L'ultima stella di Lisbona
di Lorenzo Giacinto
Un ritratto dello scrittore portoghese Fernando Pessoa e della città dove visse la sua breve vita
Lisbona è una città che invita al ritorno e insieme promette lunghe fughe oltre il vasto orizzonte, un tempo territorio di conquista di esploratori ambiziosi. Chi vi è stato già una volta avrà avvertito forse un dolce ma inevitabile abdicare anche a se stessi. Una sorta d’incanto, una fascinazione rara ed inspiegabile legano alcune città elette agli atomi d’ossigeno che vi si respirano. Accade che si perdono i confini tra le strade di un luogo e la propria fisicità di individuo, la mappa diventa anatomia. La città diventa chi la percorre in un preciso momento storico.
Una mattina assolata o un pomeriggio sonnolento si può decidere allora di arrampicarsi per le strade ripide della capitale portoghese, e ritrovarsi come se si venisse portati da una forza esterna in un caffè chiamato A Brasileira, dove l’immaginazione può scendere dai propri nidi d’aquila e planare tranquilla sulle tegole e le case in calce bianca che risplendono di luce. Una statua posta di fronte al locale, bersaglio di selfie rapinosi, ricorda che il più importante scrittore lusitano, Fernando Pessoa, vi aveva eletto la propria seconda dimora. Lo si immagini allora, con la sua bombetta calata su un viso refrattario agli occhi curiosi, dei timidi baffi neri triangolari a custodire timidamente la bocca, un paio di occhiali che gli danno un’aria di uno studente troppo cresciuto.
Apre il suo taccuino, e in quel gesto non c’è nulla di snobistico o comandato. Scrive. Probabilmente si sente un piccione un po’ goffo. In fin dei conti la letteratura è l’occupazione degli oziosi, un po’ di senso di colpa non guasta. Però bisogna fare i conti con una cosa che si chiama vocazione, si attacca al sangue e fa il giro del corpo, lo sapeva bene anche Flaubert. Continua a scrivere dunque, a volte smette quando qualcuno gli passa accanto. Poi ricomincia. Si trova a Lisbona, ma pensa alla sua infanzia in Sudafrica. Ecco, il destino lo ha voluto mettere di fronte agli oceani, precario sulla terraferma, mosso da un vento interiore che spira dalle profondità dei fondali oceanici. A Durban passa l’intera giovinezza: doppia diverse volte il Capo di Buona Speranza, studia l’inglese e i classici della letteratura, avverte il richiamo di casa dall’altra parte dell’Equatore.
Ad eccezione di questa parentesi in Africa, la biografia di Pessoa non registra grandi sussulti. I movimenti, le oscillazioni, gli smottamenti e le ricomposizioni sono tutte interiori. In fin dei conti qualsiasi biografia è un violare le imposte chiuse, un indovinare quello che succede nell’intimità nella penombra. I sismografi, però, testimoniano quello che si produce nelle viscere della terra, non quello che vi accade in superficie.
« Se dopo la mia morte volessero scrivere la mia biografia,
non c'è niente di più semplice.
Ci sono solo due date – quella della mia nascita e quella della mia morte.
Tutti i giorni fra l'una e l'altra sono miei. »
Lasciamo inviolata all’uomo la sua gelosa navigazione nelle acque avventurose dell’esistenza.
Torniamo a Fernando, al suo pomeriggio speso al caffè, mentre la luce di Lisbona si sposa con l’azzurro del Tago. Scrive ancora, soprattutto poesie. Sono tante, molte delle quali disperse, disseminate come arcipelaghi su fogli di carta, riviste, lettere. Il genio tiene poco a se stesso, ecco un’altra verità da almanacco. Ordina una, due, tre, chissà quante Ginjinha, il liquore dolciastro alla ciliegia. Forse l’accompagna con un buon pastel de nata aromatizzato alla cannella. In quel momento nella Sé, la cattedrale della città, suonano svogliate le campane, disperdendo nugoli di gabbiani nell’aria.
Fernando non è sposato, vive di innamoramenti estetici e fulminee rivelazioni. Non sa cosa sia la passione carnale, forse non lo saprà mai. Più dei corpi avvinghiati lo interessa il puro sentimento d’amore.
Quel pomeriggio non si firma come Fernando Pessoa. Alla fine di un foglio stiracchiato, dove minuscola si stende la sua scrittura simile ad una colonna di formiche, si legge Ricardo Reis.
La data riporta il 2 luglio del 1930. Con un po’ di invadenza, avvicinandosi a quel pezzo di carta che è diventato depositario di un cielo azzurro e insieme di una vita troppo breve, si legge:
“Quel che sentiamo, non quel che è sentito,
è quel che abbiamo. Certo, l’inverno stringe,
Come destino accogliamolo.
Ci sia inverno sulla terra, non nella mente,
e, amore ad amore, o libro a libro, amiamo
il nostro fuoco breve”
Ecco avanzare l’oraziano Fernando, l’invito a godere quanto più possibile ciò che la vita ci concede in maniera effimera. Non si abbia paura del fuoco, non si abbia timore della fiamma che lambisce i polpastrelli, pare dirci l’ultima coppia di versi. E una donna non nominata, Lidia, che sarà l’interlocutrice di tante altre poesie, diventa l’immagine che convoglia un amore per la vita non strozzato da ansie metafisiche o religiose. Ma sì, che tuoni pure Giove nei cieli coperti, nelle vette insuperabili e inaccessibili, che lapidi pure Nettuno con le onde le spiagge levigate e le ripide scogliere: bisogna ignorare, cara Lidia, ciò che non parla la lingua degli amanti.
