Moravia, uno sguardo tra disprezzo e indifferenza
di Marina Brunetti
I libri di Moravia ancora oggi hanno molto da dire. Il suo occhio critico, lucidissimo, spietato, rappresenta uno modello di scavo a cui devono guardare le nuove generazioni…
“In Italia niente dispiace di più quanto una lucida intelligenza fornita di disgusto e ironia” (V.Brancati)
Vi sono libri eterni, perché eterno e squisitamente personale è il nostro “male di vivere”, non importa che siano stati scritti pochi anni orsono o quasi un secolo fa, restano sempre validi e mirabilmente compiuti proprio perché, al di là dello spaccato di vita, più o meno marcato, che ritraggono, sanno essere inconsapevolmente e disperatamente attuali. Ora, per noi, è il tempo in cui, come sosteneva Nietzsche, “non c’è più un alto e un basso, una destra e una sinistra, ogni cosa si avvolge su se stessa in un’assenza assoluta di orizzonte e di orientamento”, quello, cioè, che definiva come “l’ospite inquietante”, il nichilismo (illuminante, a tal proposito, il saggio del filosofo U.Galimberti, Feltrinelli, 2007).
Quasi un secolo è trascorso da quando Moravia, costretto a letto da un forzoso immobilismo scrisse, neppure ventenne, tra il ‘25 e il '28, questo capolavoro di romanzo che è Gli indifferenti:“In quel tempo scrivere per me fu un surrogato delle esperienze che non avevo fatto e non riuscivo a fare”. Di qui la forte preferenza per la tragedia che non era “il frutto di una riflessione fredda e critica, bensì quello di un’inclinazione sentimentale molto profonda”.
Eppure, pochi libri incarnano appieno un certo clima attuale che ci ritroviamo a respirare e a fare nostro come venefica aria; pochi personaggi riflettono uno scontento o, per meglio dire, un malcontento di vita avviluppante, povero retaggio che lasciamo ai nostri figli. I meccanismi inceppati del nostro ticchettio abitudinario ci rendono abulici, indifferenti, poco ricettivi, ancor meno reattivi, se non negli accessi rabbiosi, nei gesti inconsulti, nell’anassertività, nell’intemperanza, nello scarso equilibrio, nella frustrazione come sollecita e indesiderata dama di una compagnia che è solo quella con noi stessi, forse globalmente connessi, ma condannati a una deriva dell’esistere.
A distanza di tempo, trovo avvilenti affinità tra Carla e Michele Ardengo, due dei cinque protagonisti del romanzo che si svolge nell’arco di due giorni, e i giovani di oggi, in cui la qualità del disagio dimora proprio nell’assenza di valori, nell’afasia emotiva, nel futuro temuto come una minaccia piuttosto che essere sperato come una promessa, nella loro, spesso, incapacità di dare un nome alle emozioni, pur riconoscendo e assecondando le pulsioni. I due fratelli moraviani si votano a una vita sempre uguale, a una recita perenne d’ipocrisia e monotonia, conforme alla vacuità morale della borghesia degli anni ’20 e ’30, e gravata da una sorta di bifronte noetico, in cui i gesti, le azioni, non sono il frutto di ciò che pensano, ma semplicemente ciò che gli interlocutori spesso si aspetterebbero da loro. Tanto fa lo stesso, si convince Carla dentro di sé quando, ondivaga, non sa decidere se cedere alle lascive lusinghe dell’amante materno, Leo Merumeci:
“Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l’uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e illuminava le ginocchia di Leo seduto sul divano; un’oscurità grigia avvolgeva il resto del salotto.
“Mamma sta vestendosi,” ella disse avvicinandosi “e verrà giù tra poco.”
“L’aspetteremo insieme,” disse l’uomo curvandosi in avanti; “vieni qui Carla, mettiti qui.”
O trattenere ancora dentro di sé quella rabbia compressa, quel disprezzo solenne nei confronti della falsata allure della stessa madre che cerca, pirandellianamente, di mascherare la realtà per salvare le impudiche apparenze:
“Per te, finito […] per te … ma per noi … per me” […] “Se tu sapessi”, ella continuò con quella voce bassa, a cui il risentimento marcava le parole e prestava un singolare accento come straniero, “quanto tutto questo sia opprimente e miserabile e gretto, e quale vita sia assistere tutti i giorni, tutti i giorni …”.
Tutti, infatti, siamo condannati a vivere una vita non propria, per salvaguardare le apparenze:
“Perché rifiutare Leo? Questa virtù l’avrebbe rigettata in braccio alla noia e al meschino disgusto delle abitudini; e le pareva inoltre, per un gusto fatalistico di simmetrie morali, che questa avventura quasi familiare fosse il solo epilogo che la sua vita meritasse; dopo, tutto sarebbe stato nuovo; la vita e lei stessa”; […] “Finirla”, pensava “rovinare tutto” e le girava la testa come a chi si prepara a gettarsi a capofitto nel vuoto.
