani, ed è sempre così che ho simpatizzato, a Gezi Park, con le donne e gli uomini che protestavano contro le decisioni del loro premieri.

La loro lotta era la mia. Insieme prestavamo la voce per un coro più forte, e più ampio. Mi sono fermata a osservare quelle facce, quei gesti, quelle storie incrociate per caso. I bambini che, a Napoli, agitavano gli striscioni con cui cercavano di allontanare il presagio del loro funesto destino, erano uguali ai ragazzini che, a Istanbul, quest’estate sfidavano la polizia cantando e ballando insieme “ai grandi” ed erano uguali ai figli dei valligiani che di notte si svegliano sudati con il rumore delle rotaie che attraversano un incubo che sconfina nella realtà.

Lotte diverse, ma persone uguali. E tuttavia, tuttavia quando si manifesta insieme per cambiare qualcosa si radunano, sotto una stessa bandiera, motivazioni e intenti diversi, che vanno dalla speranza di una giustizia migliore a una rabbia convogliata in una zona precisa da combattere e abbattere.

Il giorno in cui i No Tav sfilavano a Roma dietro il camion enorme che apriva il corteo c’erano un paio di ragazzini e una ragazza, avranno avuto più o meno quindici anni, che rollavano canne e bevevano vino, già alle tre del pomeriggio, danzando al ritmo della musica che proveniva da un lettore appoggiato sul camion. Lei, la ragazza, aveva i capelli infuocati da una tinta rossa, e la pelle bianchissima, come latte, su cui indossava abiti striminziti, un po’ dark, un po’ punk. Era piccola accanto al camion gigante (il gigante e la bambina, pensavo) ma con le sue pose sexy da adulta, il culetto che si agitava mentre ruotava, e ruotava, invitando i maschi che le stavano attorno, si ingrandiva, si allungava fino al tetto del camion, arrivando a invadere il mondo degli altri, “gli adulti”, che ancora, malgrado gli atteggiamenti, lambiva appena. Non basta una canna per essere grandi, e non basta neanche conoscere i segreti del letto. Ma lei lì, vicino al camion, piccina, minuta, sfidava quel mondo innestando una personale rivendicazione all’interno di un’altra battaglia.

Mi faceva tenerezza, la sua strampalata, buffa andatura sbilenca, fatta di fumo e di alcol, intenta a scortare il camion guidato da un omone che, ogni cinque minuti, urlava qualche slogan con il megafono. Vicino a lei, anche gli altri due ragazzini, ebbri di rivoluzione e di sostanze, facevano “i grandi”. Con un sorriso, ho pensato che in fondo spesso è così, ci si mescola alle grandi cause e si portano lì le nostre cause più piccole, ci si batte per qualcosa che, dietro, nasconde anche altre battaglie, le nostre, quelle più intime, personali. Quelle che, magari, non vogliamo neanche dire.

A un certo punto li ho persi fra la folla, andavo e venivo per fotografare, capire, osservare.

E certo, è sempre meglio stare lì piuttosto che guardare e gudicare la vita da una finestra, senza mai osare, senza mai faticare. Specialmente oggi, oggi che siamo tutti bravi a smanettare su internet snocciolando i nostri preziosi commenti, a fare le nostre battaglie dietro uno schermo, a portata di clic.

Però non dobbiamo dimenticare che, prima di tutto, dobbiamo manifestare dentro di noi. Protestare, protestare forte. E cambiare tutto ciò che è possibile. Siamo noi stessi i vari Erdoğan, i roghi tossici, gli abusi edilizi e tutte le altre ingiustizie che ogni giorno siamo costretti a vedere e a subire.

Dentro e fuori, è questa l’alchimia dell’avventura umana su questa terra.

Trovare la combinazione perfetta, ecco quello a cui dovremmo tendere. Solo in quel momento le nostre battaglie nel mondo avranno un sapore diverso perché saranno il frutto di ciò che siamo stati capaci di combattere e cambiare anche dentro di noi. Altrimenti, nessuna battaglia cambierà davvero qualcosa.

 

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Romano, ma con spiccata propensione al cosmopolitismo. Laterale, eversivo, surrealista, ironico ed autoironico....Read more >>
Sono nata in provincia di Napoli dove vivo tuttora. Ho conseguito una laurea triennale in Economia Aziendale....Read more >>
Francesca Pacini è giornalista, art director, docente. Sempre in moto, vive e lavora tra Roma e le...Read more >>
Sara è nata 27 anni fa vicino Roma. Con ostinata tenacia si sta laureando in Lettere classiche alla Sapienza...Read more >>
Sono Raffaelina Di Palma, classe 1945. Dall’anno di nascita si può presumere che io non abbia un titolo...Read more >>
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