Sincronie tra morte e vita: menzogne e tempo nel maestro Bufalino


 

imgMemoria e morte, memoria e tempo: la scrittura barocca di Gesualdo Bufalino, scoperta tardiva della letteratura italiana, affonda il suo fulcro nel cuore di un’esistenza vista sempre come evanescenza e fuga dalla vita. Una fuga dalla vita a cui risponde con la scrittura. Nell’ossessione inevitabile per la morte (sentita ancora di più per un siciliano, dirà Bufalino) scrivere si pone come capacità di testimoniare quel che è stato. Ma non una testimonianza politica o sociale, una testimonianza esistenziale. Quel che si è, è frutto ed innesto di ricordi che solo la scrittura può suggellare e fissare.

Così Diceria dell’untore nasce e così in uno strappo alla regola dalla scrittura come intimità diviene un caso letterario: siamo nel 1981 e maestro Bufalino ha sessantun anni. Un esordio tardivo voluto dall’editrice Elvira Sellerio e da Leonardo Sciascia che tirano letteralmente dal suo cassetto un romanzo tenuto a lungo nascosto, maneggiato, riletto con febbrile ed eccessiva dovizia di particolari ma mai pronto al pubblico.

“La scrittura mi serve come medicina, come luogo di confessione, come possibilità di dialogo con me stesso. […] Io scrivevo e scrivo per questo: la pubblicazione introduceva, avrebbe introdotto ed ha introdotto, un elemento di disturbo che ha le sue gratificazioni, è inutile negarlo, ma nello stesso tempo uccide o mortifica quella purezza di monologo di un me stesso davanti allo specchio.”[1]

A cullare il rapporto elitario tra scrittura e intimità ci pensa Comiso, paese dell’entroterra ragusano da cui Bufalino non si allontanerà mai.

Diceria dell’untore è un romanzo sostanzialmente atipico per la coscienza novecentesca perché poggia il proprio contenuto su una forma arcaica, barocca, perché si pone quindi come un voler tornare all’indietro, un retrocedere che poggia le sue basi sull’unicum letterario che è sempre e ancora la letteratura siciliana. L’autoreferenzialità narrativa degli scrittori siciliani resta tale anche nel novecento ed anzi il barocchismo di Bufalino ne è la dimostrazione. La Sicilia, prima ancora che il mondo, è il perno e il punto di riferimento per ogni suo scrittore. E pure se la scrittura è il modo per fermare lo scorrere del tempo non è però mai il modo per fuggire dalla propria terra. Sicilianità come sentire la morte in maniera continua e assidua, sicilianità come intralcio per il mondo esterno, sicilianità come sole cocente, come caldo asfissiante, come lotta continua per sopravvivere a tutto questo. Lo stesso Gattopardo, altro caso editoriale insolito nostrano, si attesta su un simile fondamento: la morte incombente e l’impossibilità di vivere e agire a pieno quando intorno a sé il paesaggio è così rovente da far smettere di pensare. Bufalino lo sa e non rifiuta tale innegabile rapporto con la sua terra: Diceria dell’untore, il suo primo figlio, vezzeggiato e gelosamente custodito, ne è l’insindacabile prova; le tematiche ci sono tutte, lo stile pure.

Il protagonista è un giovane reduce di guerra, rinchiuso nel sanatorio Conca d’oro (lo scenario è quello di una Palermo malridotta dopo la guerra): un claudicante scheletro, ingombro del corpo e del vizio di vivere che incontrerà figure emblematiche altrettanto. Morte, il sentimento della morte, come ossessione, come continuo tendere o continua fuga è il perno di questo romanzo. “Il senso della morte è profondo nelle cose che scrivo, così come è interrottamente presente nella mia coscienza”[2]. Morte del singolo come unica cosa che conta, che merita di essere raccontata. Il singolo si erge a monumento: la sua vita e la sua dipartita sono le uniche realtà che importano nel torrente e costantemente soleggiato paesaggio siculo.

