Lalla Romano e la scrittura che incide


Lalla romano

 

"Le parole tra noi leggere" e "L'uomo che parlava solo" sono due opere indimenticabili. Qui le indaghiamo con un lavoro di scavo che riflette la complessa profondità di un'autrice che, ancora oggi, ci sorprende per la sua eccezionale capacità di penetrare nei recessi più profondi della parola e della vita. Che, nell'arte, finiscono sempre e comunque per coincidere...

 

«Il cuore di una madre è un abisso in fondo al quale si trova sempre un perdono», diceva Honoré de Balzac (La donna di trent'anni, 1842) ed è un peccato che a questa umanissima e specchiata verità non faccia da contraltare il legittimo corrispondente inverso. Da madri, gettiamo amore sparso a caso come grano nei campi, ma ogni tenero virgulto ha vita propria e quella di Piero, figlio della Romano e protagonista, suo malgrado, del libro “Le parole tra noi leggere” (1969), è il vissuto di un uomo in perenne conflitto psicologico con sua madre, l’io narrante, genitrice ansiosa e apprensiva, pervasa da eccessivo, tossico slancio, riconosciuto a fine libro come errore:

«Io sbagliavo col suocero per lo stesso motivo per cui sbagliavo con mio figlio: per passione».

«L’io narratore è nello stesso tempo il detentore della realtà dei fatti e un partecipe, di primo piano, dei fatti 
stessi. L’io è insomma fortemente implicato nella narrazione: doppiamente implicato se si pensa che dopo aver
partecipato alle vicende, ricomincia a parteciparvi riferendone». (G. Pampaloni, «La prosa di Lalla Romano», in
«Intorno a Lalla Romano. Saggi critici e testimonianze», a cura di Ria Antonio, Milano, Mondadori, 1996, p.236). 
L’affascinante diario che ci consegna in mano la scrittrice e che gode di una sua acronicità, pur essendo stato
scritto nel ’69, è un’analisi lucida e dettagliata di un’esistenza altrettanto difficile e complicata, quella del figlio
intellettualmente predisposto, seguito dalle elementari fino alla fase matura del matrimonio e delle oggettive
responsabilità, un autentico:
«girare intorno a un personaggio vicinissimo e allo stesso tempo lontanissimo,come solo una persona così
intima ed estranea come un figlio può essere. Cioè un personaggio estremamente interessante per me,
non in quanto figlio, ma in quanto uomo, in quanto persona».
Codesto romanzo, vincitore di un Premio Strega, è quello che ha ottenuto il maggior successo tra quelli della
Romano; ciò non è tanto sorprendente dato il tema (la difficoltà di educare un figlio), che richiamava una recente
rivoluzione sociale (il passaggio dall’educazione cosiddetta repressiva a quella cosiddetta permissiva). Il libro è
stato pubblicato al momento giusto: nel clima del ’68, «col suo ricco e confuso corteggio di idee politiche e
psicologiche». (G. Pampaloni, ibidem, p. 242)

Proprio come un farmaco che va somministrato a giuste dosi, anche l’amore va forse calibrato e, come spesso accade nei molteplici contesti di vita, soprattutto quello comunicativo, non è tanto la caratura del “cosa” venga dispensato, nel mitizzato “tempo di qualità”, quanto quella del “come”. Essere madre può rappresentare la gioia più grande, ma si offre anche al rischio di recuperare necessariamente uno degli archetipi fondanti della classica tragedia e, come tale, dare il funesto avvio a tutta una serie di spinose, correlate problematiche, ivi compresa quella nefasta della bulimia amorosa:

«Non vorrei davvero capisse quanto bene gli si vuole. Se io sapessi di essere amato come io amo lui, ne resterei turbato e legato nei movimenti». (pos.659 ebook)

Dunque, credo che leggere “Le parole tra noi leggere” in età giovanile, ci renda virtuali sostenitori di un’astratta claque di Piero, poiché in lui ritroveremmo tutta l’insofferenza e il malcelato risentimento che, spesso, abbiamo maturato noi stessi nei confronti della potestà genitoriale. Il nettare che i nostri genitori riversavano in noi, ammantato di bene, si riverberava e fermentava nel suo molesto e pervasivo opposto.

