Quattro sassi
di Ester Maria Schmitt
Ho tre sorelle. La più grande di noi ci ha insegnato a essere forti come rocce un’estate in cui il caldo avrebbe liquefatto qualsiasi altro materiale, un agosto feroce e tagliente come il più gelido degli inverni. Da allora ci piace pensare a noi come a quattro sassi, e credo che in parte lo siamo diventate davvero.
Quell’estate morì la mamma. Il dolore era troppo grande perché potessimo trovare conforto l’una nell’altra, ci sono cose che richiedono solitudine. Restammo unite ma affrontammo la perdita da sole, ognuna per conto proprio, dovevamo fare i conti con qualcosa di sepolto così a fondo dentro di noi che era impossibile da portare in superficie, impossibile da condividere. Per quanto, non ne dubito, provassimo tutte e quattro le stesse identiche emozioni, un’arroganza mi faceva credere di essere più triste di loro, che per me fosse più dura, più difficile, più pesante: che per me fosse diverso. Un po’ come accade agli innamorati, che sono convinti che il loro amore sia qualcosa di unico, che mai nessun altro ha provato né proverà mai.
Non so se anche le mie sorelle si sentissero come me, dovrei chiederglielo.
Non credo lo farò.
Accadde verso l’una. Tornate a casa dall’ospedale ci preparammo una cioccolata calda, nonostante le temperature roventi avevamo bisogno di scaldarci il cuore, bisogno di mettere dentro qualcosa che andasse a riempire il vuoto. La bevemmo in silenzio, cosa c’era da dire? La mia testa era piena di pensieri eppure non riuscivo a mettere a fuoco nulla, ascoltavo un rumore bianco simile a quello che mi accompagnava da piccola mentre facevo il bagno nella vasca, quando mettevo la testa sott’acqua e riuscivo a sentire, ovattata e confusa, la tivù dei vicini di sotto. Ero avvolta da una nebbia di sensazioni strane, che dovevano essermi sconosciute eppure in qualche modo mi suonavano familiari; sensazioni che ho poi ricercato più volte, nel corso degli anni, riuscendo a farle riaffiorare senza difficoltà. È sempre stato così con i ricordi, siano essi profumi o colori; sia la memoria una voce che mi rimprovera, l’acqua fredda sulla pelle durante il primo bagno al mare o i sassolini sul ginocchio sbucciato dopo una caduta in bici: pesco il ricordo e lo rivivo, annullo in un secondo più di vent’anni e piango, di gioia e di dolore, per quell’infanzia che non riavrò più.
Rimanemmo sedute così per un tempo che non saprei definire, forse passarono pochi minuti, forse un’ora; a un certo punto ci alzammo, semplicemente era la cosa giusta da fare, alzarsi e affrontare la vita.
Siamo quattro sassi, sassi di fiume levigati, con striature di colori leggeri. La vita ci ha trascinato per chilometri e chilometri, ci ha fatto sbattere contro sassi più grossi, cadere da cascate vertiginose e sprofondare nel fango, prendere da mani sconosciute che ci hanno poi abbandonato nel buio di un cassetto. Altre mani ci hanno trovato e dopo anni ci hanno ridato la luce, mani di ragazzi gentili, mani di bambina, zampe di cani fedeli. Mi chiedo se essere roccia ci abbia indurito anche il cuore, ma non so rispondermi: non ricordo più come ero prima, e faccio fatica a immaginare come sarei diventata se il mio passato fosse stato diverso. So però bene come sono adesso e so che spesso me ne pento, perché esser sasso protegge ma purtroppo anche ferisce. C’è sempre un prezzo da pagare, ma ne sono felice: dà consapevolezza a questa mia nuova natura, la riveste di importanza e responsabilità. Non posso che essere grata alla mia scorza dura, è lei che mi ha salvato.
Ma anche la pietra può essere scalfita, e questo credo di averlo sempre saputo. Da bambina i sassolini li nascondevo, cercavo luoghi nascosti dove potessero riposare protetti, al sicuro, raccoglievo sassetti ovunque andassi per poi svuotare quelle tasche piene e pesanti accanto al tronco di un albero o alla base di un cespuglio, in una buca che rivestito di foglie. Guardavo la dimensione e non il materiale, rimanevo senza fiato di fronte a una parete rocciosa in montagna, provavo una sorta di reverenza; ma per ogni sassolino, per i ciottoli, per la ghiaia io ero in pena, temevo i tombini, le intemperie, le scarpe di persone disattente. Raccoglievo queste pietruzze e le mettevo tutte assieme così che potessero farsi forza, così che ognuna vigilasse sulle compagne: esprimevo con i sassi il concetto di gruppo, di unione, una nozione che evidentemente sapevo importante ma che non riuscivo a mettere in pratica con me stessa – io cercavo la solitudine, sempre.
Non sono cambiata. Ancora oggi il più delle volte rinuncio a chiedere aiuto o consiglio e affronto da sola le prove che mi si presentano davanti. Sbaglio, perché un sassolino, se lasciato solo, viene trascinato dalla corrente e finisce a valle, sperduto, tanti sassi insieme invece possono tener su una montagna e formare una diga, possono affrontare, e vincere, le sfide più dure. Ma noi sassi siamo testardi, caparbi, siamo pietra dura cocciuta e ostinata. Ci avviciniamo, in certe occasioni, ma poi per qualche motivo torniamo sui nostri passi. Preferiamo stare sole, soffrire di più e fare più fatica; preferiamo questo, oppure qualcosa, nella condivisione e nell’unione, ci spaventa.
A volte penso che con la mamma se ne sia andato anche il legante, il filo che ci univa era lei. Ci siamo fatte sassi, ci siamo fatte donne adulte ma abbiamo scordato le parole della mamma. Hai tre sorelle, mi diceva, non dimenticarlo mai.
Chissà chi di noi tre farà il primo vero passo, vorrei essere io. Vorrei tornare la bambina premurosa che ero un tempo, prendere noi sassolini nella manina, andare in cerca di un riparo ai piedi di un albero, scavare una piccola buca e lì posarci, tutte e quattro, l’una accanto alle altre. Farei tornare il collante, farei rivivere la mamma e le farei sapere che alle sue parole io penso sempre e che continuerò ogni giorno a ripetermi nella mente la sua raccomandazione, fino a farla mia.
Ho tre sorelle.
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