Altrove, fuori dal tempo
di Lorenzo Giacinto
Da sempre, Milan Kundera ci affascina con i suoi libri che ci trascinano fuori dai confini dell'ordinario, per incontrare le sottili dimensioni dell'essere. Così accade anche con "L'immortalità", il suo ultimo romanzo in cui le dimensioni temporali si dilatano fino a svanire...
“Con una certa parte del nostro essere viviamo tutti fuori dal tempo”
Sotto quale comune denominatore, a quale ascendente particolare si possono ascrivere eventi, immagini e personaggi, tra loro così diversi come due falliti tentativi di suicidio, un dottore strampalato con il passatempo puramente ludico di bucare le gomme delle macchine, le avventure erotiche di un uomo con il soprannome di un celebre pittore, gli occhiali scuri di una donna, le evasioni ideali di sua sorella verso la Svizzera? In quale altro libro Goethe ed Hemingway, in un aldilà nel quale ogni innamorato della letteratura sognerebbe di andare, passeggiano a braccetto conversando amabilmente di questioni legate alla fama, all’immortalità, alla manomissione di biografie di geni letterari ad uso e consumo dei contemporanei e dei posteri?
Domande che sembrano essere scivolose incursioni nel nonsense o in una nebulosa semantica in districabile come una tela di ragno, ma che prendono un senso e una direzione inconfondibili nel mondo kunderiano. L’immortalità, l’ultimo romanzo scritto in ceco dal grande scrittore poi naturalizzato francese, racconta ciò che di noi, creature legate all’effimero, resta o potrebbe restare inciso nell’orizzonte più vasto dei tempi, nel respiro atemporale del pianeta. Partendo dai gesti dunque, ai quali in maniera presuntuosa attacchiamo la nostra irripetibile individualità. Da uno di quei gesti, una mano alzata in segno di saluto, nasce il racconto di Kundera. Ma siamo veramente padroni di quello che facciamo? Siamo veramente noi ad essere pienamente consapevoli delle azioni che compiamo, delle movenze che assumiamo, delle pose che prendiamo durante la nostra esistenza? Sono queste le domande che subito inchiodano il lettore, con quella inconfondibile carica seducente e al tempo stesso eversiva, timbro caratteristico dello scrittore boemo. E la risposta che egli sembra suggerirci, perché mai essa ci viene imposta con una patente di ufficialità o di arrogante verità dogmatica, è che siamo noi piuttosto ad essere usati da quello che pretendiamo di essere il riflesso più autentico della nostra soggettività di essere umani. Verrebbero in mente, per chi ha conoscenze di letteratura italiana delle origini, gli spiritelli di quel grande poeta che era il Cavalcanti, i quali, simili a dei fantasmi, infestavano la mente e i cuori delle persone, lasciando le membra pervase da una inquieta febbre dello spirito. E forse è questa la realtà della vicenda umana : ognuno di noi ripete inconsapevolmente i gesti che altri hanno già compiuto, anticipa quello che altri faranno a posteriori.
Ma non per questo la compassione che s’accompagna ai personaggi del libro viene meno, non per questo l’empatia malinconica verso l’umanità trascolora nel più bieco cinismo indifferente e sprezzante. Agnes, ad esempio, apre e chiude il libro conferendogli una nota di estrema poesia e delicatezza. La vediamo durante la narrazione, mentre smarrita e spaventata contempla la sua corporeità allo specchio, quasi a voler sfidare pudicamente quella irrevocabile condanna alla gravità, alla pesantezza dei corpi, ricercando una promessa di leggerezza altrove, in quella amena vallata in Svizzera che tanto ama e che la condurrà poi inaspettatamente alla morte. E sua sorella Laura, che invece fa della fisicità il suo totem esistenziale, il suo cavallo di battaglia.
