La Fosca di Tarchetti, tra delirio e caduta
di Marina Brunetti
Fosca è esempio compiuto del disperato tentativo, da parte di una creatura reietta, di attirare su di sé l'attenzione, è romanzo che ruota intorno all'amore implorato, preteso, anche a costo di diventare persecutorio e forzato: occhi e capelli che ammaliano, a dispetto di una matrigna Natura.
Nessun viso è brutto se i suoi tratti esprimono
la capacità di una vera passione
e l’incapacità di una menzogna.
(Arthur Schnitzler)
In quel gesto, frequente in età adulta, che ci spinge a tirar su l’acqua dal pozzo dei ricordi, abbiamo a volte la fortuna di scorgere noi stessi e un libro, la cui intima essenza allora ci sfuggiva, vuoi per mancanza d’esperienza diretta, vuoi per fase vitale differente. Anni dopo, la chiave di lettura ignota ci viene sussurrata dalle affinità che in parte vi captiamo, dall’inverosimiglianza con la realtà che ci circonda, dall’indulgenza per le umane miserie che ignoravamo d’avere. Il cinismo resta, in questo clima di dolore, ma rimane a noi attaccato come nera pece il senso, da taluni vagheggiato, dell’amore ideale, quel nero assoluto, come il nero deciso dei corvini capelli di Fosca, il colore del delirio senza più ritorno. Andare a ricercare l’amore di Fosca così totalizzante, dilagante, mortifero ed estraneo ai chiaroscuri, è un atto rivoluzionario: l’abnegazione a un uomo come unico mezzo d’amore percepito, simile a quello che muoveva la Sagan quando diceva di aver amato fino alla follia, ma quello che gli altri chiamavano follia, per lei, era l’unico modo di amare.
La Fosca di Tarchetti incarna appieno il fascino della creatura appassionata, volubile e incostante, trascinante e fatale, più demonio che angelo, come nella migliore tradizione letteraria della seconda metà dell’Ottocento, in contrapposizione alla prima, che vedeva le figure femminili, nei romanzi più convenzionali, stereotipate nella loro angelicità (fatta eccezione per lo spessore di Lucia, nei Promessi Sposi). Queste donne sono belle, seduttive, tragiche, raffinate ammaliatrici, non più vincolate da un ruolo prestabilito, che le vedeva custodi del focolare domestico; ora sembrano imporre i loro desideri, causando spesso, con questo, la rovina degli uomini che hanno la sfortuna d’incontrarle. Si tratta di amori-passioni a volte devastanti, che non mirano al matrimonio, alla legittima procreazione, ma sono vissuti dolorosamente, da ambo le parti, nella consapevolezza dell’emarginazione sociale, dell’isolamento, avulsi come sono dai valori convenzionali. Anche l’arte si avvale della rappresentazione di codeste figure, in numerose variazioni, specie attraverso le immagini di eroine bibliche, un ammaliante coacervo di sensualità, crudeltà, forza, capace di far “perdere (in ogni senso) la testa”: basti pensare a Salomè che aveva piegato Erode, di lei invaghito a tal punto da omaggiarla della testa del Battista, o a Giuditta, che decollò, manu propria, il generale assiro Oloferne, dopo averlo sedotto, poi splendidamente immortalata dal pittore austriaco Gustav Klimt.
Numerose sono anche le cosiddette donne-vampiro, dalla bellezza oscura, orrida e irresistibile come le Gorgoni (il cui potere era quello di pietrificare le loro vittime con il solo sguardo), alcune delle quali s’ispirano proprio a Fosca di Tarchetti, tra queste alcune figure femminili di Verga, “Una peccatrice”, “Tigre reale” e la protagonista de “La lupa”, quale incarnazione della sensualità incontenibile e distruttiva. E arriviamo a noi, o meglio, alla nostra creatura che brandisce, unitamente alla pietà che ispira, lo scettro della donna psichicamente disturbata, simile a quello di Malombra di Antonio Fogazzaro: entrambe baciate dal fascino enigmatico, ma nel contempo dall’indole patologica e distruttiva, esasperata, fino a lambire i tremendi e spietati esempi dannunziani con Elena Muti in “Il piacere” e Ippolita Sanzio, votata all’erotica esperienza nel “Trionfo della morte”.
