Céline, fra buio e luce
di Giusy Aliperti
Viaggio al termine della notte è un'opera che non si fa dimenticare facilmente. Lascia un segno indelebile, come l'inchiostro. Lo scrittore francese traccia un puzzle allucinato in cui tutti i pezzi di scompongono fino a ritrovarsi, alla fine. Un percorso sospeso fra i mondi, che cattura il lettore, trascinandolo fino all'ultima pagina...
Lo sguardo allucinato e stravolto dell’essere umano dinanzi al secolo nuovo trova voce in Céline, figura complessa e ingestibile del Novecento letterario: è il 1932 e Viaggio al termine della notte, respinto da Gallimard su giudizio di Benjamin Crémieux e accolto poi da Denoël, si presenta con una carica di sfrontatezza e cinismo che da lì a poco avrebbe posseduto l’uomo dei decenni a venire.
Quattro sono le caratteristiche immediatamente evidenziabili nell’opera: il labile confine tra autobiografismo e verosimiglianza narrativa (talvolta riconoscibile soltanto attraverso elementi extradiegetici da parte del lettore), l’humour mordace inserito spesso nei fotogrammi più drammatici, lo scacco esistenziale apparentemente comune a Sartre e Camus - in realtà forte di un intreccio reale differente rispetto agli esistenzialisti francesi -, la coralità dell’opera che si avvale di una gamma di personaggi minori che sviluppano la propria trama parallelamente a quella di Bardamu, voce narrante e protagonista principale.
É il 1914 e Bardamu, giovane studente parigino, si trova catapultato nell’universo della Grande Guerra, inconsapevole del destino che l’attende. Nelle trincee comprende l’orrore del conflitto ma anche la propria visione della vita: nettamente antieroica, lontana dal motto ‘Dio, Patria e Famiglia’, vicina al comunissimo terrore della morte, per nulla affascinata dalla divinizzazione dello Stato che non vuole difendere a costo della vita ma da cui, anzi, con un anelito di anarchismo (tratto probante del Céline autore) rifugge per vagabondare. La prima parte del romanzo ha echi autobiografici forti (di un’autobiografia che, si badi bene, non ha valore letterario): Ferdinand Destouches che partecipò alla guerra come volontario ne riconosce immediatamente lo sconvolgimento come la follia. La scelta di arruolarsi era scaturita da una noia di fondo che a diciassette anni, come scrisse nelle note ad Herne del 1965, dovette già sembrargli senza rimedio, arginabile – secondo illusione – solo con una rigida disciplina militare. Fuggire dalla vetrata del Passage Choiseul (il solo termine Passage apre ad un’infinita gamma di possibilità letterarie antecedenti Céline, nella figura del flâneur anticipata da Baudelaire e continuata all’estremo da Breton, di cui Ferdinand inconsapevolmente sentiva gli stessi crismi e lo stesso allucinato sentimento verso la moderna costruzione della città) si realizza solo addentrandosi nella guerra nelle Fiandre. Ma è una fuga che dura meno di un anno e lascia il giovane privo di qualsiasi volontà di continuare donandogli soltanto il desiderio di trovare una via d’uscita (“chi aveva un po’ di cuore l’ha perso” borbotta nelle pagine iniziali dell’opera): nel 1915, ferito, riesce ad essere spostato in un ospedale da cui non farà più ritorno in trincea.
Inizia quindi, alla fine di una parte prima idealmente tracciata, la coralità danzante dell’opera: figure estemporanee condividono un tratto della strada del viaggio con Ferdinand. Primo fra tutti, Robinson, che in un casuale rincorrersi con Bardamu ne diviene l’alter-ego. Dall’ospedale al viaggio in America, Bardamu si fa carico di una galleria umana delle più bizzarre e insolite, senza il cui apporto, probabilmente, l’opera sarebbe stata ascrivibile alla corrente esistenzialista per l’involucro solitario e mono descrittivo che l’avrebbe attraversata. Invece Céline, la cui scrittura è in tutto e per tutto arte di raccontare il vissuto e non solo il sentito, crea e tesse la trama con tutti i puzzle mancanti per mettere sulla pagina un romanzo vero e proprio. Ritroviamo così “la piccola Lola d’America”, giunta in Europa per fare l’infermiera in guerra, primo amore di una serie di donne descritte senza freni sessuali, in un desiderio tutto corporeo e raramente teleologico.
