Un giorno, altrove


Un giorno, altrove di Federico Roncoroni, Mondadori.

 

Chi ti ama, ti inventa sempre come sei. (Fabrizio Morganti)

 

15-07Qualunque libro evoca in noi un sentimento, a volte ben più di uno. Non credo esista un libro capace di trasmettere abulica indifferenza, sarebbe un’implicita contraddizione. Nel caso di questo intenso libro, “Un giorno, altrove” di Federico Roncoroni (Mondadori, 2013) il sentimento, dirompente e coinvolgente, al punto da farci immedesimare nell’immagine umanissima di Filippo è dato, senza dubbio alcuno, dall’impatto empatico. Riporto fedelmente la descrizione espressiva ed appropriata che di questo sentimento ne fa Wikipedia: “L'empatia è la capacità di comprendere appieno lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. Empatia significa sentire dentro ed è una capacità che fa parte dell’esperienza umana ed animale. Si tratta di un forte legame interpersonale e di un potente mezzo di cambiamento. Il concetto può prestarsi al facile riduttivismo mettersi nei panni dell’altro, mentre invece significa andare non solo verso l’altro, ma anche portare questi nel proprio mondo”.

Filippo Linati è parte di noi, lo portiamo nel nostro mondo, condividendone a volte il doloroso percorso di vita, a volte la vita stessa come attesa. “Un giorno, altrove” è il racconto epistolare in chiave digitale del sussulto amoroso e mai sopito di Filippo, appunto, per Isabella, giovane ancella del suo affollato palcoscenico femmineo, fuggevole cometa nel corpo senza esserlo mai nella sua testa. Isabella ha condiviso con Filippo molti anni, in un’armonica e perpetua corrispondenza d’amorosi sensi intellettuale, ma anche gioiosamente sessuale, sfumata alcuni anni prima in prossimità di una dura e ostinata malattia che accompagnerà il protagonista in una sorta di limbo medicale, fatto di altruistico accudimento  e pervicace desiderio di trattenere la vita ad ogni costo. In virtù del debolissimo filo che lo lega ancora all’esistenza, Filippo si vota, scampato alla morte, a un’ascetica vita ritirata e discreta, imbibita come sempre di cultura e semplici piaceri, apprezzati ora molto più che allora:

“Come dopo il linfoma avevo capito che, dal momento che non ero morto, potevo ricominciare a vivere perché non aveva senso avercela fatta e continuare ad aspettare di morire, cosi, Isa, di fronte al tuo silenzio, era opportuno che cercassi di tenermi su in qualche modo, con l’aiuto di qualcun’altra”.

A volte, nella vita si lasciano finestre sottilmente schiuse perché, come scrive Giulia Carcasi,

“… le finestre siamo noi a chiuderle male, le lasciamo mezze aperte quando aspettiamo il ritorno di qualcuno”

(Io sono di legno, p. 86).

Da quella finestra di splendida villa su “quel ramo del lago di Como”, che Filippo lascia inconsciamente dischiusa rientra, anni dopo, una scarna lettera moderna, una mail di Isabella, il suo perduto amore; una lettera inaspettata che suscita in lui sconcerto e sorpresa, ma che lo proietta in una dimensione più passata che presente, in cui ripercorre come “sbocciavano le viole” delle loro schermaglie verbali, la complicità acquiescente, la cannibalesca intesa sessuale, fino a giungere al timido accenno a un progetto di vita comune, da lui mai del tutto archiviato. Non leggiamo direttamente di lei, perché il libro è una sorta di diario unilaterale, sappiamo tutto di Filippo ma non di lei, se non per “relata refero” dell’antico amante, poiché neppure lui sa dove si trovi:

“Ma tu l’indirizzo non me lo mandi proprio. Meglio cosi. Vivi nella rete, e tanto basta. “C’è chi vive in rete” mi ribatteresti se fossi qui “e c’è chi vive nella sua tana”. È vero. Ognuno vive dove gli pare”.