Viceversa, riprendere in mano questo volume intimista e pacato in età più adulta, coinvolti spesso nelle medesime dinamiche frustranti, vale a dire alle prese con un figlio sfuggente, adolescente alla ricerca della propria identità, certamente ondivago tra il soddisfare le aspettative genitoriali, le proprie naturali attitudini e l’immediata propensione al gioco, ci invita a uno sguardo più empatico e indulgente sull’immagine di madre e scrittrice piemontese e a rivalutare la missione ardua dei nostri genitori. L’occhio clinico di figlio, refrattario ai canoni molesti, muta in quello dell’ansiosa madre, provocatrice suo malgrado, sempre in cerca della chiave di svolta all’incomunicabilità e all’incomprensione, un tragico conflitto che stenta a guarire i due lembi di medesima ferita, «giacché a scontrarsi sono due entità, ciascuna dotata di propria legittimità e ragion d’essere».

Il conflitto affettivo tra la madre e il figlio viene percepito da Cesare Segre («Introduzione in Lalla Romano», 
Opere vol. 1, Milano, Mondadori, 1991) come quello tra le forme: «Il figlio ama, però in forme diverse da quelle
che la madre si attende, che saprebbe riconoscere; la madre ama, però con forme (passionali, esplicite, anche
prepotenti) che il figlio rifiuta, pur accettando implicitamente l’amore».
La sostanziale incomunicabilità sta nella riservatezza della madre e l’introversione del figlio. Tutto ciò evoca la
tecnica della Romano: «Accumulo di piccole osservazioni con la speranza di giungere ai significati basilari.
Ecco perciò questa espressione bellissima: “leggere” il figlio».

Raccontare lʼambivalenza del rapporto madre-figlio non è mai semplice: le donne non ne parlano mai, preferiscono nascondere sotto il cappello dellʼistinto materno le difficoltà. Invece la maternità si paga, ti ruba qualcosa. E nello stesso tempo ti regala un’esperienza unica, lʼincontro con lʼaltro, laddove consenziente.

Ed è qui che giunge a esibire le molteplici difficoltà del caso la nostra Lalla, cavia parlante di un processo evolutivo che non decolla, che non sortirà gli escatologici effetti da lei sperati, che parossisticamente la allontanerà ancor di più da suo figlio, rea di un eccessivo sussulto affettivo, ma allo stesso tempo miope presenza dell’esasperata riservatezza di Piero; un uomo che neppure da adulto le perdonerà questa pessima pedagogia che finisce per generare l’ottima letteratura a noi giunta, attraverso le pagine di un libro, questa pubblica affissione della sua interiorità, una vivisezione lucida di sé a cui opporrà il più ostinato e oltranzistico dei silenzi. Quanta colpa c’è, dunque, nel narrarsi attraverso i figli, nell’esporli nel teatrino della socialità? Narriamo di noi e di loro per cercare risposte e migliorare così la nostra vis materna, oppure i nostri scritti celano solo uno spiccato narcisismo, un elevato bisogno di conferme? Domande che si creano da sé, oggi, nel fumo pervasivo della rete:

«È un libro lucido, trasparente; ma un’ombra lo segue. Io non riconosco la colpa di cui sono stata accusata, quella cioè di aver “usato” un essere umano: la colpa per eccellenza, secondo Kant. Se chi scrive sempre in qualche modo “usa” gli esseri e se stesso, allora sì, è vero. Ma nel mio caso c’è l’aggravante che la vittima è un figlio: il mio stesso figlio». (Prefazione)

Fino a che punto una madre aiuta, o piuttosto, mette in difficoltà un figlio, negli anni misteriosi della sua formazione? Analizzando lo scritto, affiora il sospetto che l’intento vagamente machiavellico dell’autrice, quello cioè di controllare la crescita intellettuale del figlio in ogni suo aspetto, finisca per sortire l’effetto più temuto, un silenzio carico di emozioni negative: «Di fatto scrisse Calvino ne “L’avventura di un poeta” – ogni silenzio consiste nella rete di rumori minuti che l’avvolge: il silenzio dell’isola si staccava da quello del calmo mare circostante perché era percorso da fruscii vegetali, da versi d’uccelli o da un improvviso frullo d’ali». Come madre fa ricorso a mezzi universalmente sbagliati, a “rumori minuti” che somigliano piuttosto a domande inquisitorie, a un’ermeneutica materna e materica, un fallibile gioco a incastri che unisce frammenti di diario, lettere, disegni, temi scolastici, frutto di una sorta di trainspotting della memoria e delle viscere, tra apologia di sé e dolorosa confessione.

