“Chiaro di donna” di Romain Gary
di Lorenzo Giacinto
Esistono dei libri che sprigionano una forza dirompente, che scoprono nervi esposti nella sensibilità del lettore, sollecitandola e scuotendola con l’energia di un uragano che di sé e del suo passaggio lascia un’eco inconfondibile. È questo il caso dell’opera di uno scrittore lituano naturalizzato francese, di cui ricorre proprio quest’anno il centenario dalla nascita: Romain Gary.
Raramente vicenda umana e letteraria hanno trovato una sintesi più intensa nella vita di un uomo: quel sodalizio tra sangue e inchiostro, da molti inseguito come una chimera, trova una magnifica esemplarità nella biografia di Romain, partigiano aviatore, diplomatico, viaggiatore, casanova e scrittore celato dietro vari pseudonimi, tanti quanti erano gli aspetti proteiformi di un uomo che comunque, al di sopra di tutto, professava un inesausto e sincero amore per la vita. Una foto in bianco e nero lo ritrae in divisa da pilota: una silhouette che ricorda una star hollywoodiana per la bellezza e il portamento, assieme ad uno sguardo che brucia per fierezza e vitalità, come volesse consumare tutto quello che rientra nel suo orizzonte visivo.
Quella stessa vibrante intensità che attraversa come una corrente sottomarina “Clair de femme”, breve romanzo o racconto lungo, un ispirato apologo dell’amore. Poco c’è da dire sulla trama del libro, se non che esso è il resoconto intenso e fosforescente di un incontro tra due solitudini, un uomo e una donna con alle spalle un passato doloroso, non ancora cicatrizzato, sulla pelle. Entrambi privi, per fatalità più che per negligenza, dei loro rispettivi partner precedenti. Entrambi con un disperato bisogno di amare qualcuno, anche se per pochi attimi, per misurarsi ancora con la parte migliore della vita. Amare per non sentirsi più come morti prima della sentenza finale, ma ancora magnificamente vulnerabili al ventaglio dei sentimenti umani.
Michel e Lydia si conoscono in seguito ad un urto accidentale che avviene su un marciapiede parigino, ricordando le atmosfere del bel film statunitense Crash. Lydia non è più giovanissima, ma la sua eleganza un po’ sfiorita e l’argento sulle tempie le conferiscono un suggello di fascino e tenerezza. Per semplice legge fisica di attrazione, per quel tacito e misterioso accordo che unisce due individui legati da un destino comune, i protagonisti non saranno in grado di allontanarsi l’uno dall’altra, in un crescendo emotivo in cui dialoghi, confessioni e riflessioni arrivano a ritrarre un mondo interiore governato da esigenze talora insostenibili.
Ma di tanti tipi di amore si tratta nel libro. C’è anche quello per gli animali, di cui si fa eroico portavoce un circense, che tanto sarebbe piaciuto a Luis Buñuel per la sua grande carica estraniante. L’italo-spagnolo Galba nutre infatti un affetto vivissimo per il suo cane, verso il quale non esita a prodigare cure amorevoli e a riversare quello che di meglio vi è nella sua malinconica natura di istrione decaduto. Alla morte improvvisa dell’animale farà seguito poco dopo quella del suo padrone, a suggello di un legame che il lutto, invece di allentare, rinsalda con vigore.
Il grande nodo del romanzo riguarda, però, il sentimento d’amore che si instaura in una coppia umana. Per Michel, amare una donna è la condizione necessaria per la sua sopravvivenza, un bisogno cellulare, corporeo, fisiologico, ancor prima che sociale e ideologico.
“Non posso farci nulla. Tu sei la mia condizione biologica. Il mio grido cellulare”
Un amore che levighi la soggettività e ogni residuo di egoismo, per rifondersi nella costituzione di una “dimensione terza”, che non comprenda i primi due pronomi personali: la coppia, appunto. In un’identificazione che ha radici letterarie profonde, basti pensare per esempio a Hikmet, amore e vita si fondono indissolubilmente, senza soluzione di continuità. In una visione di questo genere, la donna assume un’importanza quasi sacrale, assurgendo al rango di una divinità da venerare poiché in grado di trasferire energia vitale. La donna diventa l’unico vero antidoto all’autoestinzione e al battito irregolare del polso.
Così, non appena Michel intravede in Lydia la possibilità di un legame che vada oltre l’effimero, la sua vita riprende a scorrere più fiduciosa.
“Noi siamo stati felici e questo ci impone degli obblighi verso la felicità”
Queste sono le parole frequenti pronunciate dal protagonista, persuaso che la felicità non si può e non si deve coniugare solo al passato. Al contrario, essa deve essere la destinazione finale di una ricerca inesausta che è possibile compiere solo in virtù di una presenza femminile.
Una ricerca che diventa anche un atto di ribellione morale verso l’infelicità, la sventura, l’assuefazione al destino avverso. Diventa emblematica allora la figura di Sonia , suocera di Lydia, una nobile polacca la cui esistenza è stata sconvolta dall’esperienza del secondo conflitto mondiale prima e dalla deportazione nei lager nazisti dopo. Vicende che hanno fatto svanire in lei ogni aspirazione umana verso una sorte migliore, verso un destino che potesse in qualche modo presentare una sorta di compensazione in itinere. Così, ogni disgrazia viene vissuta con la pacifica ma anche passiva rassegnazione di un’esistenza che ha racchiuso innumerevoli difficoltà, nella ferma consapevolezza paradossale che si vive, per dirla con Leibniz, nel migliore dei mondi possibili.