A che serve scalare l’Himalaya, se si addomestica la vita in un giardino moresco di Lisbona. Ad altri lidi e ad altre latitudini s’ingorghino le nuvole pesanti: qui la leggerezza a volte sembra essere una docile promessa. Libertà, s’affanna a dire Fernando, che per un gioco di dadi il 2 luglio del 1930 è Ricardo, libertà anche a costo dell’amore:
“Non voglio, Cloe, l’amore tuo, che opprime
e amore esige. Voglio esser libero.
La speranza è un dovere del sentimento.”
Si dice che la letteratura è vita che non basta a se stessa. Vita che esce dai canali, dagli argini, che rompe le dighe e spezza i bastoncini dello shangai. Quale miglior argomento allora per spiegare gli eteronimi di Fernando Pessoa? Ricardo Reis, Bernardo Soares, Alvaro de Campos, Alberto Caeiro, ognuno con una propria biografia inventata, ognuno con la sua bibliografia ragionata, ognuno con il proprio lasciapassare per il mondo.
Solo dopo la morte di Pessoa si verrà a sapere che tutti quei personaggi erano nati da una sola penna, da una sola multiforme sensibilità in grado di misurarsi camaleonticamente con la complessità della vita. Il Pessoa romantico, il Pessoa lucido pessimista, il Pessoa avventuriero e funambolo che tutto ha visto e sentito: uomo nel quale si agitano e si sciolgono le contraddizioni, dentro cui tutte le città rumoreggiano e tutte le onde crepitano. Troppa vita, caro Fernando, per una persona sola. Troppo da dire, da fare, da immaginare, da avvertire, troppo peso su quel fegato che ti darà la morte a soli 47 anni, approdo finale di un’ode incompiuta.
Ma quel termine è lontano ancora, lontano quanto possono esserlo 5 lunghi anni. Pessoa è ancora seduto alla A Brasileira, come quasi fa tutti i giorni. Il pomeriggio diventa sera, già le acque del Tago si indorano, i panni stesi nelle ore più calde svolazzano tra i palazzi dell’Alfama, più ad Est. Pochi giorni prima ha rinunciato a vedere una sua ammiratrice, una poetessa in trasferta a Lisbona, perché l’oroscopo di quel giorno lo sconsigliava. Le ha fatto recapitare nella stanza d’albergo la copia di un suo libro e un biglietto di scuse. Anche questo è Fernando Pessoa.
Si alza all’improvviso, raccoglie le sue cose, saluta in un portoghese non più sobrio i volti noti e si avvia verso la Baixa, il quartiere di Lisbona ricostruito interamente dopo il terremoto devastante del 1755. Là, dove si apre imponente la Praça do Comercio, gli sembra di rifiatare alla vista dell’azzurro. Davanti a sé il fiume, ma i portoghesi lo chiamano mar, questi indomabili sognatori.
Gli giunge all’orecchio lo svagato sferragliare del tram 28 che come una serpe sinuosa scala i colli di Lisbona, ma sono le navi attraccate al molo poco distante che catturano la sua attenzione.
Subito il senso dell’avventura, l’attrazione innata tutta portoghese per le mappe e i viaggi, si fanno strada impetuosi nel suo animo dove il sentimento casalingo non ha mai dissipato quella sete ancestrale dell’altrove, quella giostra inesausta di derive e approdi e ripartenze. Diventa allora Alvaro de Campos, l’ingegnere futurista che ha fatto della sua vita un inesauribile viaggio. Alvaro è emblema dell’uomo che vuole diventare il compendio di tutte le passioni e di tutte le esperienze dell’esistenza. Egli è vissuto in tutte le città, ha solcato tutti i mari conosciuti, si è accompagnato con principi e puttane, saltimbanchi e intellettuali, ha sofferto e gioito ad un tempo, offrendo il suo corpo come un campo di battaglia nel quale tutti gli scontri sono avvenuti con fragorose perdite e vittorie. E infine, amara, la capitolazione finale:
“Ah non poter essere io tutta la gente e tutti i luoghi”.
Di nuovo allora sale l’invocazione, simile all’Invitation au voyage di Baudelaire:
“Viaggiare! Perdere paesi!
Essere altro costantemente,
non avere radici, per l'anima,
da vivere soltanto di vedere!
Neanche a me appartenere!
Andare avanti, andare dietro
l'assenza di avere un fine,
e l'ansia di conseguirlo!
Viaggiare così è viaggio.”
Così forse medita Fernando Pessoa, mentre torna con le ultime luci verso la parte alta della città. Dall’oceano giunge una brezza che porterà pioggia all’alba, e forse per pochi giorni. A Lisbona piove sempre troppo o troppo poco. Prima però una deviazione verso la sobria chiesa della Graça. Là esiste ancora un miradouro, uno dei tanti belvedere della città, forse uno dei più belli. A destra, imponente e solitario, si vede il castello di São Jorge. Intorno i tetti dell’Alfama evocano atmosfere arabe. Un ultimo sguardo sulla città prima del congedo. Di fronte il bianco delle case si scioglie come zucchero filato nell’azzurro del Tago.
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