Mezzi, per quanto errati, che nascono tuttavia con il più modesto fine di ridestarlo da una silenziosa chiusura, atteggiamento evocante quello del giovane, riservato e schivo Törless (non a caso ‘senza porta’), di Musil: «Vuoi un consiglio? Non scrivere su di me», l’ammonisce il figlio e «Io non voglio essere nominato!».

Nel nostro caso, una testarda scalatrice che impiega il suo strumento migliore, la parola, per aggirare la montagna impenetrabile che lei stessa ha generato:

«Io gli giro intorno, con circospezione, con impazienza, con rabbia. Adesso, gli giro intorno; un tempo invece lo assalivo. Ma anche adesso ogni tanto – raramente – sbotto. Allora lui mi guarda con la sua famosa calma e dice: Tu mi manchi di rispetto!».

Una mesta, ma caparbia lotteria in cui una madre cerca in ogni modo di estrarre il termine vincente dal sacchetto dei ricordi.

Quando, tempo dopo la sua pubblicazione, qualcuno le scrisse per domandarle se avrebbe dato lo stesso alle stampe il libro, avendo potuto sapere per tempo quanto sarebbe costato a suo figlio e a lei stessa, lei rispose “”; mossa, dunque, da una sorta di insana coazione a ripetere i pedagogici errori, convinta che l’intrusione nella vita non possa cancellare l’altra verità, quella della poesia, così come non si può evitare il dramma, irrimediabile, che «anche un libro è un figlio», per uno scrittore o una scrittrice. L’impossibilità di risolvere, attraverso la scrittura, il dissidio tra una madre e un figlio, è poi denunciata dall’amara circolarità del testo, che lascia irrisolte le tensioni dei protagonisti.

Amore materno che dona, Agape (γάπη), pur non ricevendo in egual misura, in contrapposizione a Eros (έρως), l’amore passionale, quello destinato alla sofferenza, all’istinto distruttivo, come ammoniva Schopenhauer.

«L’ultima volta se ne è andata, un po’ ingobbita, ma abbastanza svelta. Non si è nemmeno voltata indietro. Ed è ben l’ultima volta, quella che conta».

(“L’uomo che parlava solo”, ed. Mondadori, 1995, p.180)

Leggendo “L’uomo che parlava solo” mi ricordai di un quadro di Magritte, dal titolo “La casa di vetro”: l’opera del grande surrealista belga rappresenta un individuo posizionato di spalle, il quale, proprio per questo motivo, non mostra il volto e cioè la sua identità, le sue emozioni, come un più blando ritratto pittorico del Mersault di Albert Camus. Queste ultime, però, sono percettibili attraverso uno squarcio che si apre sulla nuca dell’uomo, poiché da esso lo spettatore vede una parte del volto. Il significato dell’opera rimanda alla doppia componente della mente umana: conscia e inconscia.

Il surreale è questo istante:

«Tutti gli orologi si sono fermati.

Io mi trovo in bilico, fermo su un punto. No, è un filo: teso.

Dovrei percorrerlo, passare di là; se sarò capace, se non cadrò nel vuoto.

Questo filo davanti a me non so nemmeno se sia il mio futuro o il mio passato.

Se mi muovo, gli orologi riprenderanno a battere». (ibidem, p.7)

Il corto circuito emotivo da abbandono lo coglie così, su una panchina, di fronte al mare.

Inizia qui il logorante eppure inevitabile viaggio a ritroso, “l’occhio nucale magrittiano” di un uomo non più giovane, abbandonato dalla sua giovane amante.

Così, nel soliloquio di uno che non avrebbe, a detta dell’autrice, mai scritto un diario, egli ripercorre i momenti con Alda, ragazza amante della vita “ai margini”, alla ricerca di un dettaglio diverso per qualcuno di essi, così da sovvertire il temuto finale:

«Posso pensare che tutto sarebbe accaduto lo stesso, anche se l’inizio fosse stato un altro. Che importanza può avere, in sé? Un’inezia. E questo è bene un mondo in cui un’inezia può mettere in moto forze enormi, schiaccianti». (ib., p.9)