Una concezione della vita, questa, che ha una sua tragica ma eloquente dimostrazione pratica nell’infermità del figlio della donna, il marito di Lydia, che a seguito di un grave incidente ha riportato, oltre alla morte della figlia, una grave paralisi fisica e locutoria. Il suo balbettio incomprensibile, ancor più drammatico perché frutto abortito di una mente ancora vigile, è il simbolo di una fatalità oscura, accettata però come una volontà divina dalla famiglia, e quindi da sopportare quasi di buon grado. Una concezione che Lydia in un primo momento sposa e asseconda, più per sensi di colpa che per intima convinzione, ma che poi rifiuta nettamente e perentoriamente in un dialogo con Sonia, tra i più intensi del libro:
“Ma la sentite? Una ribelle. Il peggiore degli insulti. Davvero meraviglioso. L’accettazione, la sottomissione, la rassegnazione. Andiamocene da qua, Michel. Se mai dovessi essere felice, Sonia, vi prometto che andrò in pellegrinaggio a Lourdes, per essere curata”
Ecco l’invito che emerge da ogni pagina del romanzo, e che diventa quasi un’implorazione accorata: occorre costruire dalla macerie, ricominciare sempre, anche se bersagliati da una sorte ancora più crudele perché tremendamente ingiusta. Gary dipinge qui una sorta di mitologia umana che, aliena da ogni retorica, tocca le corde dell’emozione e della verità:
“Noi crepiamo di debolezza, e questo ci permette di sperare. La debolezza ha sempre vissuto d’immaginazione. La forza non ha mai inventato nulla, perché si sa bastare. Sempre la debolezza sa mettersi in cammino verso ciò che è migliore”
Una debolezza che non conosce età, così come la speranza, così come la voglia di mettersi in gioco, di sentire sulla propria pelle il contatto con la vita:
“Non bisogna fidarsi dei capelli bianchi, della maturità, dell’esperienza, di tutto quello che si è imparato, di tutti i colpi bassi del destino, di quello che mormorano le foglie in autunno, di quello che la vita fa di noi quando si impegna… La speranza, la felicità, tutto resta intatto, sempre là, ed esige che si continui a credere”
In Michel, è la donna che garantisce la vita, l’alternarsi delle stagioni e delle maree, il flusso regolare del sangue nelle arterie, l’allineamento dei corpi celesti. L’amore è il senso ultimo della vita:
“Il senso della vita ha un gusto di labbra. Da là io mi sento nascere. Da là io provengo”
Lydia si rende ben presto conto però che l’amore che Michel immagina e vive è una forma mentis totalizzante che, pur presupponendo il contatto di due individui, rischia paradossalmente di allontanarsi dalla percezione reale dei sentimenti. L’adorazione della donna, che nell’uomo prende contorni ieratici, lascia infatti presupporre un amore di ordine divino, in cui viene meno la soggettività umana a favore di un culto quasi religiosamente sterile. Come dice Lydia:
“Quando si incontra in un uomo un tale bisogno di amare, non si sa neanche più se esiste per lui, se si è amate, o se si è solo uno strumento di culto… Bisogna che anche io viva. Non voglio entrare nella religione. Noi non abbiamo bisogno di adorazione, Michel. L’adorazione finisce sempre per esigere la santità e la santità ci ha già rovinati”
L’amore deve essere vivificato dal contatto quotidiano, in una dimensione che restituisca a chiunque lo viva quell’afflato di calore umano necessario per aderirvi. Al di là di questo, diventa pura astrazione, atteggiamento di posa, esigenza estetica ancor prima che esistenziale. E ancora, l’amore ha bisogno di non essere una àncora di salvezza, ma una scelta compiuta in una condizione di spirito equilibrata.
“Ho trascorso una notte con te, Michel. Ma adesso vado via. Parto perché tu sei ubriaco di infelicità e io non so in fin dei conti chi tu veramente sia. C’è troppa disperazione, troppa paura, in te… e in me. Così è troppo facile. Un giorno, quando non saremo più dei naufraghi, quando saremo veramente noi stessi, allora ci rivedremo, e faremo conoscenza”
La donna, le donne. Ecco la boa di sicurezza di Michel, il suo galleggiante in mare. Lydia partirà (“Lydia, parti tranquillamente. Vai il più lontano che puoi. Resta fino a quando non avrai smesso di dubitare. Vivi per qualche tempo di fermate di autobus. Non aver paura, non sarà nulla. Ti aspetterò al tuo ritorno”), e l’uomo, come protagonista di una quête medievale, incontrerà un’altra donna, cartina al tornasole della sua serenità, dispensatrice del senso del possibile. Consapevole, in fondo, “che le cose attorno a me cercavano di riprendermi nel loro corso, ma erano questioni di eternità, universo, anni-luce, e il cielo si tradiva, la sua immensità lo tradiva, perché il vero cielo è piccolo come una mano”.
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