Iginio Ugo Tarchetti, esponente di spicco della Scapigliatura milanese, seppe tratteggiare una delle figure letterarie più intense e perdute che la memoria ricordi, la rappresentante idealmente perfetta della dedizione totale all’oggetto d’amore. A onor del vero, Tarchetti non creò l’immagine di Fosca dal nulla, ma s’ispirò a una sua storia personale con una certa Carolina o Angiolina, parente d’un suo superiore quando, a novembre del 1865, a Parma, prestava servizio nel commissariato militare, per poi abbandonare quella carriera dando libero sfogo al suo istinto da scapigliato e scrittore. Questa donna, come sarà poi Fosca, era epilettica e malata, prossima alla morte: con lei condivideva anche il sembiante, contraddistinto da occhi grandi e nerissimi e da capelli color ebano. Prima dell’incontro con Carolina, Tarchetti aveva intrattenuto una relazione di sette mesi con una donna sposata conosciuta a Milano, che gli fornirà poi lo spunto per il personaggio dell’amata Clara.
Il romanzo gravita ininterrotto attorno all’amore folle di Fosca, finanche dopo la morte della stessa, per Giorgio, giovane ufficiale che ama, riamato, una signora milanese, Clara, sposata, da cui è costretto a staccarsi a causa del proprio trasferimento; Fosca è malata, ma ancor prima del mortifero morbo, ciò che l’offende come donna è la sua indicibile bruttezza, lievemente mitigata dalla folta chioma corvina e dai vivi occhi neri:
Cristo lo ha detto: «Beati coloro che piangono perché saranno consolati». XV Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca. Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti uniti e ad un’ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla spicciolata) e mi trovai solo con essa. Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, così vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, — ché anzi erano in parte regolari, — quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine. (*277-78)
Fosca è il simbolo della malattia e della morte, che contagia l’altro e ne assorbe le forze vitali; così epilettica e isterica incarna l’alter ego femminile di Tarchetti, poi morto per tisi e impossibilitato a terminare il suo manoscritto, impugnato dall’amico Salvatore Farina. Il contrasto netto tra Clara e Fosca non attiene solo all’aspetto fisico, ma anche alla realtà che le circonda: Clara (nomen omen), ha un aspetto florido e sano e l’amore con Giorgio ha tutte le peculiarità del perfetto e del romantico, idilliaco. Clara rappresenta la luce e la vita, è forza e dolcezza che risana. Fosca, suo malgrado, rappresenta il contrario: il morbo oscuro e indefinito, l’inquietante mistero ancor prima dell’apparizione, i prodromi di una follia che si manifesta nelle grida…orribilmente acute, orribilmente strazianti e prolungate che echeggiano nella sala da pranzo e a cui Giorgio associa, per la prima volta, l’idea della morte. Il tema del dualismo è assai sentito durante il periodo della Scapigliatura, basti pensare alla poesia di Arrigo Boito, “Dualismo” che rappresenta, appunto, la scissione, nell’animo umano, l’anelito all’angelico e la spinta verso il satanico, il paradiso e l’inferno, la purezza e il torbido. Fosca è indubbiamente brutta, poiché la vissuta afflizione (un matrimonio sbagliato, un aborto e la perdita dell’agiatezza) le si riverbera sul viso - imago animi vultus - così magra e provata dalla malattia, con gli zigomi sporgenti al punto da rimandare all’idea di un teschio, con le ossa a vista; tuttavia la sua persona ha una grazia e un’eleganza sorprendenti:
Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati — occhi d’una beltà sorprendente. (ibidem)
