La scuola della memoria
di Giusy Aliperti
Ciro Raia nasce nel 1950 a Somma Vesuviana, paese dell’entroterra campano alle pendici del Vesuvio. Dopo la maturità classica e gli studi in Lettere intraprende la carriera dell’insegnamento. Agli anni come professore di italiano e storia, seguiranno anche svariati anni da dirigente scolastico. È autore di numerosi saggi storici, tra i quali: Napoli 1799, sulla rivoluzione partenopea, Giovanna I d'Angiò regina di Napoli, Socialisti a Napoli. Il dopoguerra tra storia e memoria. Nel 2010 giunge alla narrativa con Il Paese di Asso di Bastone, un romanzo breve o racconto lungo in cui aguzza lo sguardo sulla sua terra natìa. A seguire Dodici in Piazza, di recente pubblicazione (2015), raccolta di racconti che prende il titolo da uno degli scritti che vede la piazza come cuore pulsante di una comunità. Dall’esperienza di preside è nato Diario di un preside, racconto in forma diaristica di avvenimenti scolastici conditi con riferimenti e ricordi personali. Attualmente ha un blog personale su cui scrive di politica, scuola e svariati argomenti: http://www.ciroraia.it/, dirige la collana di narrativa L’Erica per la Polidoro Editore, è nel Consiglio direttivo dell’Istituto Campano per la storia della resistenza, dell’Antifascismo e dell’Età contemporanea “Vera Lombardi” e tiene numerosi seminari di storia in giro per l’Italia.
La sua opera sembra ricordare i romanzi degli scrittori sud americani ma senza la componente di realismo magico che le caratterizza. Ricorda anche, una certa letteratura dagli anni ‘30 ai ‘50 del Novecento da Gente in Aspromonte a Fontamara di Silone. C’è effettivamente stata una corrente, un romanzo, un filone letterario a cui ha pensato di rifarsi quando ha scritto Il paese di Asso di bastone?
Le opere letterarie citate sono effettivamente quelle – ma non uniche – della mia formazione adolescenziale-giovanile. Appartenendo a due generazioni fa, infatti, gli “svaghi” concessi – ricordo che provengo da una famiglia operaia e non avevamo neanche la televisione - erano solo quelli dei giochi in strada o della lettura. Per cui, pur tuffandomi in interminabili partite a pallone, sin da piccolo passavo molte ore a leggere. Di tutto. Il Monello, l’Intrepido, Capitan Mike, Grande Blek e, poi, ogni romanzo che riuscivo ad avere tra le mani, grazie a prestiti di amici o a copie usate di vecchie collane di letteratura, che mio padre comprava sulle bancarelle. Ed era letteratura italiana ma anche russa, francese ed americana (circolavano già abbondantemente autori come Remarque ed Hemingway). Ho introitato, perciò, dei modelli letterari, che sono stati (inconsciamente) i filoni di ispirazione.
Il (quasi) romanzo sembra evocare i ricordi della sua vita in maniera molto nitida. Sono stati scritti di recente per la stesura dell’opera oppure negli anni ha – tassello su tassello – rinfrescato e congelato la memoria, scrivendo i ricordi che aveva al fine di non perderli?
Sono ricordi scritti di recente. Invecchiando, la memoria del passato emerge più nitidamente.
Ha edulcorato alcuni personaggi, la sua figura, alcuni avvenimenti o può definire il tutto un ritratto abbastanza fedele?
No, nessuna edulcorazione. In molti, anzi, dopo la lettura, hanno ritenuto che sono stato molto duro nei confronti di mia madre. Ho cambiato, invece, qualche nome ai personaggi protagonisti del lungo racconto, specie se parenti.
Dodici in piazza segna il passaggio dal romanzo o comunque dal racconto lungo ad una raccolta di racconti. Come e perché è avvenuto tale passaggio?