Due modi di stare al mondo, due modi di attraversare il campo elettromagnetico delle passioni, due modi di affrontare le tempeste della vita : Agnes preferisce essere sballottata nella stiva, Laura si erge a prua accettando il confronto serrato con i colpi duri dell’esistenza. Sotto gli occhiali da sole che celano gli occhi di Laura, si agita una donna che sposa i sentimenti che schiantano, le relazioni che consumano, i moti interiori che diventano sussulti corporei, trasformandosi in materia, seni, ventri, mani che cercano l’incontro folgorante. Agnes sceglie di abdicare agli sconvolgimenti dello spirito e della carne, getta in terra durante un litigio furioso con la sorella gli occhiali da sole di Laura, come se essi fossero manifestazione concreta del groviglio superficiale delle passioni umane, cerca infine rifugio nel grembo di una casa lontana dal cerchio magico di una routine avversata ma al tempo stesso amata, scontrandosi con un destino ineluttabile, emblema della pura casualità.
Laura invece, così prorompente, voluminosa, così attaccata al guscio vibrante del corpo, così strenuamente attenta alla sensorialità del mondo e a difenderla contro qualsiasi cosa. Laura che vive ogni evento con un’emozionalità su cui sembra agire un bisturi affilato. Laura che esige di lasciare sul suo fisico le tracce di ogni schiaffo della vita, per esibirle poi fiera come se la sua pelle fosse un racconto tormentato senza voce, ma autenticamente dolente. Certo, c’è della teatralità in questo comportamento portato alle estreme conseguenze, e forse anche un tasso di egocentrismo pronto a coccolare le proprie ferite come tante gemme nascoste da portare alla luce. Si può spiegare in questi termini il suo tentativo di suicidio portato avanti come una sorta di show attento ai picchi di audience. Ma è anche indubbio che v’è nel personaggio di Laura un vibrante amore per la vita che non può destare indifferenza e che suscita un forte accento di commozione.
Cosa resta di Agnes, che ne rimane della sua difficoltà a sentirsi coinvolta nelle umane vicende? Che cosa può far di lei qualcuno o qualcosa in grado di resistere agli sbalzi capricciosi della giostra , all’alternarsi inquieto delle stagioni? Rimane la forte aspirazione a lasciare le rotte battute dai venti umani, la volontà forte ma mai totalizzante di seguire sentieri solitari, la consapevolezza di scegliere e percorrere un’alternativa che proponga l’Essere come approdo definitivo, in luogo di una effimera e peregrina felicità mai raggiungibile. Quella stessa felicità che prova Paul, il marito di Agnes e ambiguo interlocutore di sua sorella Laura, nel sentire il rumore del mare durante la notte, il mormorio marino che egli accosta alle donne, e che al tempo stesso le seleziona e le isola dalla folla chiassosa, affinché possa essere solo una a rappresentare il suo oceano personale di serene correnti sottomarine.
E che dire del professor Avenarius, confidente del narratore, che si diletta a bucare le gomme delle macchine, seguendo una logica particolare in un’azione che di logico non ha nulla? Siamo di fronte a una boutade surrealista, a uno strano scherzo di gusto dadaista o uscito dalla penna eccentrica di uno Ionesco? Molto più semplicemente, Avenarius rivendica il diritto delle sue scelte, motivate o immotivate che esse possano sembrare. In un mondo dominato dalla cura morbosa dell’immagine, da una sequenza asfissiante causa-effetto che imbriglia le esistenze umane in una tela vischiosa di relazioni sociali inconsapevolmente manovrate come dei burattini, l’unica via d’uscita verso uno spiraglio di aria pura è lo sberleffo assecondato alle estreme conseguenze, lo scherzo che si erge ad abitudine sistematica, il corteggiamento prolungato e costante di quella che poi diventerà, posteriormente, la festa dell’insignificanza.
Rubens infine, protagonista del capitolo “Il quadrante”, un uomo per cui la vita si configura come il rapporto con le donne, fino al punto da sovrapporsi ad esse. Kundera, con il solito tocco di malinconia e poesia, ci regala il ritratto indimenticabile e al tempo stesso amaro di un giovane con la passione della pittura, alla quale però preferisce la relazione con l’altro sesso. Attraverso varie fasi in cui il desiderio erotico passa per vari stadi e si evolve a seconda delle circostanze della vita, Rubens cerca di appropriarsi di qualcosa che però viene sempre meno, slittando in maniera irrefrenabile verso altre donne, senza mai appuntarsi su nessuna di essa, nonostante un forte desiderio di congiungimento e di stabilità. Sospeso sempre tra il sogno di un focolare e la tentazione di provare a se stesso che è in grado di sedurre e di imporre il proprio fascino all’infinito, Rubens finirà per consumarsi nello stesso fuoco attorno al quale per tanti anni aveva danzato, attratto dallo spettacolo affascinante ma temporaneo del proprio ascendente sull’umanità femminile.