Lola prepara e mangia frittelle, ingrassa e si dispera: nell’universo dell’ospedale il riso subentra tra le piaghe più disparate. Bardamu/Céline trova sempre modo di ridere dell’esistenza. “La comicità sorge da un allentamento dell’angoscia”[1], il riso amaro che si frappone tra una storia e l’altra, corrobora la miseria nella sua accettazione: la povertà non impedisce l’umorismo, perché ella stessa non è una condizione da cui scappare. Adattatasi a involucro, a solo mezzo per giungere al fondo della notte, per scavare nel buio del dramma di essere al mondo, si serve del riso, mediatore di una realtà raccontata a 360 gradi. Dopo Lola, è la volta della custode dell’ospedale, generosa a letto quanto nella vita. La donna in Viaggio al termine della notte è depoeticizzata, ha natura domestica. Difficile non pensare ad un’altra depoeticizzazione, quella attuata da Kafka: nel Processo, Joseph K. si aggrappa ad ogni sottana che incontra perché la donna diviene il tramite umano per la salvezza, salvezza per un peccato da espiare che l’uomo non conosce, ma che è tutto sulla terra e non in cielo. Mai in Céline tale richiamo esiste: la donna non salva, non è un angelo domestico. Di domestico ha solo la normalità con cui la si descrive, lontana dall’idealizzazione che le pesava da secoli sul capo. E le sottane a cui Bardamu si aggrappa hanno un unico richiamo: il sesso fine a se stesso. È poi la volta di Princhard con cui condivide la sorte del finto malato per sfuggire alla guerra. Ruba una scatoletta e si fa internare, divaga con Bardamu in una serie di conversazioni su un mondo alla deriva, la cui voce dei ladri al potere diviene la voce della normalità, “Lui, Princhard, non l’ho più rivisto. Aveva il vizio degli intellettuali, era inconsistente. Sapeva troppe cose ‘sto ragazzo, e quelle cose lo incasinavano”. Sopraggiungono Musyne, attricetta civettuola che spezza il cuore del giovane disertore, Bestlones, medico esaltato e patriottico, figura del giusto così come la società lo vede.
Ma la svolta arriva con la decisione di intraprendere un viaggio. Con l’Amiral-Bragueton, nave che lo porterà in Africa, il viaggio smette di essere metaforico e simbolico per diventare anche concreto, reale, compiuto. L’Africa come ennesimo luogo di fuga, come il fondo da cui non è più possibile risalire. Fort-Gono, città spettrale, è avanspettacolo dei vizi e del fallimento del colonialismo. Con la stessa velocità dell’andata, non resta che compiere il ritorno: Bardamu si imbarca per l’America che si presenta ai suoi occhi sotto il segno della verticalità dirompente (“la città che si estende tutta verso l’alto”). Il nuovo continente è menzognero: dà l’illusione di ricchezza, di poter fare, di poter arrivare. Il conforto per un sistema che non voleva un essere pensante ma un involucro ridotto a mero ingranaggio della catena di montaggio, lo trova nella dolce Molly, prostituta dal cuore tenero che abbandona per fare ritorno nel vecchio continente. Il passo è uno dei più belli:
“Per lasciarla mi ci è voluta proprio della follia, della specie più brutta e fredda. Comunque, ho difeso la mia anima fino ad oggi e se la morte, domani, venisse a prendermi, non sarei, ne sono certo, tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche anno in America.”