Non c’è una ragione precisa. Nei miei cassetti ci sono molte storie già scritte; alcune vivono in poche pagine, altre si dipanano più a lungo. Dipende dall’estro del momento, dalla passione suscitata da un personaggio, dall’ampiezza del ricordo di un avvenimento, dalla necessità di restituire alla vita (letteraria) sentimenti, gesti, vicende individuali e/o collettive.
Quale delle due forme trova le sia più congeniale?
Sicuramente il racconto, perché richiede un esercizio di sintesi ed una capacità di presentare fatti e personaggi in poche pagine. Nel racconto c’è, secondo me, più tensione, più introspezione, più immediatezza di messaggio.
Anche in quest’opera fondamentale diventa l’arte del ricordo. Quanto è importante, in virtù anche della sua attività di storico, la capacità di non perdere il ricordo – in questo caso – oltre che individuale anche collettivo?
Mi è stato insegnato – ed ho poi insegnato – che la storia è un processo di costruzione del reale. Lo sfondo di ogni mio scritto è storico; non riesco a staccarmi dalla necessità di ragionare su dati di realtà. D’altra parte le nostre microstorie sono l’anima della Storia. Non per caso ritengo che la storia contemporanea sia essenzialmente autobiografica.
In Dodici in piazza si affina la scrittura e anche il citazionismo. Molto presente è il richiamo alla mitologia e alla letteratura greca.
Ho fatto studi classici, ho insegnato per anni materie umanistiche…non riesco a fare a meno di riferimenti alla patria della civiltà.
Il passaggio dalla casa editrice Guida alla giovane Polidoro Editore è dovuta alla crisi irreversibile in cui versa la libreria Guida?
Assolutamente no. Gli editori offrono occasioni e contratti. Da ultimo con Alessandro Polidoro è nata una proficua collaborazione, che mi vede non solo nelle vesti di autore ma anche in quelle di direttore di collana della narrativa e della saggistica. Sono riconoscente a Guida e lo sono anche a Pironti, a Dante&Descartes, a Simone, a Lacaita, che hanno pubblicato alcuni miei saggi insieme a Mursia e ai Fratelli Ferraro che, invece, hanno pubblicato testi scolastici da me curati.
In quest’opera ha citato spesso la precedente. Era un modo per darsi una continuità o un vezzo da scrittore?
Nessun vezzo. Era una necessità per completare un ricordo e dare più forza alla memoria. Sì, una sorta di continuità.
Sono stati citati tanti libri fondamentali per la sua infanzia e/o crescita, ma non ci ha svelato qual è il suo romanzo preferito, se ne ha uno.
Ne ho più di uno. Ma sopra tutti c’è Il Gattopardo.
Come il je proustiano – per citare un io “ingombrante” – il suo io è sempre presente nelle opere che scrive. L’arte del narrare si mischia con l’autobiografismo. Come mai la scelta di non defilarsi anche laddove il racconto o comunque l’accaduto non si riferiva a lei personalmente?
Racconto ciò che ho vissuto, ciò che ho visto; non scrivo di fantasia tranne che in parte del racconto Fantasmagorie. Ed allora mi viene naturale scrivere “io”.
La conclusione dell’ultimo racconto di Dodici in Piazza mi ha ricordato la fine del Gattopardo da lei tanto amato (confesso, è anche uno dei miei romanzi preferiti) per quel senso di fugacità della morte che per qualche istante sembra divenire cosa concreta. È una mia impressione, o c’è stato effettivamente un (inconscio) richiamo, un’inconsapevole ispirazione?
Direi consapevole ispirazione. Ma credo che il senso di fugacità della vita e di presenza della morte sia presente in ogni pagina. Perché? Perché – utilizzo il finale di un mio racconto (Sogno) – “Bisogna essere ponderati e razionali, ma che sofferenza… Sarebbe più semplice vivere sempre in una camera di consiglio, in un libro, in un film o in un sogno… ma la vita (purtroppo o per fortuna) è molto di più”.
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