Ad intermittenza, mentre vediamo dispiegarsi nei sette capitoli del libro le vicende alternate di questi indimenticabili personaggi, vi è spazio anche per un salto temporale di più di due secoli, nella Germania di Goethe e di Weimar. Attraverso il ritratto di Bettina, giovane donna che ha lasciato nelle sue memorie la testimonianza di un rapporto esclusivo con il più grande poeta tedesco, assistiamo alla costruzione di un mito autobiografico che trasporta la donna nel mondo della posterità, sottraendola all’oblio divoratore del tempo. Bettina crede di amare lo scrittore tedesco, e forse v’è in questa ingenua consapevolezza una qualche nota di verità, ma ben presto si scopre che la donna utilizza questa passione per lasciare una traccia indelebile nella storia delle arti. Per sopravvivere al transeunte, alla precarietà della vita per soddisfare l’insopprimibile bisogno di esistere al di fuori della propria cerchia del tempo, Bettina sa che deve legarsi a Goethe, vivere nella sua ombra, in essa e grazie ad essa vivificarsi, anche a costo di mistificazioni, fraintendimenti, poderose elucubrazioni, e infine illusioni non confessabili.
Ma nemmeno i morti possono stare tranquilli. Anche in un non imprecisato aldilà, come sentiamo affiorare dalle conversazioni di Hemingway e Goethe quasi a braccetto, coloro che sono morti vengono anatomizzati di nuovo, esposti a critiche e revisioni continue. E si sa, i morti non possono parlare, non c’è difesa alcuna o requisitoria di fronte a quello che pronunciano i vivi. Ancora una volta, in un un luogo dove il tempo sembrerebbe non avere sovranità alcuna, i vivi inchiodano i morti al tempo terreno, li reintegrano a pieno titolo nei ritmi biologici della vita.
Si è detto, a proposito di questo libro, della particolare difficoltà di collocazione in un determinato genere letterario. Non è un romanzo come lo si potrebbe intendere nel senso classico della parola, poiché le categorie spazio-temporali sono rovesciate e utilizzate in maniera spiazzante da Kundera. Non è nemmeno un saggio, sebbene alcune pagine ne abbiano l’arguzia, la lucidità e il tono adatti. L’Immortalità è un’opera complessa, che al suo interno accoglie tutti questi elementi e li rielabora a proprio piacimento, conferendo loro una luce e un colore unici, inconfondibili. Nulla è mai fuori luogo, le immagini sono nitide e vagheggiate al tempo stesso, concrete e leggere insieme, sospese in un difficile equilibrio pervaso dalla malinconia e dal sorriso pacato e un po’ amaro dell’ironia. Lo sguardo di chi, come Kundera, conosce bene il mondo e chi lo abita, senza per questo però giudicare, classificare, selezionare, schierarsi da una parte piuttosto che un’altra. Si è detto anche, utilizzando una terminologia ripresa dalla musica, ambito artistico tanto caro allo scrittore boemo, che l’opera è una sinfonia, e che al suo interno ogni singolo paragrafo è un blocco polifonico, che va a concatenarsi insieme agli altri fino ad arrivare ad un’armonia musicale in cui tutto miracolosamente si tiene. Ecco, tutto si tiene. Un barlume di intermittenza, di luce che si intravede. La possibilità di quello che si può esplorare nel mondo. Forse Kundera farebbe suoi i versi di Pindaro, che anche uno scrittore come Camus pone all’inizio del suo “Il mito di Sisifo”:
“O anima mia, non aspirare alla vita immortale,
ma esaurisci il campo del possibile.”
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