Rainer Maria Rilke e Marina Cvetaeva, l'epistolario


 

La testimonianza di un’appassionata storia sentimentale vissuta con indimenticabile poesia tra due grandi poeti

giacintoChi non ha mai avvertito, custodendo tra le mani l’epistolario di uno scrittore prediletto, quella sensazione netta di aver come oltrepassato i limiti dell’umana discrezione? Colpevoli di aver avuto accesso senza merito a un altare di sacra e inviolata intimità, ci sentiamo frastornati e financo rei di una forma di impudicizia che solo l’ammirazione verso il genio può risanare.

Eppure, leggere il breve ma intenso scambio di lettere fiorito tra Rainer Maria Rilke e Marina Cvetaeva emenda qualsiasi traccia di voyeurismo intellettuale e restituisce allo stesso tempo ai vertici della letteratura quello che doveva essere documento privato, diamante prezioso annidato tra incartamenti, manoscritti e castelli di carta.

Siamo nel 1926. Due angeli in esilio si trovano grazie all’intermediazione di un altro grande nome, Boris Pasternak. Rilke si trova in Svizzera, dove decide di trattenersi alla fine di lunghi peregrinazioni europee. Marina Cvetaeva scrive le sue lettere da Parigi, città in cui il destino la confina pur continuando sempre a soffiarle come vento la nostalgia delle vaste lande russe. I due non si incontreranno mai, mai potranno sottoporre alla prova degli sguardi congiunti il legame che sembra unirli nella letteratura.

Pasternak consegna a Marina alcuni libri del poeta praghese, in un pigro pomeriggio parigino. E di colpo quel giorno sembra avere lo slancio del volo di un aquila nel cielo alto. Non esistono più esilio, malinconia, separazioni e promesse tardive. Il miracolo riesce a compiersi sull’unico terreno dove possa rendersi possibile: quello della letteratura. L’accostamento alle opere di Rilke è folgorante, unico, irripetibile. Provate pure a mettere un sismografo per misurare la sensibilità di una donna al sisma provocato da uno scrittore amato oltremisura. Non tutti gli innamoramenti avvengono ai tavoli dei caffè, sotto la luce dei lampioni notturni, tra i tailleur e gli abiti ingessati, vicino ai grandi fiumi delle città europee. Ve ne sono altri, più rari ma non meno potenti, che viaggiano su frequenze invisibili, scorrono tra le correnti sotterranee, apprendono il linguaggio muto dei venti e delle stagioni. Quello di Marina per Rainer attraversa la Senna, vola tra i tetti azzurri di Parigi, plana verso sud incurante di confini, valichi alpini, corrispondenze postali, giri di orologio. Arriva in una valle svizzera, infine, non per questo meno impetuoso, tra le mani delicate di un altro poeta.

Tra la slava irrequieta e il praghese viaggiatore brucia un amore di stampo provenzale: come due trovatori moderni conferiscono al loro sentimento il marchio della distanza. Quello della donna vive e respira tra i condomini, i boulevard e i salotti parigini, ma si sente che ha alle spalle tutta la maestosità della pianura e il soffio irrequieto dei venti siberiani:

Ulula un treno. I treni sono i lupi, i lupi sono la Russia. Non è un treno, è tutta la Russia che ulula verso di te.

Quello più pacato del poeta si accende nella calma della vegetazione svizzera, ma in filigrana sono visibili tante mappe geografiche interiori che affiorano:

L’atlante è stato aperto (la geografia per me non è una scienza, ma un insieme di rapporti che subito metto in pratica) e Tu sei già segnata, Marina, nella carta del mio intimo: in qualche posto tra Mosca e Toledo ho fatto spazio perché il Tuo oceano v’irrompesse.

Marina è una poetessa, tigre della natura e al tempo stesso di invincibile sensibilità. Una sorta di Sylvia Plath russa costretta a mille peregrinazioni e privazioni, madre di famiglia e allo stesso tempo un indomabile orgoglio di artista. Non è una donna facile, lo confessa pure lei. Vive di rapporti esclusivi, sconquassi dell’anima e del sangue, terremoti indotti. Rigorosa con se stessa e nei rapporti gli altri, fa parte di quella schiera di scrittrici che non possono fare a meno di vivere quello che scrivono:

Io sono così, Rainer, ogni mio rapporto con una persona è un’isola, e sempre un’isola completamente sprofondata. Dell’altra persona mi appartiene la fronte e un po’ del petto, il cuore lo cedo facilmente. Il petto non lo cedo. A me serve una volta sonora, il battito del cuore è sordo.