Le repliche costanti, ma verbalmente anoressiche di Isabella non riescono a quietare una sete curiosa, interrogativa, talvolta inquisitoria che, al diniego di lei, dell’antico legame e degli scabrosi trascorsi oppone ricordi, lusinghe, un’anima nuda e finalmente denudata dell’orgoglio di chi è stato abbandonato. Le risposte saranno un’arrendevole presa di coscienza, spietata come un morbo. Un finale inatteso, tanto sorprendente quanto l’attimo iniziale che lo ha germinato.

La nostra parte emotivamente ed empaticamente solidale erompe in tutta la sua pietas umana a strizzare l’occhio lucido alla causa amorosa di Filippo, a sorridere con lui dei suoi vezzi intellettuali e delle sue colte citazioni, dei ludici appellativi alla sua amata, a cum patire l’uomo ridotto ai minimi termini umani, che l’autore ci sa trasmettere senza per questo ascriverlo a rango autocommiseratorio o vittimistico. Piuttosto ci rende giustizia di un amore per la vita che è un modello assai coerente per gli ancora immuni da linfomi, un Filippo vagamente libertino e affamato di attimi d’autore prima della malattia, che si aggrappa all’esistenza con le unghie e con le mani scarne e bianche di oncologico paziente:

“Non mi va di vederti e basta. Ho faticato tanto – sofferto tanto, posso dirlo? – per spegnere il reattore e bloccare il processo di fusione del nucleo che, nelle condizioni in cui ero, mi avrebbe ucciso; ho faticato tanto che non ho proprio intenzione di andare a guardare che cosa c’è sotto la cupola di venti tonnellate di cemento con cui ho sigillato tutto”.

Questo magnifico romanzo di esordio di Roncoroni evoca, a mio parere, alcune intense affinità con un altro celeberrimo desiderio, anch’esso vagheggiato, ma forse più malato, quello di David Kepesh in “L’animale morente” di Philip Roth:

“Il sesso è la nostra più grande àncora, la nostra più sofisticata illusione di salvezza, non solo perché perpetua la specie, ma perché quel momento esclude dal tempo, ha un altro ritmo […] il ritmo della carne, che non è il tic tac dell’orologio, ma il riconoscimento della morte ed al tempo stesso la sua sfida”

Forse proprio quella morte che Filippo cerca inconsapevolmente di esorcizzare, prima di divenire preda della malattia e che strenuamente mette in atto durante e dopo la sua regressione:

“ed ecco d’improvviso caduta quella che Kepesh chiama l’”illusione del metronomo”: “è crollata l’illusione, l’illusione del metronomo, il pensiero consolante che, tic tac, ogni cosa accadrà al momento giusto… la più bella favola infantile è che tutto si svolge ordinatamente. I nonni se ne vanno molto prima dei genitori, e i genitori se ne vanno molto prima di te. Se sei fortunato, la situazione può essere questa, con le persone che invecchiano e muoiono ordinatamente...”.

Un’illusione metronomica che rende la vita più accettabile, pur con la sua implicita certezza di estinzione, ma che non è appannaggio di tutti i viventi.

Una storia di sesso e di morte, ma soprattutto di amore, la storia cioè, che racconta ogni vero, grande romanzo.


Articoli correlati:

I nostri redattori e collaboratori:

Sono nata a Pescara l’8 febbraio 1964, ho frequentato l’Università di Lettere con indirizzo storico-artistico,...Read more >>
Laureata in Sociologia, ma capisco (troppo tardi) che non fa per me. Corro ai ripari saltellando qua...Read more >>
Chiara Fadda, classe 1989. Vive nella sua Atlantide, la terra dal profumo di mirto e le coste azzurre:...Read more >>
Jessica Ferro è nata a Foligno nel 1981 e risiede a Perugia, dove nel 2008 si è laureata in Tecnica Pubblicitaria...Read more >>
View all authors

Seguici su Facebook