Bardamu è incapace di stare in qualsiasi posto troppo a lungo e fa ritorno alle origini. Conclude svogliatamente gli studi in medicina e inizia a lavorare nella profonda periferia parigina, a Rancy. Il termine della notte si fa qui verbo e carne. Se era prima rincorso ai quattro angoli del globo, Céline mostra che il fondo, il buio assoluto può essere toccato anche non spostandosi di un millimetro. Bardamu/Céline si sporca le mani con una facilità che pochi esseri umani si concedono. La periferia non ha nulla di confortante: nella sopravvivenza quotidiana che la caratterizza, colpisce prima di ogni cosa l’indifferenza del protagonista. Se il mondo va al rovescio, se l’umanità non ha tratti positivi, Bardamu non se ne dispera. Si adegua, si adagia, con rassegnatezza prosegue la propria esistenza. Un’esistenza che non vuole avere nulla di eroico, di grandioso. Non lo scoccia la mediocrità che lo circonda perché è il primo ad essere mediocre. Nel suo universo letterario, nessuno è migliore di un altro, alcuna missione salvifica viene perpetrata dal protagonista a danno/giovamento di un altro essere umano. Svolge il lavoro di medico senza tenacia, senza grinta. E da tale passività giunge l’incapacità di chiedere denaro, l’impoverimento continuo. Alla stregua dei suoi personaggi, degli esseri umani di cui riesce a scrivere con distacco (insolito per un protagonista che è anche narratore onnisciente), Bardamu è uno dei tanti che ha toccato e tocca continuamente il fondo. Senza particolare voglia di risalire, si crogiola nel solo mondo che conosce e in cui può sentirsi a posto: “Non sapevo fare la puttana. Avevano l’aria così miserabile, così puzzolente, la maggior parte dei miei clienti, che mi chiedevo sempre dove andavano a trovare i venti franchi che bisognava darmi, e se non m’avrebbero ammazzato in compenso. Ce ne avevo comunque bisogno, io, dei venti franchi. Che vergogna! Avrei mai smesso di arrossirne.” Ritorna allora la galleria umana: il piccolo Bebert che vive con la zia, gli Henrouille nella loro tranquilla villetta a schiera pagata negli anni - ritratto impietoso del mondo piccolo borghese che vuole tenersi caro quel poco che ha, abituato a trovare sempre qualcosa di cui lamentarsi -, gli inquilini che si eccitano sgridando la figlioletta, le donne alticce che mandano tutto in frantumi, la vecchia Henrouille, il trionfo della vita che se ne fotte del tempo che passa.
Il viaggio di Bardamu non è mai fatto per ripiegare su se stesso, necessita sempre di un terreno fertile e nuovo su cui poggiarsi. Così, in una notte buia e fredda, Rancy viene abbandonata con la stessa facilità di chi sa che un posto nel mondo vale quanto un altro; nel vagabondaggio, nuovi luoghi subentreranno per porre un freno alla sua sfrenata sete di conoscenza. Sfrecciano, innanzi gli occhi del lettore, Tolosa, città in cui va alla ricerca dell’amico Robinson e per ultimo, l’ospedale psichiatrico di Vigny-sur-Seine dove Céline decide di chiudere l’opera. Ad accompagnarlo Parapine e Bayton, che fungono da contraltare: se uno parla poco, l’altro, spronato dalle involontarie parole di un Bardamu professore, abbandona tutto per andare alla scoperta del mondo. Le ultime pagine dell’opera fanno evincere una certa stanchezza di composizione. La verve ritorna verso la fine: Robinson muore, vittima di quel folle modo di vivere a cui gli uomini danno il nome di amore. La città e il paesaggio sono portati via da un emblematico e prosaico rimorchiatore e anche la stessa notte col suo fondo, è gettata via, si fa spazzatura.
Notturna e poco impegnativa è la scrittura di Céline. La critica ha individuato tre livelli di stile: la parola corta, lo scritto oralizzato e la lingua scritta[2]. La forma verbale sciolta e inquieta contribuisce alla sensazione di incertezza. All’interno del testo, continuo è l’utilizzo di termini prosaici, colloquiali e volgari, di una sintassi parlata e del discorso indiretto libero.
Se l’affermazione di Carlo Bo negli anni Settanta, quella di un Viaggio, unica opera valida dopo la Recherche proustiana[3], non può essere presa come verità assoluta a fronte di un labirinto letterario sempre pronto a superarsi per sfrontatezza (complice l’apporto della spietata e novella letteratura americana), non si può negare l’unicum di Céline, spartiacque tra la poesia maledetta e la beat generation giunta poco dopo.
“È forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire”.
[1] R. Della Torre, Invito alla lettura di Céline, Milano, Mursia, 1979, p. 57
[2] J. Guenot, Céline, damné pour l’écriture, Parigi, ed. P. M., 1973
[3] C. Bo, I castelli di Céline, in “L’Europeo”, 9 luglio 1957
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