Nadja, il presagio di un altro mondo (im)possibile
di Lorenzo Giacinto
L’intensa rievocazione di un incontro umano che ha segnato una tappa decisiva nello sviluppo del Surrealismo e il ritratto di una donna indimenticabile
Nadja non è un romanzo e non è un racconto. Non è nemmeno una prosa poetica o uno studio di alcuni aspetti della mente umana (sebbene lo stesso autore parli, a proposito del suo libro, di un’osservazione di un caso particolare). Nadja è un ponte gettato verso una direzione difficilmente percorribile, qualcosa a metà strada tra un sentore di argini spezzati e un senso provvisorio ma irripetibile di libertà. Nadja è il resoconto di un’esperienza realmente vissuta e trasfigurata in letteratura.
Siamo nella Parigi dei famosi “roaring twentis” di Fitzgerald, nel periodo in cui la capitale francese è al tempo stesso ospite generosa del genio artistico e laboratorio unico di esperienze umane e letterarie. C’è un artista che risponde al nome di André Breton, firmatario di un Manifesto del Surrealismo che scuote profondamente i modi e i contenuti del pantheon delle lettere e delle arti. E assieme a lui vi sono figure come Max Ernst, Paul Eluard, Louis Aragon, Pablo Picasso, attenti a raccogliere qualsiasi tipo di suggestione e a riversarla con effetti dirompenti sui libri o sulle tele.
E all’improvviso, in questa Parigi che Breton percorre come un flâneur d’altri tempi, appare una donna con una luce diversa negli occhi, una carica di attrazione fortissima come esercitata da una calamita nascosta sotto gli abiti. Tutto si pone subito sotto il segno di una fatalità irresistibile, così come la intendevano i latini, cioè come una concatenazione di eventi che risulta necessaria, inappellabile e al tempo stesso non modificabile. Breton non può far altro che sottomettervisi, solo limitandosi a constatare, dacché la comprensione è spesso oscura o annebbiata, ciò che gli tocca in sorte di vivere con Nadja.
Le conversazioni, le allusioni, i vagabondaggi dei due non rientrano nel giro noto della logica, non appaiono sulle mappe dei cartografi del diurno. Nadja, “perché in russo è l’inizio della parola speranza e perché è soltanto l’inizio”, pare emergere da un mondo fatto di simboli e analogie sfrenate, di metafore e immagini che rivoltano la percezione della realtà comune. Ecco perché la si può chiamare naufraga, con nello sguardo la stessa fiamma che arde in quelli che sbarcano portando segreti noti solo a loro.
Nadja così invincibile e al tempo stesso così fragile. Invincibile perché completamente al di fuori delle strette maglie della realtà, fragile poiché non v’è posto nel mondo per le anime erranti nemiche dei casellari. E infatti sotto il peso delle convenzioni sociali finirà per essere stritolata, additata come folle per non volersi riconoscere in fondo nei gesti e nei ritmi di un altro tipo di follia che l’abitudine e l’istinto di conversazione chiamano convenienza sociale.
Nadja, questo adorabile miscuglio di leggerezza e di fervore, diamante di epifanie inspiegabili, volubile come gli elementi naturali, adoratrice di statue, di foreste metropolitane e di torri isolate in castelli di altri tempi dove aspetta la rivelazione o dove lei stessa si fa rivelazione tanto è pura, libera da qualsiasi legame terrestre, tanto poco tiene, ma in maniera meravigliosa, alla vita. Stiano alla larga gli scettici, gli uccisori di meraviglie, gli amanti del focolare e dell’alternarsi compiuto delle stagioni. Nadja è per pochi, per gli assassini di bussole come direbbe Cortázar (e quanto vi è di surrealista nella Maga e nei suoi incontri con Oliveira, in quel magnifico incipit di Rayuela), o forse non è per nessuno, essendo stata troppo anche per colui che l’ha celebrata.
Nadja, che in sé contiene tutte le avventure fino a diventarne la summa, in un continuo vagabondare misterioso, al di sopra o al di sotto o al lato della realtà, oppure nel suo centro più intimo, così profondo da bruciare come un fuoco di magma terrestre.
“Dal primo all’ultimo giorno, ho considerato Nadja un genio libero, qualcosa come uno di quegli spiriti dell’aria che certe pratiche di magia consentono di legare momentaneamente a sé ma che è impensabile sottomettere”
E questo genio libero porta con sé un nuovo sguardo sul mondo:
“Ho visto i suoi occhi di felce aprirsi al mattino su un mondo […] in cui non avevo visto, fino allora, se non degli occhi che si chiudevano”
Una creatura così irripetibile ed indefinibile, così piena di una grazia dotata di artigli per tagliuzzare la realtà, ha bisogno di trovare spazio in un libro altrettanto inclassificabile, che si serve anche di fotografie di alcuni luoghi e personaggi citati, ma soprattutto dei disegni della stessa Nadja, in cui sempre ella si ritrae come una sirena che dà le spalle, in una cornice in cui sommessamente e segretamente conversano fiori e bestie e fiamme che nascono dai polsi.
Nadja, al tempo stesso promessa e nostalgia della promessa, espansiva come un delfino e sfuggente come una lucertola, nuvola irrequieta e colpo d’ala potente, emblema di libertà, di rivoluzione e d’amore, nuova sibilla parigina e cassandra oracolare che conserva il gusto del gioco e degli smarrimenti improvvisi, Nadja “tremante come una foglia”, Nadja ingessata in una camicia di forza e sbattuta in un sanatorio dove si spegne tra le cannonate del secondo conflitto mondiale, ma dopo essere stata la musa Nadja, dopo essere stata la felce Nadja, dopo essere stata il ponte Nadja, dopo essere stata, a conti fatti, tutta la ventata d’aria del Surrealismo.
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