«L’enigma, in fondo, rimane questo: a che scopo?». È con domande come questa che il protagonista, l’uomo che parla solo, si trova invischiato corpo e beni in quello che lui chiama la “grande macchina”, che è poi la macchina dei sentimenti e dei fatti, che bene o male siamo costretti a far andare. Un individuo dalla natura contraddittoria, quest’uomo: funzionario di banca, ma burocrate dotato di una certa poetica sensibilità, di origine contadina, ma attratto dalle scienze esatte, austero e libertino insieme, un “dongiovanni involontario” lo definì meravigliosamente Vittorio Sereni, trovandovi affinità con se stesso. Un uomo tuttavia per nulla compiaciuto, un ignaro viveur dall’aspetto clericale: «Alda mi ha detto una volta: In te c’è qualcosa del prete» che, com’egli stesso dice «al momento di morire è il più povero. Non ho risolto nulla, capito poche cose, goduto senza passione». (ib., p.90)

Dunque, da uomo semplice qual è, per dirlo alla Ferrante, «reimpara – anche lui – il passo tranquillo di chi crede di sapere dove sta andando e perché»; recupera le poche, rassicuranti certezze che ha acquisito al pari di una serena e sudata pensione e si avvia a riprendere, da nocchiero mutilato, quel nóstos (νόστος) odissiaco, “un ritorno a casa” metaforico con la fedele moglie Nora, ignara e refrattaria a tutto ciò che scompagini il suo quieto libro quotidiano, figurarsi una passione clandestina del consorte:

«Non vediamo, quello che muta insensibilmente, inesorabilmente, sotto i nostri occhi. Non si vede nemmeno il mutamento improvviso, totale. Si ha invece il presentimento, e non si vuol credere al presentimento. Stiamo ancora lottando con esso, non vogliamo arrenderci, e già tutto è passato. L’irreparabile è avvenuto ». (ib., p.12)

Gli argomenti morali, convenzionali che Nora avrebbe opposto, se avesse saputo della storia, sarebbero stati solo un’applicazione severa esatta di precetti, di norme, ma anche strani e logici, perché «questa è la sua logica, rozza, grossa, macina ogni cosa, ignora le sfumature. Per lei non c’è che bene o male. Di qua o di là». (ib., p.19)

Sorseggiare da soli l’amaro calice del vuoto, solo questo occorre apprendere.

Per farlo, si è costretti ad aggrapparsi come piovre alla noia faticosamente ricamata in due per anni, in un mesto sodalizio coniugale, semplice, dove «quello che per Nora è la casa, per me è il lavoro. Un alibi». (ib., p.15)

Dentro il pozzo fondo di questa mesta ruminazione cerebrale, l’uomo ravvede tutti i lutti che vanno poi a sommarsi a quello più recente, l’abbandono da parte di Alda, le morti precoci dei genitori, la perdita di una figlia appena nata, la mancata nascita di un altro figlio, ragione della sonda curiosa dell’amante:

«Infinite sono le strane, fredde sfumature, fili di ragno che irretiscono, impediscono, soffocano.

Di quante impercettibili freddezze è fatto un disamore, anche senza un atomo di odio.

Io penso persino: di quanti atomi di virtù è fatto un peccato; di quante timide esitazioni una ripulsa.

Di quanti ambigui silenzi un no». (ib., p.45)

In questo mirabile pensiero dimora, a parer mio, tutta la linguistica altezza dell’eloquio romaniano: ciò che interessa la scrittrice non è l’abbandono nostalgico al passato, ma appunto l’esattezza, la verità, che si raggiunge con lo strumento di un’analisi e autoanalisi coraggiosa fino alla crudeltà. Dunque assistiamo alla vivisezione di un ménage coniugale come tanti, ora tratteggiato con benevolo intento, ora secco e crudo ai limiti del cinico, fino alla conclusiva autoassoluzione:

«D’altronde, anche se fossi stato con lei il più amoroso dei mariti, sarebbe stata ugualmente gelosa. Io ho idea che la gelosia nasca da un’ammissione di debolezza: rendersi conto che qualcosa dell’altro ci sfugge e ci sfuggirà sempre. Perciò è irrimediabile». (ib., p.79)