Una sorta di vertigine, quella di Carla, che Kundera (L’insostenibile leggerezza dell’essere) definisce ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezzo alla strada davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso.
Gli indifferenti è un romanzo di “figure perdute senza speranza nella vita più vasta”, la realtà italiana di allora ne esce con le ossa rotte dall’impietoso e poco benevolo tratteggio che Moravia ne fa, come non ne uscirebbe bene oggi, se Alberto Pincherle fosse ancora vivo. La spregiudicatezza sentimentale che eccede nel malaffare, l’egotismo belluino di un Leo Merumeci, che sfrutta la crisi economica degli Ardengo per prendersi anche la villa di famiglia, approfittando della scadenza di un’ipoteca, o di una Mariagrazia che fa scempio dei valori sacramentali della convivenza fingendo di esaltarli, i figli di lei che fanno finta di non sapere che Leo è l’amante della madre e il sacrificio cruento che forse loro vorrebbero eseguire, sangue che tuttavia non scorre mai. A tutto questo cumulo di macerie morali fa da contraltare un volto diverso, quello della fragilità morale di Carla e di Michele, dell’indecisione emotiva, nel sentimento di una rivolta che è solo superficiale, mai attuabile perché tanto “La vita non cambia”, pensa Carla nel suo vagheggiato obnubilamento dei sensi, “non vuole cambiare”; questo anche perché, come diceva Dostoevskij, ‘l’uomo è un essere che si abitua a tutto’, e questa è la sua migliore definizione. Michele è forse l’unico ad avere un sussulto di ribellione che vorrebbe tradurre in un ‘gesto risolutore’, ma è una rivolta interiore che, spiandosi allo specchio, è sopraffatta dalla sua stessa indifferenza, dalla sua, come degli altri, irrisolvibile inanità:
Un disgusto opaco l’opprimeva; i suoi pensieri non erano che aridità, deserto; nessuna fede, nessuna speranza alla cui ombra riposare e rinfrescarsi; la falsità e l’abiezione di cui aveva pieno l’animo egli le vedeva negli altri, sempre, impossibile strapparsi dagli occhi quello sguardo scoraggiato, impuro che si frapponeva tra lui e la vita; un po’ di sincerità, si ripeteva riaggrappandosi alla sua vecchia idea fissa, “un po’ di fede … e avrei ucciso Leo … ma ora sarei limpido come una goccia d’acqua”.
Il gesto mancato di un giovane Amleto che vorrebbe amare sua madre, pur detestandola.
Capolavoro d’analisi psicologica e lucidità, il romanzo presenta i temi principali della narrativa di Moravia: il comportamento sessuale e il rapporto con il denaro come chiave interpretativa della realtà umana e la rappresentazione della debolezza della volontà, morbo esistenziale che condanna all’ ‘indifferenza’, impronta del degrado del ‘buon senso’. Da qui la critica al mondo borghese fascista che è, si badi bene, un effetto e non lo scopo dell’autore:
“Se per critica antiborghese s’intende un chiaro concetto classista, niente era più lontano dal mio animo in quel tempo – afferma Moravia in “L’uomo come fine” (Milano, 1972), a proposito del suo primo romanzo – “Essendo nato e facendo parte di una società borghese ed essendo allora borghese io stesso, ‘Gli indifferenti’ furono tutt’al più un modo per farmi rendere conto di questa mia condizione. […] Che poi sia risultato un libro antiborghese è tutta un’altra faccenda. La colpa o il merito è soprattutto della borghesia”.
L’Italia ufficiale reagì assai male a questo libro, per più di un anno non venne pubblicato, lo stile aspro e spietato non venne apprezzato, così come lo svelamento dell’uomo che “vuole, non vuole e disvuole”, come lo definì Croce, che non piacque e ha continuato a non piacere alla media cultura italiana.
Le stesse tematiche, il sesso e il denaro, dipanate attraverso una sinossi del tutto differente, sono ravvisabili anche nel romanzo moraviano "Il disprezzo”, che è l’amore coniugale che si tramuta nel suo opposto, è quasi l’io narrante che fa parlare i protagonisti, Riccardo ed Emilia, e li manipola, ne modifica i ruoli fino al tragico epilogo finale.
Narrato da Alberto Moravia nel 1954 e pubblicato da Bompiani, si apre nella Roma borghese anni ’50 con i nobili propositi di Riccardo Molteni, uno sceneggiatore cinematografico ma di chiara vocazione teatrale, che presta il proprio genio a svilenti copioni, al solo scopo di compiacere la propria moglie, gratificandola di una casa di proprietà e di una vita senza ansie. Nell’incomparabile finezza del tratteggio psicologico proprio di Moravia, il romanzo si dipana in un alternarsi di riflessioni profonde, di interpretazioni di gesti e di pensieri che coinvolgono la capricciosa Emilia e il suo attento marito scrutatore Riccardo, desideroso di capire e di sovvertire con la ragione gli ormai sfilacciati sentimenti che la donna non si cura più neppure di nascondere e di cui lui, marito devoto, non riesce a spiegarne l’eziologia:
“io ti disprezzo...ecco quello che provo per te, ed ecco il motivo per cui non ti amo più...Ti disprezzo e mi fai schifo ogni volta che mi tocchi...Eccola la verità...ti disprezzo e mi fai schifo.”