Come si fa a non percepire la grande vibrazione interiore di una donna simile? Ripetutamente chiede a Rilke un luogo per incontrarsi, uno che sia nuovo per entrambi. Una città, un ponte, l’ombra di una guglia, una collina orlata da un fiume tranquillo: un luogo che sia sconosciuto, non ricollegabile ad altri episodi del passato, che appartenga alla topografia interiore del nuovo, del diverso, del miracoloso. Non si incontreranno mai. Il poeta forse sente già nel suo sangue la fiamma gelida della leucemia che gli toglierà la vita qualche mese dopo.

Rainer Maria Rilke, il poeta degli angeli sul ponte San Carlo, l’ammiratore intimo di Rodin, l’ultimo poeta aristocratico dalla fronte bagnata di rugiada. Epigono di una vocazione che era assieme anche destino, scelto e subito, sofferto e voluto, al quale si sentiva di appartenere con la totalità dei sensi. Si racconta, Rainer, attraverso l’epistolario, racconta molto di se stesso con estrema eleganza, senza affettazione alcuna. Cercava la solitudine per poter meglio cogliere la voce lontana e segreta degli uomini. Risonanze segrete, echi misteriosi, sinergie oscure e rivelatrici: là dove il rumore della vita arriva più tenue e sfumato l’aria si fa più pulita, la sensibilità si raffina.

Ecco, la ricerca di una solitudine totale in cui però germoglia il fiore misterioso dell’umanità: è in questa curva del sentimento che avviene l’incontro con l’irrequieta, dolce e imperiosa Marina. Donna dell’esclusivo, del “sì o no” a tutti i costi. Al diavolo le mezze misure, i compromessi che sanno di moderazione, le dighe di morigeratezza: se anche ad alta quota manca l’aria, non è altrove che si possono guardare gli dei in faccia. Una poetessa che vive di squarci e di vera e propria compromissione fisica con la poesia:

Per tutta la vita, Rainer, io mi sono data nei versi, a tutti. Anche ai poeti. Ma ho sempre dato troppo, il tono della mia voce ha sempre superato ogni possibile risposta. La risposta se ne impauriva. Io le sottraevo in anticipo tutta l’eco.

Ma Rilke, che non è poeta comune o volgare, accoglie nella sua grotta l’eco unico della voce della russa: ecco la famosa volta sonora che risuona di suggestioni. Dall’isolamento svizzero lui le scrive un componimento, lo intitola con sobrietà Elegia, lo dedica a Marina e lo spedisce nella lettera che dovrà affrontare il tepore dei primi caldi di giugno.

Sublimazione della lirica, sublimazione del sentimento amoroso. C’è anche altro, però, qualcosa che forse supera e sormonta tutto il resto, e riequilibra le distanze e le dimensioni: la poesia stessa. Ne vivono spietatamente e appassionatamente i due protagonisti del carteggio, simili a due vampiri irrequieti. E Rilke stesso diventa, ancor prima che artista adorato, l’emblema stesso della lirica. Marina lo paragona più volte ad una montagna, maestosa ed imperturbabile nella sua costituzione fisica, una montagna fatta di vette insuperabili e vallate nascoste, di rocce e vegetazione, di aperture improvvise ed antri invisibili, di millenni in cui le lave della terra si rimescolavano furiose nelle sue viscere.

Ecco perché l’intero epistolario, ancor prima di essere resoconto stupito e stupefacente di una storia sentimentale unica nella sua natura, è anche e soprattutto un accorato inno di amore e di appartenenza verso la poesia. Non una semplice posa, però, né una dichiarazione programmatica d’intenti, ma un’insondabile ed insopprimibile vocazione che è insieme destino.

Nel breve componimento che Rilke manda a Marina si legge, più o meno verso la fine, una frase che diviene una sorta di cammeo:

Gli amanti, Marina, non dovrebbero, non devono sapere così tanto del declino. Devono essere come nuovi.

Forse in queste parole vi è un’evidente allusione alla malattia che già aveva colpito Rilke e di cui mai farà cenno alla poetessa. Lascerà solamente, all’improvviso, lettere senza risposte, silenzi durante i quali l’edera si arrampica sulle colonne e il muschio inumidisce i capitelli, mentre le stagioni fanno il loro immutabile corso.

Lorenzo Giacinto -

Romano, ma con spiccata propensione al cosmopolitismo. Laterale, eversivo, surrealista, ironico ed autoironico. Amante dei fuochi fatui e, come Lamartine e Loti, smodatamente attratto dall'Oriente. Gli piacciono tanto i dipinti di Modigliani, i film della Nouvelle Vague, i tramonti di Istanbul.

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