Dello stile della Romano la critica ha messo in risalto «lo splendore semplice, non esibito» appreso dalla lezione di Flaubert, di cui è stata traduttrice. Significativo, a questo proposito, il contributo di Monsignor Ravasi di sintetizzare, in una frase, il senso della vita e dell’opera dell’autrice: «Lalla ha portato dentro di sé il seme della domanda, una ricerca agostiniana che non aveva fine». Dunque soliloquio, conversazione con se stesso come «ricerca interiore, solitaria, non espressa direttamente nella vita, ma puntualmente al di sotto o al di sopra di essa». La narrazione si svolge per forza interna come una lenta, faticosa ma dolorosamente sincera confessione:

«Io penso, penso; o meglio, parlo, rimugino. Questo ruminare non è da svegli, è una forma di sonnambulismo. Diventa fine a se stesso. Infatti: è la capanna che mi costruisco per sopravvivere  – nell’isola – con i rottami della mia nave». (ib., p.83)

A volte l’assenza è più definitiva della morte, l’uomo detesta parlare con gli assenti, con i morti, dunque la nostra sopravvivenza consisterà nel non parlare dei morti, nell’essere abbastanza vecchi e saggi da sapere che tutte le strade possono perdere, tutti i trabocchetti si possono aprire, se ricreiamo le mancate figure:

«Non c’è nobiltà nella caduta, non c’è dignità nella frenesia. No, non l’urlo, e nemmeno il pianto» (ib., p.89)

L’unica soluzione resta allora quella di parlare da soli, non a se stessi, sia chiaro, non è un catartico espediente per lavarsi la coscienza da propri errori o inettitudini, o un segno di stravaganza, di stranezza; è piuttosto, come sostengono gli psicologi quando cercano di spiegare il fenomeno del soliloquio, un mezzo che la nostra psiche attua per autocontrollarsi, per ridurre i comportamenti impulsivi, per sviluppare un migliore processo decisionale e, nel caso del protagonista, per attuare una ricerca di senso al tutto:

«Chi parla da solo si sdoppia. Ma io non mi rivolgo a me. Non sopporterei di darmi del tu. Parlo con Alda? Non credo. Il fatto è che io mi sdoppio, ma non in quanto parlo con me. Mi sdoppio e percorro due parallele. Di qua parlo, solo; di là sono quello che gli altri vedono, ascoltano. […] Io, più che altro, raccolgo, racconto. Considero, cerco di trovare un senso, un nesso tra i fatti, di comporre un certo ordine, una storia. Intreccio anche strade, figure. Entrano da sé, non le cerco. Mi servono». (ib., p.92)

Trovare un senso all’abbandono di Alda. L’ennesima conferma, forse, del suo spiccato senso libertario, perché «tale è la sua libertà. La libertà dei traviati, forse. Ma di quali? Perché lì c’è una possibilità di salvezza. Mentre a chi considera definitivo ogni passo, ogni errore, ogni caduta, la vita è un carcere, è l’inferno». (ib., p.130)

Ma forse qui dimora anche il conseguente vizio, il ripensarci. Ma se uno non crede che i nostri atti e le nostre parole comincino e finiscano come oggetti, deve pur scavare, in essi, o scavare in sé; meglio, seguire una pista, vedere dove conduce. Soffermarsi a guardare, dopo aver solo veduto tante volte, i particolari di un quadro, chiudere gli occhi, riprendere il contatto con la realtà, sono tutti momentanei palliativi necessari come l’aria, dopo aver inizialmente vagheggiato la morte:

«I primi giorni dopo che mi ha lasciato, non ho pensato di uccidermi – se l’avessi pensato l’avrei fatto – però ho desiderato di essere morto. Adesso, in certi momenti penso: «Mi basta che sia esistita». Forse sono già capace di pensare a lei «come fosse morta». Dev’essere perché, in un certo senso, sono morto io». (ib., p.160)

«Il soliloquio - come scrisse Montale – resta un andirivieni del pensiero che circonda le cose, ma non le sconvolge», perché «per quanto si vada in fondo, in noi stessi, non possiamo trovare altro che noi. Gli altri rimangono, in noi, col loro segreto: come fuori di noi». (ib., p.179)

Chissà se esistono ancora dongiovanni involontari. Certamente sì. E ragazze come Alda, che scelgono di vivere ai margini? «Voglio sperarlo», si augurava la Romano, perpetuando, nel suo libello, l’eterno sopravvivere di umani sentimenti.


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Sono un giornalista, un cronista di provincia, da oltre vent’anni. Questo desideravo da piccolo e questo...Read more >>
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