Una lupa consapevole di risultare repulsiva, tuttavia dal suo volto strano e imperfetto promana un fascino che finirà per se-ducere Giorgio, il suo simulacro d’amore, vivo e vitale finché non verrà contagiato della sua stessa malattia e provato dall’abbandono repentino di Clara; un corto circuito emotivo, questo, che finirà per aprirgli, seppur tardivamente, gli occhi sulla meritevole abnegazione di Fosca, e che lo porterà a concederle il tanto agognato atto d’amore. È di questa morbosa passione che Giorgio scriverà nel romanzo: “Più che l’analisi di un affetto, più che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi d’una malattia – Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito”. Anche in questo sta la modernità e attualità dello scapigliato Tarchetti: la sua donna brutta rinfaccia, a noi lettori, l’ingiustizia di una società che impone alle donne il ruolo di seduttivi “oggetti d’amore”, perché il copione si ripete:
Tu non sai cosa voglia dire per una donna non essere bella. Per noi la bellezza è tutto. Non vivendo che per essere amate, e non potendolo essere che alla condizione di essere avvenenti, l’esistenza di una donna brutta diventa la più terribile, la più angosciosa di tutte le torture.
Fosca appartiene, coesiste in Giorgio, molto più di quanto lui non creda: le due donne della sua storia, Fosca e Clara (il buio e la luce), rappresentano la dicotomizzazione della sua personalità o, metaforicamente, l’etico dilemma del buono e del diavolo, come visto in Dr. Jekyll e Mr. Hyde, la teoria dell’ombra, dell’altro. Esiste, a mio avviso, un leitmotiv che ricorre nel romanzo e che attiene all’universo femminile e mi riferisco, nello specifico, alla chioma, ai capelli, nella fattispecie a quelli di Fosca: innanzitutto la “s-capigliatura”, la corrente letteraria a cui apparteneva Tarchetti, altro non significa che “disvelamento della chioma” e questa sorta di “tricomania sottile” è già ben evidente nella presentazione che lo scrittore fa della malata, come nel passo sopra riportato. Fosca possiede ciocche di capelli che, rigogliosamente folti e lunghi, diventano un ricorrente segno di pericolo del “disordine” che lei scatena. La chioma, forse sintomo più tenue degli altri quali la bruttezza e l’isteria, resta qualcosa d’intrattabile, perché è una manifestazione fisica del disordine psichico di cui entrambi, Fosca e Giorgio, soffrono. Poco dopo il loro primo incontro, Giorgio mette infatti grande enfasi nel descrivere la testa e i capelli di Fosca:
Ella stessa non mi parve in quel momento sì brutta, come mi era sembrata nei primi giorni della nostra conoscenza […] i suoi capelli neri, folti, lucentissimi, le scendevano scomposti per le spalle e ne incorniciavano il viso, la cui pallidezza e la cui magrezza erano estreme. (318)
Cosa c’è nei capelli di Fosca che cattura Giorgio in questo modo? Il leitmotiv dei capelli non è certo peculiare della Scapigliatura, porta con sé una ricca storia letteraria ed è un modo per mettere a fuoco una visione panoramica della letteratura del diciannovesimo secolo: poiché i capelli coprono la testa, ma sembrano crescere da questa e in una valutazione esterna della regione cerebrale, essi comprensibilmente finivano per essere una parola-chiave, coessenziale a molte culture e letterature. Essa sostiene sia una presenza dinamica intratestuale, riaffiorando attraverso la narrativa di Tarchetti, che una intertestuale, riapparendo nei lavori di altri Scapigliati e nelle opere di autori stranieri, come Poe, Baudelaire e Rossetti. Nel diciannovesimo secolo il corpo - soprattutto i capelli, gli occhi e i piedi - è diventato un simbolo importante dell’onirologia freudiana. Lo sviluppo di Freud della psicanalisi e il suo lavoro con la sessualità erano essi stessi un riflesso delle trasformazioni del progresso, così come loro influenzavano il corpo e la psiche. Le parti del corpo divennero, come Freud provò, simboli molto leggibili e dicibili, una voce somatica per la psiche. Il topos della chioma, simbolo della Scapigliatura, è ravvisabile anche in un’altra opera di Tarchetti, “Le leggende del Castello Nero”: il narratore racconta di uno strano evento occorsogli durante la sua giovinezza quando, dopo aver ricevuto un misterioso pacco a casa sua, fece due sogni, in uno dei quali una donna che egli sa essere la “dama del castello nero” che correva “ sola per gli appartamenti coi capelli neri disciolti, col volto e coll’abito bianchi come la neve […]”, la cui descrizione appare molto simile a quella che Giorgio fa di Fosca al momento del loro primo incontro.
