Storia e scrittura: il linguaggio della memoria
di Simonetta Cinaglia
Barbara Raggi ha pubblicato per i tipi di Editori Riuniti un libro che è solo a somma di un percorso che ha a che fare con le parole, dal recupero di quelle giù scritte, che testimoniano la storia dell'uomo, a quelle ancora da scrivere, per raccontare quella stessa storia attraverso percorsi attuali, interpretazionim confronti con la modernità. Il linguaggio ci serve per capire il passato, fissato su carte e documenti, e ci auta anche a capire meglio il futuro...
È uscito da poco Baroni di Razza. Come l’Università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali, Editori Internazionali Riuniti di Barbara Raggi e prefazione di Pasquale Chessa. Ultimo, in ordine di tempo, arricchisce la bibliografia della produzione storiografica dell’autrice. Barbara è la mia “amica di penna”, originaria del mio stesso paese, in bilico tra Toscana e Umbria, in cui passava le estati e poi ritornava a Roma. I nostri colloqui sono fissati nelle infinite lettere che ci si scambiava per lunghi inverni e sono ancora lì a testimoniare che la lontananza, allora, produceva testimonianze scritte del nostro tempo. Ora ci confrontiamo su un presente che, ancora di più, predilige la scrittura, divenuta mestiere. Lei storica e la scrittura è sempre tra di noi. Stavolta non è nostra esclusiva ma è il tramite con cui comunicare e veicolare i propri testi e le proprie curiosità.
Cara Barbara, parla un po’ di te:
Sono nata a Roma l’8 maggio 1965. La mia formazione è stata influenzata molto dalla famiglia d’origine, soprattutto dalle mie due nonne, una toscana, ambedue, ciascuna a suo modo, affabulatrici e narratrici di storie e canzoni. È stato poi un vantaggio e un privilegio crescere in una casa piena di libri di ogni genere e vedere gli adulti trarre un piacere, quasi fisico direi, dalla lettura.
Da dove nasce e trae energia il tuo amore per la scrittura?
Non lo so. Da quando ho imparato, ho sempre scritto, non sto sostenendo di scrivere bene o di avere un talento. Per me la scrittura è una forma naturale di comunicazione tra le persone. Sarà per questo che le e-mail hanno rimesso in gioco corrispondenze, veri e propri carteggi con amici e colleghi, vicini e lontani. Per affrontare un saggio, invece, ho bisogno di molta energia, una spinta non contenibile a raccontare un’epoca, un avvenimento. Nel profondo sono pigra: il mio sogno è acciambellarmi sul divano a leggere.
Parlami della tua bibliografia e delle tue collaborazioni:
Ho collaborato con le pagine culturali del Manifesto molti anni fa. Ora, qualche volta, scrivo per la Repubblica. Se fossi meno pigra, lavorerei di più… Ho scritto tre libri: La segregazione amichevole – La Civiltà Cattolica e la questione ebraica 1845-1945 (con Ruggero Taradel); L’Ultima lettera di Benito (con Pasquale Chessa) e Baroni di Razza – come l’Università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali».
Parlami del tuo ultimo libro:
Baroni di razza racconta i meccanismi attraverso i quali i docenti universitari che avevano partecipato alle Istituzioni preposte alla persecuzione antisemita, e sono stati riabilitati dai loro colleghi nel primo dopoguerra. La scelta narrativa è stata di puntare, per ogni capitolo, su un personaggio importante, raccontando la parte biografica mancante. Un oblio che non si sarebbe potuto mantenere così a lungo senza la collaborazione omertosa della gran parte delle élite italiane del dopoguerra. Di fatto, i protagonisti del saggio hanno avuto il massimo successo durante gli anni Cinquanta e Sessanta. Sono riusciti, a dispetto di tutto e di tutti, a mantenere inalterato il proprio potere accademico ed extra accademico.
Come nasce l’idea di scrivere su un determinato tema?
Di solito scrivo perché non trovo libri su ciò che mi interessa, lavoro sugli interstizi, sullo spazio lasciato libero.
Illustrami le modalità tecniche di studio delle fonti, con quale approccio ti muovi davanti ai manoscritti, quale metodo usi per individuare quelle giuste, dove le trovi?
Gli archivi sono dei luoghi meravigliosi, c’è un piacere fisico nell’aprire un faldone, estrarre le carte, spesso freddi documenti ministeriali, vedere il singolo documento all’interno del contesto che lo ha prodotto. Poi c’è il passaggio successivo: mettere in relazione la tua documentazione all’interno della trama della “storia grossa”. C’è un equivoco di fondo: ogni storico inizia una ricerca partendo da un’ipotesi e, se è onesto intellettualmente, cerca nei documenti la conferma o la smentita all’ipotesi iniziale. Nessuno va in un archivio sperando di trovare una sorta di “illuminazione” dalla lettura confusa di documenti o di fondi archivistici sparpagliati. Ho almeno un paio di ricerche abortite perché la mia ipotesi di partenza non ha trovato conferme documentali.
Come si crea un libro dalle fonti, come si passa dall’archivio, dalla letteratura grigia, che spesso nasconde notizie fondamentali, e se ti sei basata su questo tipo di fonti, insomma i ferri del mestiere che servono alla costruzione di un volume.
Ipotesi iniziale, ricerca delle fonti primarie e poi lettura di quanto più possibile è stato prodotto sul tema: libri, riviste, articoli di giornali. Per quanto si possa essere accurati qualcosa scappa sempre. Ci vuole molta pazienza, molto tempo per controllare tutta la documentazione, non cedere al tedio perché la pagina successiva del noioso saggio che hai in mano potrebbe avere una nota fondante per il tuo lavoro. Oppure, una lettera scritta in puro politichese può contenere informazioni personali preziose per la tua ricerca. E non pensare mai che, se lo storico più importante non è riuscito ad accedere a un documento, è meglio lasciar stare. Ci vuole anche un pizzico di fortuna e un fisico bestiale.
Sarebbe importante sapere da te qualche considerazione sul mercato editoriale, visto che ne fai parte e ne conosci i meccanismi, impegnatissima come sei ora a promuovere il tuo ultimo libro Baroni di razza:
«In Italia si legge poco in generale e ancor meno saggistica. Per di più si è affermata una saggistica storica molto narrativa, senza note, senza riferimenti, senza bibliografia. Ora, questi libri vendono molte copie ed è normale che un editore ci punti. Manchiamo di una buona editoria universitaria sul modello anglosassone. Al netto delle considerazioni, gli editori con collane di saggistica, e di storia in particolare, sono eroici: investono tanto per ricavare, a volte, molto poco. Ma quel che è più importante è che l’editore ti affianca un editor, una delle figure più importanti e più precarie della macchina editoriale. Un buon editor, e io ne ho avuti di ottimi, ha confidenza con la tua materia ma è capace di vedere il lavoro “da fuori”, di proporre correzioni fondamentali. È il vero tramite tra chi scrive e il lettore. L’editor è la voce del lettore. Irrinunciabile. Ed è irrinunciabile anche un buon ufficio stampa.