Tanto emotivo accanimento è inspiegabile per un uomo pacato e riflessivo come Riccardo, abituato a risolvere piccoli drammi quotidiani come a portare avanti grandi frustrazioni lavorative con la forza della ragione:
“si svena del suo miglior sangue per il successo di altri e, sebbene la fortuna del film dipenda per due terzi da lui, non vedrà mai il proprio nome sui cartelloni pubblicitari dove sono invece indicati quelli del regista, degli attori e del produttore.
Il disprezzo che Emilia prova per lui non verrà mai sanato, non se ne conoscono le cause o il pretesto scatenante, né se ne verrà mai a capo, al punto che un sano e costante “Perché?” aleggerà fino all’ultimo nella mente del lettore, quasi a voler dare una possibile, seppur tardiva spiegazione, al protagonista sfortunato. Una domanda, questa, che assurge ad interrogativo universale sulla incomprensibilità delle relazioni umane, parafrasando la grande Alda Merini: ”In fondo, in questa vita nessuno viene mai capito veramente”:
“un male incerto provoca inquietudine, perché, in fondo, si spera fino all’ultimo che non sia vero; ma un male sicuro, invece, infonde per qualche tempo una squallida tranquillità.”
Assistiamo dunque inermi allo sgretolamento progressivo di Riccardo, al dolore che lo trasfigura, all’incomprensibilità che gli sconvolge il campo onirico in cui arriva a sognare la realtà che vorrebbe, proprio mentre un assurdo quanto banale incidente mette fine a tutti gli interrogativi, cosi come alle affettate maniere da viziata di Emilia, modesta dattilografa assurta alla velleitaria condizione borghese.
La crisi coniugale è il perno attorno cui ruota tutta la trama del romanzo, insieme al cinema, visto come mondo piegato alle esigenze di mercato e al riferimento all’Odissea; Battista, il produttore di Molteni, vorrebbe infatti che Riccardo creasse una sceneggiatura sulla falsariga del capolavoro omerico, dandole tuttavia un aspetto più spettacolare e in un certo senso volgare, con presenze femminili seminude e un Ciclope somigliante a King Kong.
Il testo omerico, tuttavia, subisce molteplici interpretazioni da parte dei personaggi nel romanzo moraviano, rappresentando in qualche modo lo specchio in cui Riccardo si riflette ansioso di trovare spiegazioni, dopo che il regista tedesco Rheingold ha insinuato in lui il germe del dubbio, propendendo per una sceneggiatura di stampo più analitico e psicologico: non è possibile che Ulisse abbia lasciato Itaca volontariamente perché non andava più d’accordo con sua moglie? Che avesse fatto di tutto per ritardare il suo ritorno a casa? Nella spiegazione di Rheingold, Ulisse, per amor di pace e per avidità di doni, consiglia alla moglie di accettare la corte dei Proci già prima della sua partenza per Troia, distruggendo così con la sua prudenza l’amore di Penelope, la quale accetterà il marito al suo ritorno solo a patto che egli dimostri di “reagire da uomo” ed uccidere i pretendenti.
Riccardo come Ulisse, Battista come Antinoo ed Emilia come una cieca e insensata Penelope che cede, stavolta lei, alle sirene del produttore, incapace di riconoscere il marito, così come l’omerica protagonista nel mendicante giunto a palazzo; un disconoscimento che getta lo stesso Riccardo nell’incapacità di identificare se stesso:
“Ciò che mi faceva soffrire di più, naturalmente, era la nozione di essere adesso non soltanto non più amato, ma anche disprezzato; però, incapace del tutto di trovare un motivo qualsiasi, anche il più leggero, per questo disprezzo, provavo un senso violento di ingiustizia e, insieme, insieme, il timore che, in realtà, ingiustizia non ci fosse e che il disprezzo fosse obbiettivamente fondato e che io non me ne rendessi conto, mentre per gli altri era cosa evidente. [...] Ora, ecco, quella frase di Emilia mi faceva sospettare per la prima volta di non conoscermi né giudicarmi qual ero, e di essermi sempre adulato, fuori di ogni verità.”
Un realismo tragico, di intensa drammaticità, magnificamente scritto e in cui si libra la cinica levitas dell’una, Emilia, capace di distruggere, nel disprezzo avulso da razionale spiegazione, l’intera esistenza dell’altro.
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