In Fosca, il finale e più decisivo evento del leitmotiv dei capelli costituisce un preludio alla scena catartica in cui Fosca tenta di tagliarseli:
Mossi un passo verso Fosca. Ella rivolse il capo con un moto sì risoluto che i capelli, appena trattenuti da una reticella, si sprigionarono e caddero sulle spalle e sul collo. Mi guardò colle pupille scintillanti di passione . . . i capelli nerissimi ed abbondanti che contornavano il suo volto come in una cornice d’ebano… Poi con una specie di civetteria che contrastava stranamente colla sua natura, si accostò alla toletta, si lavò la faccia, aruffò bizzaramente i capelli . . . (415-18);
E ancora:
Si levò d’un balzo, corse ad uno stipo, prese un paio di forbici: poi venne a me, e me le diede; trasse innanzi i suoi capelli, li raccolse in un fascio colle mani, e mi disse sorridendo: “Recidili, mio bello, mio amore, recidili; sono tuoi. E siccome io mi ritrassi, afferrò le forbici e fece atto di reciderli ella stessa. Una parte dei suoi capelli le era sfuggita, tentò di riafferrarli e fu vano; io ebbi tempo di trattenerla. Hai ragione—mi disse ella—hai ragione; più́ tardi”. (422)
Per molti popoli antichi i capelli erano simbolo di forza vitale, quasi emanazione della potenza del cervello: un esempio di questa credenza, a tutti noto, è l’episodio biblico di Sansone, la cui forza si concentrava nella capigliatura. Quando Fosca implora Giorgio di tagliarle i capelli, lei gli sta anche pronosticando una fine, - ché lei li taglierà prima o poi - lasciandolo a meditare sulle sue parole agghiaccianti. Giorgio sa anche che quando Fosca avrà tagliato i capelli, lei morirà, perché lo spirito di ribellione (sessuale) è la sua unica forza vitale. Una particolare simbologia, infatti, connette i capelli al dolore e al lutto: tagliarsi i capelli, lasciarli incolti, cospargersi la testa di cenere o semplicemente coprirsi per un certo periodo i capelli sono atti simbolici stereotipati, di diffusione largamente attestata, con cui si manifestavano in forma visibile il dolore, l’amore non ricambiato o la disperazione. Ancora oggi la locuzione ‘strapparsi i capelli per il dolore’ indica una situazione estrema di sofferenza, tale da spingere l’individuo all’autodegradazione.
Sebbene Fosca non partecipi direttamente al duello tra Giorgio e il colonello, la sua assenza da tutte le altre scene restanti conferma il suo sospetto che, indipendentemente dall’esito del duello, è lei che sarà, in effetti, la perdente e inevitabilmente sottoposta alla soppressione imminente. La sua unica soluzione e ultima risorsa è, forse, il più potente di tutti i gesti per la libertà, vale a dire il non vivere affatto; un gesto incompiuto, questo, poiché il morbo scelse per lei.
(*Tarchetti, Igino Ugo, Tutte le Opere. Ed. Enrico Ghidetti. 2 vols. Bologna: Cappelli, 1967)
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