“Era veramente divenuto un gioco, alla Rocca, volere o disvolere morire, in quell’estate del quarantasei, nella camera sette bis, dove ero giunto da molto lontano, con un lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo, dopo essermi trascinata dietro di stazione in stazione, con le dita aggrinchite sul ferro della maniglia, una cassetta militare, minuscola bara d’abete per i miei vent’anni dai garretti recisi.”[3] Così Marta, la donna amata ha in sé tutte le stigmate della sofferenza bufaliniana. Morente, claudicante, funerea, egocentrica come la terra che la ospita, fa innamorare il protagonista; quel che le importa nella consapevolezza latente di esistere è solo la sua caduta (la storia del singolo per Bufalino è nettamente superiore a quella dell’universale, nell’ossessiva centralità di descrivere dell’uomo e della scoperta del dolore nella vita dell’individuo). Marta è magrissima, infelice, portatrice di ricordi continui sulla persona brillante che era stata (mai si capisce in Bufalino se i suoi personaggi raccontino verità o menzogne). Così come il capo del riformatorio, altro singolare personaggio, il Gran Magro, anch’egli malato, compagno di racconti e libri col protagonista.

Quel che interessa di questo romanzo è la guarigione sentita come colpa e diserzione, lo stare vivi in un mondo che barcolla. Il sentore e il puzzo della guerra inconsciamente affondano nell’animo dei protagonisti ma non svelano quel che è stato semmai quel che sarà. La coscienza fugace di non essere mai troppo vivi o vivi abbastanza. E in quell’essere vivi appena la colpa, terribile, di esserlo a discapito di altri. Il peso cristiano cruciale ed inevitabile del corpo come flagello, come limite per l’anima. “Andare fra la gente, giù in città, portarsi addosso il cencio del corpo, questa somma insufficiente di lena e di sangue, in mezzo ai sani della strada, atletici, puliti, immortali…”[4] Il limite umano in Bufalino è sopportato e raccontato in un periodo in cui la letteratura italiana si occupava di altro, in cui vi erano le memorie di guerra, i romanzi neorealisti, la poetica del frammento.

Perché diceria, perché untore? Diceria come nuga, come bazzecola, come qualcosa di raccontato ma non per forza reale, come sentito dire. E’ reale quel che si racconta? O è frutto di un innesto di sogni, di vaghi ricordi, di un passato alterato? Bufalino non confermerà mai, né smentirà: la scrittura è sempre memoria anche quando è invenzione, dirà in un’intervista. E allora l’invenzione, la diceria, ha lo stesso valore della realtà. Ne è testimonianza il terzo romanzo dell’autore di Comiso, Le menzogne della notte, opera metastorica: quattro protagonisti ai tempi della rivoluzione liberale in un’isola penitenziaria, intrecciano le proprie vite raccontandosele come espediente illusorio per ritardare la morte (inevitabile il rimando a Sharhazad delle Mille e una notte, figura amata da Bufalino). Ma ognuno di essi confonde volontariamente la realtà con la fantasia e ordisce menzogne contro l’altro. La struttura metateatrale contribuisce ad enfatizzare la sensazione della bugia, del non detto, del possibile e mai certo che è nelle opere di Bufalino.

“Un colpo di dadi non abolirà mai il caso” verseggiava Mallarmè. “Comunque vada la nostra partita con la vita finirà zero a zero”[5], tuoneggiava Bufalino, francesista convinto. Gli scarabocchi, i giochi, i calemobours: l’attestazione aulica di Bufalino che la vita dell’uomo avesse in qualche modo già perso, che fosse stata già sconfitta. Che il ticchettio della morte avesse in fondo già vinto. Ma che si potesse in qualche modo lasciar memoria di sé, del sé che si è stati ma anche del sé che si è sognati di essere.

 

[1] Conversazione con Sergio Palumbo, pubblicata, in parte, su Gazzetta del Sud nel 1985.

[2] Ibidem

[3] G. Bufalino, Diceria dell’untore, Milano, Bompiani, 2014, p. 8

[4] Ivi, p. 25

[5] Cit. da Il Maplensante

 

Giusy Aliperti -

Ho 25 anni, sono nata e vivo in provincia di Napoli e sono laureata in Filologia Moderna, alla Federico II. Amo leggere, scrivere racconti che non porto mai a termine, mi interessa la politica, il cinema e la letteratura. Insegno italiano agli stranieri, lavoro che mi permette di conoscere culture e modi di vivere per i quali forse una vita intera non basterebbe. Sogno un futuro tra l'insegnamento, la ricerca e la scrittura, un personale Paradiso sulla terra insomma! Sono un'aspirante precaria e un'appassionata lettrice tendente ad una certa pigrizia che provo a nascondere abbastanza bene. Spero in un futuro prossimo di poter vivere viaggiando per il mondo senza mai acquietare il mio spirito romantico.Ma in fondo, l'unica vera definizione che so dare di me, è questa: ancora in fieri.

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